Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10722 del 22/04/2021

Cassazione civile sez. VI, 22/04/2021, (ud. 23/02/2021, dep. 22/04/2021), n.10722

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCIOTTI Lucio – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31170-2019 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

C.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI

128, presso lo studio dell’avvocato VALERIA BISCARDI, rappresentato

e difeso dall’avvocato GIUSEPPE BISCARDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 275/1/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE DEL MOUSE, depositata il 03/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 23/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CATALDI

MICHELE.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle entrate, all’esito di una verifica fiscale, ha notificato alla Media Strade s.r.l. unipersonale, della quale era amministratore ed unica socia M.G., avviso d’accertamento relativo all’omessa contabilizzazione e dichiarazione di ricavi per l’anno d’imposta 2010.

L’atto impositivo non è stato impugnato e, successivamente, l’Ufficio ha notificato ad C.E. un avviso d’accertamento, in materia di Irpef relativa all’anno d’imposta 2010, con il quale ha imputato al contribuente il reddito da capitale derivante dalla presunta distribuzione a quest’ultimo degli utili extra-bilancio conseguiti dalla predetta s.r.l., a ristretta base sociale, per effetto dei ricavi accertati e non dichiarati.

Infatti, secondo l’Amministrazione, il medesimo C.E. era, di fatto, l’unico effettivo amministratore e l’unico socio della predetta s.r.l., e quindi l’effettivo possessore del relativo reddito da partecipazione, per effetto dell’interposizione della predetta M.G., cui le medesime qualifiche appartenevano solo formalmente.

Pertanto, l’amministratore e socio di fatto C. era, nella ricostruzione dell’Agenzia, il soggetto passivo dell’imposizione sulla maggiore Irpef dovuta, oltre ai relativi interessi ed alle correlate sanzioni, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, comma 3.

Il contribuente ha impugnato l’avviso dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Campobasso, che ha accolto il ricorso. L’Amministrazione ha proposto appello contro la decisione di primo grado e la Commissione tributaria regionale del Molise, con la sentenza n. 275/01/2019, depositata il 3 aprile 2019, ha respinto l’impugnazione.

Avverso quest’ultima decisione propone ricorso per cassazione, affidato ad un motivo, l’Agenzia delle Entrate.

Il contribuente si è costituito con controricorso.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con l’unico motivo l’Ufficio ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione “degli artt. 2639 e 2697 c.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4”.

Assume infatti la ricorrente che la sentenza impugnata violerebbe “i principi in materia di onere probatorio, avendo i giudici illegittimamente rilevato il mancato assolvimento di tale onere da parte dell’Ufficio”, in particolare con riferimento alla dimostrazione, nel caso concreto, della sussistenza dei presupposti atti a configurare il contribuente come l’effettivo gestore, di fatto, della s.r.l. unipersonale, sebbene l’Amministrazione avesse fornito, nel corso del giudizio di merito, una serie di indizi concreti al riguardo.

Aggiunge la ricorrente che erroneamente il giudice a quo avrebbe ritenuto che la versione erariale dei fatti fosse fondata esclusivamente sulle dichiarazioni fornite dalla stessa M., solo formalmente amministratore e socio unico della s.r.l. unipersonale.

Infatti, aggiunge la ricorrente, in ambedue i gradi di merito la stessa Agenzia aveva fatto presente “che non si poteva non tener conto del fatto che l’accertamento derivava da una verifica fiscale a cui aveva sempre partecipato il sig. C., nella qualità di “persona di fiducia e collaboratore nella gestione della società” per sua stessa ammissione”. Nè, prosegue la ricorrente, la CTR aveva tenuto conto “del fatto che la società in questione non aveva istituito le scritture contabili obbligatorie ed aveva rifiutato l’esibizione di tutti i libri (…)”, per cui l’Ufficio si è dovuto basare su presunzioni, comunque gravi, precise e concordanti.

Il motivo, come eccepito dal controricorrente, è inammissibile.

Giova premettere, per chiarezza, che è noto a questa Corte che, nelle società a ristretta (nel caso di specie unipersonale) base sociale, la presunzione relativa che i ricavi non contabilizzati e non dichiarati siano distribuiti, quali utili extra-bilancio, opera nei confronti dei soci, ma non anche delle persone fisiche titolari degli organi sociali, ove non siano anch’esse socie, giacchè “la presunzione concerne gli utili distribuiti ai soci e non agli amministratori ai quali, se non sono soci, non sono di regola attribuibili utili “(Cass., Sez. 6-T, ordinanza n. 1947 del 24/01/2019, in motivazione).

Pertanto, se vista in astratto, la questione dell’attribuzione al contribuente del ruolo di amministratore di fatto della s.r.l., e quindi quella dell’accertamento negativo di tale circostanza, cui è pervenuta la sentenza impugnata, potrebbe sembrare irrilevante ai fini della decisione sulla legittimazione sostanziale passiva dello stesso C., quale socio effettivo ed interponente, ai fini dell’imposizione.

Tuttavia, nella fattispecie concreta, l’Agenzia ha attribuito al contribuente anche il ruolo sostanziale di socio unico di fatto della predetta società, quale interponente nell’effettiva titolarità e nella gestione della relativa quota unica, formalmente spettante all’interposta M., e dunque quale effettivo possessore del reddito che ne deriva.

La stessa M., pertanto, che veniva ad assommare (come non è necessario, ma possibile) il ruolo di socio unico e quello di amministratore della s.r.l. unipersonale, sarebbe stata interposta dal C. in entrambi.

Pertanto, poichè nel caso di specie, tanto sul piano formale che su quello meramente fattuale, la persona che (per titolo formale o di fatto) deve considerarsi socia coincide con quella che deve ritenersi amministratore (per forma o di fatto), non appare decisiva la circostanza che tanto il ricorso ed il controricorso, quanto la sentenza impugnata, affrontino la questione controversa con riferimento alla figura dell'”amministratore di fatto”, piuttosto che a quella del “socio unico di fatto”, rilevante ai fini della presunzione della distribuzione degli utili “in nero”.

Nella sostanza, infatti, risulta palese che la questione controversa e decisa è quella del compimento o meno, da parte del contribuente, di atti gestione della quota unica, e quindi della società unipersonale, che rivelino, quanto meno dal punto di vista indiziario, che egli è l’effettivo titolare della partecipazione e del reddito che – per effetto della presunta distribuzione ai soci degli utili non dichiarati- ne deriva. Reddito che quindi egli, secondo l’Ufficio, “possiede” ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3.

Peraltro, a conforto della rilevanza dell’aspetto gestorio anche relativamente alla presunzione applicabile ai soci, va rammentato che, secondo questa Corte, la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dal contribuente anche “fornendo la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria (Cass., n. 1932/2016; Cass., 17461/2017; Cass., 26873/2016; Cass., 9 luglio 2018, n. 18042; Cass., 27 settembre 2018, n. 23247)” (Cass., Sez. 5, ordinanza n. 26317 del 31/01/2020, in motivazione, e precedenti ivi citati; conforme Cass., Sez. 5, ordinanza n. 26317 del.).

Tanto premesso, come eccepito dal controricorrente, il motivo, sebbene rubricato sotto le vesti della violazione e falsa applicazione di norme di legge, attinge la valutazione in fatto delle risultanze istruttorie effettuata dal giudice a quo, ciò che in questa sede di legittimità non è consentito, se non nei limitati spazi concessi dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel caso di specie non proposto (e non proponibile ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., comma 5, in tema di c.d. “doppia conforme”, come eccepito dal controricorrente). Infatti “E’ inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito.” (Cass. Sez. U. -, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019).

La pretesa violazione dell’art. 2639 c.c. (in materia di estensione delle qualifiche soggettive rispetto ai reati propri previsti, in materia societaria, dal libro V, titolo XI, capo IV c.c.), invero, appare estranea alla ratio decidendi espressa dalla sentenza impugnata, che non richiama tale norma per applicarla direttamente alla fattispecie tributaria controversa, ma solo quale riferimento normativo espresso della codificazione, nell’ordinamento, della rilevanza di un esercizio fattuale di poteri gestori sociali. E comunque, nessuna critica puntuale e specifica emerge, nella ricostruzione della figura astratta dell’amministratore di fatto prospettata nel ricorso, rispetto a quella accolta dalla sentenza impugnata, in ordine all’aspetto essenziale della necessità della sussistenza di un’apprezzabile attività gestoria, non episodica nè occasionale, non essendo sufficiente una mera collaborazione materiale di ausilio all’amministratore e socio unico formale.

Quanto poi alla violazione pretesa dell’art. 2697 c.c., va rammentato che “In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c..” (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018).

Nel caso di specie, nel quale peraltro è pacifico che spettasse all’Amministrazione provare, fosse pure per presunzioni semplice, l’assunta interposizione, non emerge dalla motivazione adottata dalla CTR alcuna inversione dell’onus probandi. Nè può ritenersi che lo stesso onere sia stato aggravato dall’elencazione, da parte della CTR, di una serie di verifiche che l’Amministrazione avrebbe potuto in ipotesi compiere per meglio istruire l’accertamento, atteso che, a prescindere da tale rassegna esemplificativa, il giudice di merito ha comunque respinto la tesi dell’Ufficio per l’inadeguatezza della prova concretamente offerta da quest’ultimo in giudizio, ovverosia le dichiarazioni della terza M. e quelle dello stesso C., che ha ritenuto insufficienti a dimostrare l’effettiva gestione imputata a quest’ultimo nell’accertamento, e piuttosto sintomatiche di un ruolo di mero ausilio materiale all’operato dell’amministratore, e socio unico, formale della s.r.l.

Inoltre, con riferimento specifico alle dichiarazioni della predetta terza, la CTR ha espresso un insindacabile giudizio di inattendibilità fondato sull’apprezzamento dell’interesse concreto di quest’ultima a sminuire il proprio ruolo di amministratore e socio unico formale (con ogni conseguente responsabilità, anche tributaria) e, pertanto, ad imputare al C. un ruolo sostanziale di interponente ed esclusivo gestore. Non coglie pertanto la ratio decidendi effettiva la pretesa violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, nè è ammissibile pretendere di censurare in questa sede la valutazione di inattendibilità operata dal giudice a quo (cfr., a proposito dell’inammissibilità del sindacato in sede di legittimità di valutazioni ed apprezzamenti di fatto sull’attendibilità dei testi, suffragata da non illogici argomenti, Cass. Sez. L, Sentenza n. 15205 del 03/07/2014).

Quanto poi alla negazione, da parte della CTR, della sussistenza di un quadro indiziario sufficiente a sostenere la tesi dell’Ufficio, manca, nel ricorso, la denuncia della violazione delle norme sostanziali (artt. 2727 e 2729 c.c.) in materia di presunzioni semplici, e comunque una puntuale individuazione critica della relativa valutazione effettuata dal giudice di merito in ordine alla non congruità del ragionamento inferenziale proposto dall’Ufficio, che si è limitato a riproporre la propria versione dei fatti.

Peraltro, recentemente questa Corte ha anche affermato che “In sede di legittimità è possibile censurare la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. solo allorchè ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso.” (Cass., sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3541 del 13/02/2020). Tale fattispecie neppure ricorre nel caso di specie.

2. Le spese seguono la soccombenza.

Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1- quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2021

 

 

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