Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10730 del 16/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 16/05/2011, (ud. 03/02/2011, dep. 16/05/2011), n.10730

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16494/2007 proposto da:

G.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PIRENEI

1, presso lo studio dell’avvocato GENTILE Alfonso, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato SCHIANCHI ELISA, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

FONSPA – CREDITO FONDIARIO E INDUSTRIALE S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato PESSI Roberto, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato SIGILLO’ MASSARA

GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3721/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 08/06/2006 R.G.N. 9317/04;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

03/02/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO SERRINO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 3/5 – 17/7/06 la Corte d’Appello di Roma rigettò l’appello proposto da G.G. avverso la sentenza n. 4023/04 del Tribunale di Roma, con la quale gli era stata respinta la domanda diretta all’accertamento della illegittimità del licenziamento collettivo intimato anche nei suoi confronti e rispetto al quale aveva chiesto la reintegra nel posto di lavoro con condanna della parte datoriale al pagamento delle retribuzioni maturate fino al ripristino del rapporto lavorativo, dopo aver rilevato che i motivi del gravame, contenenti in parte anche censure dei tutto nuove, non intaccavano nella sostanza la correttezza delle decisione impugnata, per cui erano senz’altro condivisibili le conclusioni cui era giunto il primo giudice in ordine alla ricorrenza delle condizioni di cui alla L. n. 223 del 1991 per l’adozione del licenziamento collettivo da parte dell’istituto di credito appellato.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il G., il quale affida l’impugnazione a sette motivi di censura.

Resiste con controricorso la FONSPA – Credito Fondiario ed Industriale s.p.a., che deposita anche memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il G. si duole della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, circa l’eccezione preliminare di nullità della sentenza n. 4024/04 per motivazione apparente. In particolare il ricorrente lamenta l’acritica ricezione da parte dei precedenti giudici di merito del contenuto delle decisioni rese da altri loro colleghi in casi analoghi e ritiene che ciò comporti una motivazione solo apparente della sentenza oggi impugnata, con conseguente sua nullità.

Il motivo è infondato.

Invero, come questa Corte ha avuto modo in passato di spiegare (Cass. sez. lav. n. 132 del 10/1/1996), “la motivazione per relationem della sentenza di appello è legittima quando il giudice di secondo grado, pur richiamando nella sua pronuncia gli elementi essenziali della motivazione della sentenza di primo grado, si faccia comunque carico di confutare le censure contro di essa formulate con il gravame, essendo immune da critiche il modo di dar conto della soluzione adottata ove l’iter argomentativo risulti corretto. Pertanto, il fatto che il giudice di appello abbia richiamato e fatto propria la motivazione della sentenza di primo grado non è di per sè sufficiente per la cassazione della sentenza di secondo grado, tale conclusione giustificandosi solo se, anche integrando la parte motiva delle due sentenze, il procedimento logico risultante non appaia adeguato a sorreggere la decisione”.

Orbene, nel caso in esame il giudice d’appello spiegò che il primo giudice aveva esposto ampiamente le ragioni che sorreggevano le conclusioni cui era pervenuto, affrontando le problematiche dibattute sulla legittimità o meno del licenziamento impugnato e dando una risposta alle questioni sollevate col ricorso, e che la coincidenza con altre pronunce trovava giustificazione nel fatto che i ricorsi già definiti avevano un contenuto sovrapponibile a quello oggetto di disamina, essendo stati sottoscritti, tra l’altro, dal medesimo legale e rivelando la stessa esposizione di fatto e di diritto, oltre che la stessa “causa petendi” e lo stesso “petitum”, salvo marginali variazioni. In pratica, una volta condivise quelle ragioni, poste a base delle stesse questioni, non vi era motivo per discostarsene ed oltretutto la Corte di merito ha adeguatamente confutato le censure mosse alla sentenza impugnata, mostrando, in tal modo di non essersi limitata a recepirne acriticamente i contenuti.

Si impone, comunque, la cancellazione, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., delle frasi sconvenienti ed assolutamente offensive nei riguardi dell’operato del giudice Dr.ssa M. di cui alle pagine 10 ed 11 del presente ricorso e precisamente delle seguenti espressioni oltraggiose: “E non può esservi alcun dubbio che questo contegno illegale e anticostituzionale, oltre che prevaricatore da parte dell’Autorità”; “la dr.ssa M., lungi dall’agire secondo i doveri di buona fede e correttezza che sono imposti ad un funzionano della giustizia, si è limitata a presentare come sua una decisione altrui, usurpando la paternità di un elaborato che i documenti prodotti in atti dimostrano essere di altri”.

2. Col secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 24, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Attraverso tale motivo il ricorrente si duole della inadeguatezza della comunicazione preventiva dell’avvio della procedura di mobilità e chiede di accertare se una tale irregolarità possa ritenersi sanata da un accordo sindacale intervenuto al termine della procedura; nel contempo pone il quesito diretto a stabilire se sia adeguata una comunicazione di avvio di procedura che non individui il nesso di causalità tra la riorganizzazione e le specifiche posizioni lavorative, che non indichi le ragioni che hanno impedito il ricorso a soluzioni alternative al licenziamento, nè i profili professionali del personale eccedente e di quello abitualmente impiegato, nè i tempi di attuazione del programma e che non dia riscontro del metodo di calcolo delle attribuzioni patrimoniali; inoltre, chiede di verificare se sia legittimo l’accordo sindacale stipulato a conclusione della procedura di mobilità che abbia per contenuto il mero recepimento di decisioni prese in sede di altro accordo tra le parti sociali, precedente alla comunicazione preventiva, se l’impossibilità di reimpiego dei lavoratori o l’impossibilità di ricorrere a misure alternative siano presupposti necessari della disciplina del licenziamento collettivo per riduzione del personale e se la ricorrenza di un effettivo esubero di personale sia presupposto necessario per l’applicazione della L. n. 223 del 1991.

Il motivo è infondato.

Anzitutto, corre obbligo rilevare che è consolidato l’orientamento di questa Corte sul fatto che in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la L. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda, con la conseguenza che i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale, bensì la correttezza procedurale dell’operazione, per cui non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza una contestazione delle specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (in tal senso v. Cass. sez. lav. n. 21541 del 6/10/2006).

Nello specifico va, poi, rilevato che la lamentata inadeguatezza della comunicazione d’avvio della procedura non coglie affatto nel segno, posto che, come compiutamente spiegato nella sentenza impugnata, la stessa conteneva non solo un’ampia premessa che ripercorreva analiticamente i precedenti documenti e momenti di incontro sindacale (in particolare quello dell’accordo del 30/1/01), ma anche la dettagliata illustrazione degli specifici punti cui alla normativa di riferimento, vale a dire l’elencazione dei motivi di eccedenza, dei motivi tecnici, organizzativi o produttivi, del numero, della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale in eccedenza e di quello abitualmente impiegato, dei tempi di attuazione del programma di mobilità, di eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale dell’attuazione dello stesso programma, oltre che del metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle previste dalla legislazione vigente e dalla contrattazione.

D’altra parte il ricorrente non prova la dedotta inadeguatezza della comunicazione, vale a dire l’incompletezza o l’insufficienza delle informazioni rese con la stessa, così come non dimostra la loro idoneità a fuorviare o ad eludere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti all’organizzazione sindacale.

Nè va sottaciuto che dagli atti emerge chiaramente che la società agì nel pieno rispetto di due accordi sindacali (accordi del 30/1/01 e del 23-27/4/01) nel prevedere quale criterio di selezione dei lavoratori quello della maggiore prossimità al trattamento pensionistico.

Quanto ai profili professionali si rileva che dagli atti emerge che essi furono indicati nella lettera di avvio della procedura e, d’altronde, come giustamente evidenziato dalla difesa della controricorrente, i lavoratori appartenevano alla medesima categoria ed avevano il medesimo profilo professionale, essendo assolutamente fungibili tra di loro.

3. Con tale motivo si denunzia l’omessa pronuncia, con erronea e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, circa la domanda volta ad accertare l’irregolarità e conseguente inefficacia della comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9.

Nella fattispecie il ricorrente allude a quella parte della sentenza d’appello in cui fu precisato che restavano precluse, in quanto nuove, le questioni coinvolgenti la mancata esplicitazione delle modalità di applicazione dei criteri prescelti, la violazione del D.L. n. 158 del 2000, art. 7, comma 2, ed i lavoratori incentivati.

Sostiene, invece, il ricorrente che si trattava di questione correttamente rappresentata in primo grado, per cui insiste nel chiedere di accertare se la comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, non contenente le indicazioni sulle modalità con le quali erano stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità sia viziata da irregolarità e se una tale irregolarità comporti l’illegittimità del licenziamento.

Anche tale motivo è infondato, atteso che il ricorrente non prova affatto il contrario di quanto accertato dal giudice d’appello in ordine alla rilevata novità della questione oggetto del presente motivo, limitandosi ad operare il richiamo a generiche supposizioni tratte da altrettanto generiche deduzioni svolte in prime cure che comprovano, invece, la correttezza della decisione sul punto della affermata inammissibilità per novità della questione stessa in appello.

D’altra parte l’infondatezza del motivo discende anche dal fatto che è il medesimo ricorrente a dolersi dell’adottato criterio, nel corpo della lettera di comunicazione di avvio della procedura, dell’anzianità contributiva, per cui difetta anche il presupposto della lamentata mancata indicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità.

4. Col quarto motivo viene segnalata la violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

In sintesi, con tale motivo si sostiene che il datore di lavoro avrebbe dovuto farsi carico di dimostrare che nella fase applicativa del criterio di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità la loro individuazione era avvenuta in relazione alle esigenze tecnico- produttive ed organizzative del complesso aziendale; inoltre, supposto, secondo la prospettazione difensiva del ricorrente, che i due accordi sindacali non potevano supplire all’applicazione dei criteri di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, si imponeva da parte del giudice un sindacato esteso anche alla legittimità e ragionevolezza del criterio di scelta adottato al fine di evitare intenti elusivi della normativa da parte del datore di lavoro.

Il motivo è infondato.

Anzitutto, nella fattispecie l’accordo successivo del 23-27 aprile 2001 aveva superato addirittura un doppio vaglio sindacale, vale a dire quello negoziale, sfociato nell’accordo del 30/1/01, e quello del percorso legale di cui alla L. n. 223 del 1991, iniziato con la formale comunicazione del 29/3/01 di avvio della procedura L. n. 223 del 1991, ex artt. 4 e 24, all’esito dell’esaurimento del piano di ristrutturazione precedentemente intrapreso.

Invece, quanto alla doglianza che punta l’attenzione sulla asserita violazione del criterio di scelta adottato (quello della anzianità contributiva ai fini pensionistici) si osserva che si è già avuto modo di statuire (Cass. sez. lav. n. 9866 del 24/4/2007) che “in materia di licenziamenti collettivi – come sottolineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994 – la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessità dell’approvazione dell’unanimità), poichè adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dalla L. n. 300 del 1970, art. 15, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità oltre a dover essere coerenti con il fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori. Deve, conseguentemente, considerarsi razionalmente adeguato il criterio della prossimità al trattamento pensionistico con fruizione di “mobilità lunga”, oltretutto menzionato come esempio nella suddetta sentenza costituzionale, stante la giustificazione costituita dal minore impatto sociale dell’operazione e il potere dell’accordo di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, di sostituire i criteri legali e di adottare anche un unico criterio di scelta, a condizione che il criterio adottato escluda qualsiasi discrezionalità del datore di lavoro” (in senso coni Cass. sez. lav. n. 13691 del 7/12/99).

Nè si è esclusa la validità del criterio unico, quale, appunto, quello della prossimità del personale alla pensione.

Si è, infatti, affermato (Cass. sez. lav. n. 21541 del 6/10/2006) che “in materia di collocamento in mobilità e di licenziamenti collettivi, il criterio di scelta adottato nell’accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali per l’individuazione dei destinatari del licenziamento può anche essere unico e consistere nella prossimità al pensionamento, purchè esso permetta di formare una graduatoria rigida e possa essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro” (in senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 20455 del 21/9/2006).

5. Col quinto motivo si deduce l’omessa pronuncia, con omessa motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, circa la domanda volta ad accertare l’inapplicabilità del D.L. n. 158 del 2000, per indimostrata situazione di esubero del personale.

6. Col sesto motivo di denunzia, invece, la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 158 del 2000, art. 7. comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, facendosi riferimento al fatto che l’adozione solo parziale di strumenti alternativi al licenziamento era da considerare illegittima con conseguente nullità del licenziamento.

Il quinto ed il sesto motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto per essi valgono le ragioni di infondatezza sopra illustrate al punto 3, a proposito della rilevata inammissibilità di tali questioni per effetto della rilevata tardività della loro proposizione nella sola fase del giudizio d’appello.

7. Con l’ultimo motivo si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 147 e 150 CCNL del 19/12/1994, ritenendosi che la società aveva omesso di fornire alle organizzazioni sindacali le informazioni sui criteri oggettivi di individuazione degli esuberi, sull’effettiva sussistenza di uno stato di eccedenza del personale e sulla possibile attuazione di misure alternative al licenziamento. Anche quest’ultimo motivo è infondato in quanto lo stesso non scalfisce la “ratio decidendi” dell’impugnata sentenza che sul punto ha chiaramente evidenziato, con argomentazione immune da vizi di carattere logico-giuridico, che tutta la procedura si svolse attraverso il confronto con le organizzazioni sindacali, nel pieno rispetto dei vari momenti fissati dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, nonchè in ossequio a quanto previsto dagli artt. 147 e 150 del CCNL in tema di procedure di consultazione sindacale anteriormente ai processi di riorganizzazione relativamente alle loro ricadute sulle condizioni di lavoro del personale e da attuarsi prima dell’applicazione delle norme di cui alla L. n. 223 del 1991.

Il ricorso va, quindi, rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate a suo carico come da dispositivo.

Va ordinata, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., la cancellazione delle frasi offensive di cui in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3.500,00, per onorario, oltre Euro 68,00 per esborsi, nonchè I.V.A., C.P.A. e spese generali ai sensi di legge. Ordina la cancellazione delle espressioni offensive di cui alle pagine 10 e 11 del ricorso “E non può esservi alcun dubbio che questo contegno illegale e anticostituzionale, oltre che prevaricatore da parte dell’Autorità”; “la Dr.ssa M., lungi dall’agire secondo i doveri di buona fede e correttezza che sono imposti ad un funzionario della giustizia, si è limitata a presentare come sua una decisione altrui, usurpando la paternità di un elaborato che i documenti prodotti in atti dimostrano essere di altri”.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2011

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