Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10738 del 05/06/2020

Cassazione civile sez. I, 05/06/2020, (ud. 08/01/2020, dep. 05/06/2020), n.10738

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1126/2015 proposto da:

Acea s.p.a., elettivamente domiciliata in Roma, in persona del legale

rappresentante pro tempore, Via Gioacchino Rossini, 18, presso lo

studio dell’avvocato Vaccari Gioia, che la rappresenta e difende,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Comune di Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, Via del Tempio Di Giove, 21,

presso l’Avvocatura Comunale, rappresentato e difeso dall’avvocato

Di Luccio Marina, giusta procura in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4698/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 11/07/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/01/2020 dal Cons. Dott. DE MARZO GIUSEPPE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del secondo

motivo, assorbimento del terzo;

udito l’Avvocato con delega scritta per la parte ricorrente, che ha

chiesto l’accoglimento;

udito l’Avvocato Pier Ludovico Patriarca con delega scritta per il

controricorrente, che ha chiesto il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata in data 11 luglio 2014 la Corte d’appello di Roma ha rigettato l’appello proposto da ACEA s.p.a. (d’ora innanzi, ACEA), quale mandataria di ACEA Distribuzione s.p.a., nei confronti del Comune di Roma avverso la sentenza di primo grado che l’aveva condannata al pagamento della somma di 58.500,00 Euro, a titolo di penale di 500,00 Euro per ogni giorno di ritardo nella riconsegna dell’area oggetto, in favore della prima, di una concessione di occupazione, al fine di posa di condutture per la fornitura di energia elettrica.

2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che l’inadempimento dell’obbligazione civilistica di restituzione nel termine previsto, da parte del concessionario, della cosa oggetto della concessione genera un obbligo risarcitorio che giustifica la previsione negoziale di una penale finalizzata a determinare l’entità del ristoro; b) che la disciplina, espressamente accettata dal concessionario, che regola lo svolgimento di un rapporto sorto in virtù dell’emanazione di un provvedimento amministrativo di concessione, ben può essere fonte per il primo di diritti e obblighi di natura privatistica; c) che il Comune di Roma aveva condizionato l’emanazione della concessione alla accettazione, da parte di ACEA, del regolamento generale contenente clausole di natura privatistica, tra le quali si collocava la clausola di cui all’art. 26, espressamente menzionante “penali di natura civilistica”; d) che ACEA neppure aveva indicato, in via subordinata, eventuali profili di nullità, certo non ravvisabili nell’imposizione di clausole da parte del contraente più forte; e) che la clausola distingueva esplicitamente il ritardo nell’ultimazione dei lavori da quello relativo alla riconsegna delle aree, assoggettando entrambi ad una penale giornaliera di 500,00 Euro; e) che l’ammontare della penale era giustificato dal fatto che l’inadempimento dell’esecutore aveva sottratto il tratto di strada interessato all’uso pubblico per un periodo di cinque mesi e che il ritardo era ancora più ingiustificato alla luce della deduzione di ACEA di avere completato i lavori molto tempo prima dell’avvenuta riconsegna.

3. Avverso tale sentenza ACEA ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso il Comune di Roma Capitale. In vista della precedente udienza del 7 novembre 2019, è stata depositata memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c., nell’interesse di ACEA.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nullità della sentenza e del procedimento in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, per avere la Corte territoriale con la motivazione sopra ricordata, eluso la questione sollevata con l’atto di appello, nel quale non si metteva in discussione la facoltà delle parti della convenzione di concessione di concordare preventivamente l’entità del risarcimento del danno, ma si controverteva della natura delle dichiarazioni di accettazione delle condizioni e degli obblighi di cui all’art. 26 del Regolamento cavi, dichiarazione effettuata in sede di richiesta della concessione temporanea di suolo pubblico.

Aggiunge la ricorrente che la dichiarazione, contenuta in un modulo predisposto dal Comune, era stata sottoscritta solo dall’ACEA, con la conseguenza che non poteva essere qualificata come espressiva di un contratto regolatorio del rapporto scaturito dalla concessione.

2. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del R.D. n. 2440 del 1923, art. 16 e dei principi emergenti dalla normativa di contabilità, nonchè dell’art. 97 Cost. e del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 107, per la mancata individuazione, come fonte del preteso accordo sulla clausola penale, di un atto sottoscritto da entrambi i contraenti.

3. I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione logica.

Essi sono fondati.

Dal sistema normativo emerge che è ben possibile che la p.a. concedente e il concessionario possano concludere una convenzione accessiva al titolo autoritativo e, anzi, siffatta modalità è anche normativamente prevista, ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 25, comma 1 (“Non possono essere effettuati, senza preventiva concessione dell’ente proprietario, attraversamenti od uso della sede stradale e relative pertinenze con corsi d’acqua, condutture idriche, linee elettriche e di telecomunicazione…”) e del D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, art. 67, comma 5 (“La concessione ad eseguire i lavori per la costruzione e la manutenzione dei manufatti di attraversamento o di occupazione è accompagnata dalla stipulazione di una convenzione tra l’ente proprietario della strada concedente e l’ente concessionario nella quale devono essere stabiliti: a) la data di inizio e di ultimazione dei lavori e di ingombro della carreggiata; b) i periodi di limitazione o deviazione del traffico stradale; c) le modalità di esecuzione delle opere e le norme tecniche da osservarsi; d) i controlli ed ispezioni e il collaudo riservato al concedente; e) la durata della concessione; f) il deposito cauzionale per fronteggiare eventuali inadempienze del concessionario sia nei confronti dell’ente proprietario della strada che dei terzi danneggiati; g) la somma dovuta per l’uso o l’occupazione delle sedi stradali, prevista dall’art. 27 del codice”).

Ma, nel caso di specie, non viene in rilievo una convenzione tipica, ossia rispondente ai requisiti puntualmente individuati dalla normativa appena indicata, quanto un impegno unilaterale ad osservare gli obblighi del “regolamento cavi” e, in particolare, le previsioni delle penali, impegno che, secondo l’accertamento operato dalla stessa sentenza impugnata, rappresentava una delle condizioni poste dal Comune per l’emanazione della concessione.

Ne discende che la soluzione adottata in concreto si discosta dai moduli negoziali espressamente individuati dal legislatore, con una scelta coerente con le regole generali in tema di contratti della p.a..

Come anche di recente ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un. 9 agosto 2018, n. 20684), a proposito del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, artt. 16 e 17 (“Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”), tali norme sono costantemente state interpretate nel senso della necessità della forma scritta – e per di più contestuale, ammettendosi la validità dello scambio di corrispondenza “secondo l’uso del commercio” ove le controparti siano “ditte commerciali” – per i contratti stipulati dallo Stato e dalle sue amministrazioni: tanto integrando una delle ipotesi richiamate dal n. 13 dell’art. 1350 c.c., per il quale “devono farsi per atto pubblico… sotto pena di nullità… gli altri atti specialmente indicati dalla legge”. La necessità della forma scritta è costantemente ribadita dalla giurisprudenza di legittimità, quale espressione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione e garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa, visto che solo tale forma consente di identificare con precisione l’obbligazione assunta e l’effettivo contenuto negoziale dell’atto, rendendolo agevolmente controllabile (così Cass. 26 ottobre 2007, n. 22537) pure in punto di necessaria copertura finanziaria (sul principio, v. pure, più di recente: Cass. 28 giugno 2018, n. 17016).

L’esistenza della sopra ricordata disciplina speciale, che prevede la stipulazione di una convenzione, ossia la conclusione contestuale di un accordo destinato a regolare i profili accessivi alla concessione, conferma siffatta direttrice di fondo dell’ordinamento e vale, in ultima analisi, ad escludere in radice – senza che occorra approfondire altri pur rilevanti profili – che un obbligo negoziale avente ad oggetto la previsione di clausole penali possa trovare il proprio fondamento nella mera adesione unilaterale a clausole contenute in un regolamento e non trasfuse in un testo contrattuale.

La Corte non ignora che questa sezione si è occupata di vicenda simile con a non massimata ordinanza resa da Cass. 14 ottobre 2019, n. 25849, concludendo per la natura negoziale dell’impegno attraverso la valorizzazione del suo carattere accessivo al provvedimento concessorio e richiamando la L. n. 241 del 1990, art. 11.

Tuttavia, nel caso di specie, a fronte di uno specifico motivo che denuncia la nullità per violazione della necessaria forma scritta imposta dalla normativa sopra ricordata, deve prendersi atto che la correlazione allo specifico provvedimento concessorio del quale si discute impone di giungere alle conclusioni sopra ricordate.

In senso contrario non depone l’art. 27 C.d.S., comma 5, laddove prevede che “I provvedimenti di concessione ed autorizzazione di cui al presente titolo, che sono rinnovabili alla loro scadenza, indicano le condizioni e le prescrizioni di carattere tecnico o amministrativo alle quali esse sono assoggettate”.

Ed, infatti, tali condizioni e prescrizioni hanno evidente natura autoritativa e non perdono tali caratteristiche – acquisendo quelle di clausole negoziali – per il sol fatto che ad esse il concessionario presta adesione.

3. Con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per avere la Corte territoriale affrontato, con una motivazione di stile, il quinto motivo di appello, con il quale, in via subordinata, si era chiesta la riduzione della penale in via equitativa.

Fermo restando che nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., si manifesta, in termini non univoci, la “rinuncia a perseguire la difesa degli altri motivi di ricorso” (e l’unico che pare residuare è il terzo), si osserva che, in ogni caso, esso resta assorbito dall’accoglimento dei primi due.

4. In conseguenza del disposto accoglimento, la sentenza va cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, cui si demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie i primi due motivi di ricorso; dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 8 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2020

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