Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10731 del 03/05/2017


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Cassazione civile, sez. II, 03/05/2017, (ud. 15/03/2017, dep.03/05/2017),  n. 10731

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2800-2013 proposto da:

G.G., (OMISSIS), G.F. (OMISSIS), D.R.M.

(OMISSIS), G.R. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in

ROMA, PIAZZA BAINSIZZA 1, presso lo studio dell’avvocato MAURO

MELLINI, rappresentati e difesi dall’avvocato PIETRO MARAGLIANO;

– ricorrenti –

contro

I.C., I.R., elettivamente domiciliate in ROMA,

VIA DOMENICO BERTI, 63, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE

ALIOTO, rappresentate e difese dagli avvocati IVO FERRARA, CALOGERO

DONES;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 920/2012 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 14/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/03/2017 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito l’Avvocato DONES Calogero anche per FERRARA Ivo, difensori

della resistenti che ha chiesto di riportarsi e deposita copia

ricorso notificato e cartoline;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

I coniugi G.G. e D.R.M. ricorrono avverso la sentenza della corte d’appello di Palermo che, riformando la sentenza di primo grado, li ha condannati a rilasciare un vano da loro costruito in sopraelevazione su un fabbricato sito in (OMISSIS), in proprietà delle sorelle R. e I.C.. La corte distrettuale ha accolto detta domanda di rilascio qualificando l’azione delle attrici come azione di restituzione e non di rivendica; peraltro, accertato che il vano in discussione era entrato in proprietà delle attrici per accessione, ha rigettato le due domande riconvenzionali dei convenuti aventi ad oggetto, una, l’indennizzo ex art. 936 c.c. e, l’altra, la demolizione del manufatto de quo (in quanto asseritamente realizzato in violazione di una servitù di veduta); la domanda di indennizzo è stata disattesa in ragione della abusività del detto manufatto e la domanda di demolizione è stata rigettata per difetto di prova dell’esistenza della pretesa servitù di veduta.

Il ricorso si articola in cinque motivi.

R. e I.C. hanno resistito con controricorso.

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 15.3.17, per la quale non sono state depositate memorie illustrative e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Col primo motivo di ricorso si lamenta la violazione degli artt. 112 e 99 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, in cui la corte territoriale sarebbe incorsa accogliendo l’appello sulla base della qualificazione della domanda delle sorelle I. – quale risultante dal tenore degli atti difensivi in primo grado – come azione di restituzione invece che come azione di rivendica.

Il motivo va disatteso, perchè la corte distrettuale ha motivato la propria interpretazione della domanda della attrici come azione personale di rilascio, invece che come azione reale di rivendica, e tale interpretazione non può essere attinta sotto il profilo dell’error in procedendo ex art. 112 c.p.c., ma è censurabile solo sotto il profilo dell’eventuale vizio motivazionale. Questa Corte ha infatti più volte chiarito (sentt. nn. 17451/06, 1545/16) che l’interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, la cui statuizione, ancorchè erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione dovesse ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato la erroneità di quella motivazione, sicchè, in tal caso, il dedotto errore non si configura come error in procedendo, ma attiene al momento logico dell’accertamento in concreto della volontà della parte.

Col secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 936 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e il vizio di omessa e illogica motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione alla statuizione di abusività del manufatto de quo. I ricorrenti denunciano la mancata considerazione della c.t.u. espletata in primo grado, nel passo in cui si riferisce che G.I. aveva presentato domanda di condono del vano in suo possesso, nonchè la insufficienza, illogicità e omissione della motivazione sul punto della asserita non sanabilità dell’opera e della mancanza di valore della stessa. Non solo, infatti, sarebbero in atti i documenti attestanti l’avvio del procedimento amministrativo di sanatoria, ma il c.t.u. avrebbe altresì quantificato in perizia i costi necessari ad ottenere tale concessione, ritenendo il bene sanabile e quindi certamente non privo di valore.

Il motivo va giudicato infondato alla stregua dei principi espressi da questa Corte, alla cui stregua, per un verso, nessun indennizzo può essere preteso, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1150 e 936 c.c., dal terzo possessore che, sul fondo altrui, abbia costruito un’opera in violazione della normativa edilizia, commettendo i reati previsti e puniti dalla L. 17 agosto 1942, n. 1150, artt. 31 e 41 e della L. 6 agosto 1967, n. 765, artt. 10 e 13 essenzialmente perchè quell’indennizzo sarebbe in contrasto con i principi generali dell’ordinamento ed in particolare con la funzione dell’amministrazione della giustizia, in quanto l’agente verrebbe a conseguire indirettamente, ma pur sempre per via giudiziaria, quel vantaggio che si era ripromesso di ottenere nel porre in essere l’attività penalmente illecita e che, in via diretta, gli è precluso dagli artt. 1346 e 1418 c.c. (cosi Cass. 26853/11); per altro verso, in tema di accessione, ove l’esecuzione delle opere con materiali propri su suolo altrui configuri illecito penale, il terzo non ha diritto all’indennizzo ex art. 936 c.c., salvo che il manufatto sia oggetto di regolarizzazione urbanistica mediante concessione in sanatoria, giacchè questa restituisce l’immobile ad uno stato di conformità al diritto, escludendo la sua futura demolizione (così Cass. 1237/16).

Da tali principi discende che l’indennizzo può essere riconosciuto anche per l’edificazione di un’opera abusiva soltanto se l’abuso sia stato sanato; in difetto di sanatoria, per contro, è irrilevante l’eventuale valore che di fatto l’immobile possa avere, non potendosi conseguire indirettamente, ma pur sempre per via giudiziaria, quel vantaggio che ci si era ripromesso di ottenere nel porre in essere l’attività penalmente illecita.

Nella specie, secondo la stessa prospettazione dei ricorrenti, la sanatoria è stata richiesta ma non concessa e, dallo stralcio della CTU riportato in ricorso, l’oblazione risulta non interamente versata. Correttamente, quindi, la corte distrettuale ha escluso il diritto all’indennizzo a favore degli autori dell’opera abusiva.

Col terzo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 101 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, in quanto la corte distrettuale sarebbe nuovamente incorsa nel vizio di ultrapetizione, avendo negato ai ricorrenti l’indennizzo ex. art. 936 c.c. nonostante che già in primo grado le attrici si fossero dichiarate disposte a corrispondere tale indennizzo nella misura liquidata dal CTU, e, peraltro, rilevando la pretesa abusività del manufatto senza che sul punto fosse stato provocato il contraddittorio ai sensi dell’art. 101 c.p.c..

Il motivo va disatteso, perchè, come si rileva dalla trascrizione delle conclusioni delle parti contenuta nell’ epigrafe della sentenza gravata, le sorelle I. nel loro atto di appello conclusero per il rigetto delle domande riconvenzionali proposte in prime cure dagli appellati (e non esaminate dal primo giudice, perchè assorbite dal rigetto della domanda di rilascio delle attrici, poi appellanti) e solo in linea di subordine formularono una dichiarazione di disponibilità al pagamento dell’indennizzo (“nella non temuta ipotesi di dichiarata ricorrenza dell’obbligo”). D’altra parte la regolarità edilizia ed urbanistica del fabbricato realizzato sul suolo altrui costituisce un presupposto del diritto all’indennizzo, con la conseguenza che la relativa mancanza è rilevabile dal giudice anche di ufficio e la deduzione al riguardo prospettata dalla controparte deve considerarsi una mera difesa, proponibile anche in appello, e non una eccezione in senso stretto. Nè, infine, ha pregio la doglianza relativa alla pretesa violazione del contraddittorio in cui la corte territoriale sarebbe incorsa ponendo a fondamento della propria decisione di rigetto della domanda di indennizzo degli attuali ricorrenti un rilievo – quello dell’abusività dell’opera – che non aveva formato oggetto di dibattito processuale; tale rilievo era stato infatti dedotto dalle appellanti nella loro comparsa conclusionale (come si legge a pag. 7 della sentenza gravata), cosicchè sul punto gli appellati erano messi in condizione di rispondere in sede di memoria di replica alla conclusionale avversaria.

Col quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1350 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè il vizio di omessa e illogica motivazione in relazione alla statuizione che ha negato l’esistenza della servitù di veduta pretesa dai coniugi G.- L.R.. I ricorrenti lamentano che la corte avrebbe, da un lato, trascurato le prove testimoniali dimostrative dell’esistenza di detta servitù e, d’altro lato, preteso di ritenere la stessa estinta per rinuncia, sulla base di fatti concludenti (l’essere stato il fabbricato de quo realizzato dagli stessi titolari della dedotta servitù), in violazione della regola che prescrive la forma scritta per gli atti di disposizione dei diritti reali immobiliari.

La censura relativa all’omesso esame delle prove testimoniali va disattesa perchè si risolve in una contestazione di merito in ordine all’apprezzamento delle risultanze istruttorie operato nella sentenza gravata, senza, peraltro, che le deposizioni di cui si denuncia l’omessa valorizzazione da parte della corte territoriale presentino il connotato della decisività. Al riguardo va ricordato che, secondo il costante orientamento di questa Corte, per integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (anche nel testo anteriore alla modifica recata dal D.L. n. 83 del 2012) è necessario l’omessa o insufficiente motivazione su circostanze specifiche “di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito” (così Cass. nn. 25756/14, 24092/13, 14973/06).

Disattesa la censura relativa all’omesso esame delle prove testimoniali, quella relativa alla forma della rinuncia ai diritti reali immobiliari risulta inammissibile per carenza di interesse, giacchè la statuizione negatoria della servitù di veduta dedotta dai coniugi G.- L.R. a fondamento della loro domanda di demolizione del manufatto de quo risulta autonomamente sorretta dalla ritenuta mancanza di prova al riguardo.

Col quinto motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, in cui la corte territoriale sarebbe incorsa omettendo di pronunciarsi sulla domanda riconvenzionale di condanna delle sign.re I. al risarcimento dei danni procurati ai coniugi G.- L.R. con la loro condotta illecita ex artt. 1175 e 2043 c.c.; nonchè il vizio di violazione e falsa applicazione di queste ultime norme.

Il vizio di omessa pronuncia è effettivamente sussistente, perchè la sentenza gravata, pur dando atto della domanda risarcitoria “in dipendenza del comportamento doloso della attrici” (pag. 7, secondo capoverso) si sofferma esclusivamente sulla domanda di indennizzo ex 936 c.c. e sulla mancata proposizione di una domanda ex 2041 c.c., senza in alcun modo esaminare e pronunciarsi sulla suddetta domanda risarcitoria; non può infatti considerarsi pronuncia su tale domanda l’affermazione che si legge nel terzultimo rigo di pagina 9 della sentenza (“La domanda risarcitoria è pertanto infondata”) perchè tale affermazione, pur contenendo l’improprio aggettivo “risarcitoria”, è chiaramente riferibile alla domanda di indennizzo ex art. 936 c.c., come fatto palese dalla congiunzione “pertanto”, la quale impone di collegare l’affermazione stessa alle argomentazioni sviluppate nel precedente paragrafo della sentenza, concernenti, appunto, la domanda di indennizzo ex art. 936 c.c..

L’accoglimento della doglianza di omessa pronuncia assorbe le altre censure prospettate nel motivo di ricorso in esame.

In definitiva il ricorso va accolto in relazione al quinto motivo, rigettati gli altri; la sentenza gravata va conseguentemente cassata con rinvio, perchè si pronunci sulla domanda di risarcimento danni ex artt. 1175 e 2043 c.c. proposta dagli odierni ricorrenti.

PQM

La Corte accoglie per quanto di ragione il quinto motivo del ricorso, rigetta gli altri e cassa la sentenza gravata in relazione al motivo accolto; rinvia ad altra sezione della corte di appello di Palermo, che regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2017

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