Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10715 del 03/05/2017


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Cassazione civile, sez. I, 03/05/2017, (ud. 03/02/2017, dep.03/05/2017),  n. 10715

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 19801/2012 R.G. proposto da:

D.P.N., D.P.S. e D.P.A.,

rappresentati e difesi dagli Avv. Giacomo Tartaglione ed Antonio

Carozza, con domicilio eletto in Roma, via G. Rossini, n. 26, presso

lo Studio Legale Internazionale Gaglione;

– ricorrenti –

contro

INTERPORTO SUD EUROPA S.P.A., in persona dell’amministratore unico

p.t. C.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Pasquale

Iannuccilli, con domicilio eletto in Roma, via Lima, n. 7;

– controricorrente –

e

COMUNE DI MADDALONI;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 3397/11

depositata il 4 novembre 2011.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 febbraio 2017

dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SALVATO Luigi, che ha concluso chiedendo il rigetto

del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.P.N., S. ed A., già proprietari di un fondo della superficie di mq. 2.634 sito in (OMISSIS), e riportato in Catasto al foglio (OMISSIS), particella (OMISSIS), convennero in giudizio l’Interporto Sud Europa S.p.a., proponendo opposizione alla stima delle indennità dovute per l’occupazione d’urgenza e l’espropriazione di un’area della superficie di mq. 2.417, disposte dal Sindaco con decreti rispettivamente del 5 maggio 2000 e del 10 agosto 2005.

Si costituì la convenuta, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.

1.1. Con sentenza del 4 novembre 2011, la Corte d’appello di Napoli ha dichiarato improponibile la domanda di determinazione dell’indennità di espropriazione e rigettato quella di determinazione dell’indennità di occupazione.

A fondamento della decisione, la Corte ha rilevato che tra le parti era intervenuto un accordo sull’indennità di espropriazione, per effetto di una nota dell’8 maggio 2002, con cui l’Interporto aveva comunicato agli espropriandi l’offerta dell’indennità provvisoria, e di una dichiarazione del 10 giugno 2002, con cui gli attori avevano accettato senza riserve l’indennità offerta, rinunciando a proporre opposizione alla stima ed ogni altra azione giudiziaria attinente all’occupazione, nonchè dell’avvenuto deposito, in data 8 agosto 2006, dell’importo di Euro 12.725,50, comprensivo delle maggiorazioni di legge. Premesso che a tale accordo aveva fatto seguito l’emanazione del decreto di esproprio, il quale aveva determinato il trasferimento della proprietà dagli espropriati all’espropriante, rendendo definitiva ed incontestabile la determinazione dell’indennità, la Corte ha ritenuto infondata, oltre che tardiva, l’eccezione d’illegittimità del decreto di espropriazione sollevata dagli attori in comparsa conclusionale, osservando che l’intervenuta scadenza del termine per il compimento delle procedure espropriative non comportava l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, non essendo stata contestata la perdurante pendenza del termine per il completamento delle opere.

Quanto all’indennità di occupazione, la Corte ha rilevato che, nonostante la redazione del verbale d’immissione in possesso, il fondo era rimasto nell’effettiva disponibilità degli attori fino all’anno 2007, essendo emerso dalle dichiarazioni dei testi escussi che al momento dell’effettivo spossessamento, coincidente con l’inizio dei lavori, il suolo era ancora coltivato.

3. Avverso la predetta sentenza i D.P. hanno proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. L’Interporto ha resistito con controricorso. Il Comune di Maddaloni non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano la violazione della L. 22 ottobre 1971, n. 865, artt. 17 e 19, D.L. 23 gennaio 1982, n. 9, art. 5, convertito in L. 25 marzo 1982, n. 94 e degli artt. 1282 e 2043 c.c., anche in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sostenendo che, nel ricollegare all’accettazione dell’indennità la rinuncia a proporre opposizione alla stima, la sentenza impugnata non ha considerato che tale rinuncia era subordinata al riconoscimento delle maggiorazioni dovute per legge. Premesso infatti che la dichiarazione, da loro resa, di essere nella piena proprietà e nella libera disponibilità del fondo occupato, era volta ad ottenere il riconoscimento, in favore di S. D.P., della maggiorazione di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 12, in relazione alla sua quota di comproprietà del fondo, nonchè di quella a lui spettante ai sensi dell’art. 17 della medesima legge, in qualità di coltivatore diretto delle quote degli altri comproprietari, affermano che l’Interporto aveva provveduto a depositare somme inferiori a quelle previste dalla legge, aggiungendo che la sentenza impugnata non ha tenuto conto del ritardo nel versamento degli acconti previsti dal D.L. n. 9 cit., art. 5, avendo omesso di riconoscere loro gl’interessi dovuti sui relativi importi, con decorrenza dal sessantesimo giorno successivo all’immissione in possesso.

1.1. Il motivo è inammissibile.

Nel contestare l’efficacia preclusiva attribuita all’accettazione della indennità, in relazione all’asserita subordinazione della stessa al riconoscimento delle maggiorazioni previste della L. n. 865 del 1971, artt. 12 e 17, i ricorrenti censurano la ricostruzione della volontà manifestata attraverso la predetta dichiarazione, omettendo tuttavia di trascriverne il testo nel ricorso e d’indicare le lacune argomentative o le carenze logiche del ragionamento seguito dalla sentenza impugnata. Com’è noto, infatti, l’accettazione dell’indennità costituisce una dichiarazione negoziale, il cui incontro con l’offerta formulata dall’espropriante dà luogo ad un accordo, qualificabile come negozio di diritto pubblico, che s’inserisce nel procedimento ablatorio come atto integrativo del procedimento stesso (cfr. Cass., Sez. 1, 20/03/2009, n. 6867; 27/11/2003, n. 18110; 20/09/2001, n. 11864). L’interpretazione di tale accordo, al pari di quella degli altri atti negoziali, è sottoposta alle comuni regole di ermeneutica contrattuale, e, mirando all’accertamento della volontà delle parti, si configura come un’indagine di fatto, riservata al giudice di merito, il cui risultato è pertanto censurabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione delle predette regole ovvero per incongruenza o illogicità della motivazione (cfr. Cass., Sez. 1, 27/12/1999, n. 14587). Nella specie, peraltro, il primo vizio non è stato neppure dedotto, mentre la denuncia del secondo risulta carente di specificità, non essendo accompagnata dalle predette indicazioni, indispensabili ai fini della verifica del vizio di motivazione.

In quanto parte di uno schema negoziale precostituito, che s’innesta a sua volta su una sequenza procedimentale rigidamente disciplinata dalla legge in funzione della realizzazione di finalità pubblicistiche, l’accettazione dell’indennità non tollera d’altronde l’apposizione di termini o condizioni, intrinsecamente incompatibili non solo con la portata vincolante che l’accordo riveste nei rapporti tra l’espropriante e l’espropriato, sia pure condizionatamente all’emissione del decreto di espropriazione, ma anche con la sollecita conclusione del procedimento ablatorio, che rappresenta l’obiettivo essenziale della determinazione consensuale dell’indennità. Essa, infatti, comporta l’immediato arresto del subprocedimento di determinazione dell’indennità, rendendo pertanto superflua la richiesta della liquidazione alla commissione provinciale competente, ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 15 e consentendo il pagamento diretto dell’importo accettato, nonchè l’emissione del decreto di espropriazione. Sull’ordinato svolgimento di tale serie di atti, rigorosamente concatenati, la volontà delle parti non può in alcun modo incidere, non potendo l’espropriante accettare un’offerta condizionata o a termine, che ritarderebbe o renderebbe addirittura incerto il compimento degli atti successivi, e potendo l’espropriato rimeditare il proprio rifiuto dell’indennità, ove l’espropriante non abbia ancora versato l’importo concordato, ma non ritornare sulla propria accettazione, a meno che l’espropriante non sia disponibile a prendere in considerazione una controproposta. In tal senso, d’altronde, depone inequivocabilmente l’espressa previsione dell’irrevocabilità dell’accettazione contenuta nel D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 20, comma 5, non applicabile alla fattispecie in esame, riguardante una procedura espropriativa promossa in epoca anteriore alla entrata in vigore del Testo unico in materia di espropriazione, ma espressivo comunque di un principio già chiaramente desumibile dalla normativa previgente (cfr. Cass., Sez. 1, 20/04/1994, n. 3770; 29/04/1989, n. 2048), che esclude la possibilità di apportare modificazioni alla fattispecie configurata dalla legge.

L’efficacia preclusiva dell’accettazione non può essere esclusa, nella specie, neppure in relazione all’oggetto specifico della domanda, costituito dal riconoscimento delle maggiorazioni previste della L. n. 865 del 1971, artt. 12 e 17, in favore rispettivamente del proprietario coltivatore diretto e dell’affittuario dell’immobile espropriato: l’autonoma previsione di tali erogazioni, aventi la loro giustificazione rispettivamente nella sottrazione della proprietà di un immobile dal cui sfruttamento l’espropriato trae i mezzi necessari per il proprio sostentamento e nella diretta attività di prestazione d’opera sul fondo espropriato, nonchè nel riconoscimento costituzionale del valore del lavoro, non incidono infatti sull’unicità dell’indennizzo, nel quale è destinato a confluire il ristoro di tutte le voci di danno lamentate dai destinatari dell’offerta, soprattutto quando, come nel caso in esame, vi sia coincidenza tra i proprietari ed i titolari di diritti di godimento sul fondo espropriato.

Nessun rilievo può infine assumere, ai fini dell’ammissibilità della opposizione, il ritardo nella corresponsione degli acconti dovuti sulla indennità di espropriazione, il cui accertamento, in funzione della condanna dell’espropriante al pagamento degl’interessi ed al risarcimento del maggior danno per l’inadempimento, risulta sostanzialmente estraneo all’oggetto dell’opposizione alla stima, circoscritto alla liquidazione della giusta indennità, e può quindi aver luogo nel medesimo giudizio soltanto in virtù del vincolo di accessorietà che lega la relativa domanda a quella principale, dovendo invece essere chiesto in via autonoma dinanzi al giudice ordinariamente competente allorquando, come nella specie, l’opposizione risulti preclusa dall’intervenuta accettazione dell’offerta formulata dall’espropriante (cfr. Cass., Sez. 1, 29/10/1999, n. 12153).

2. Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione della L. n. 865 del 1971, art. 20 e dell’art. 2043 c.c., anche in relazione all’art. 360c.p.c., comma 1, n. 5, osservando che, nel ritenere attendibili le deposizioni rese dai testi, ai fini del rigetto della domanda di determinazione della indennità di occupazione, la sentenza impugnata non ha considerato che essi non sarebbero stati in grado di tenere sotto controllo la situazione del fondo, nel lungo periodo intercorso tra la formale immissione in possesso e lo spossessamento effettivo; la Corte di merito ha inoltre omesso di tener conto della pacifica consegna del fondo da parte degli espropriati, incompatibile con gl’intenti speculativi dell’espropriante, che vi aveva realizzato strutture commerciali poi vendute vantaggiosamente a terzi; essa ha infine trascurato l’avvenuta emissione del decreto di esproprio, che non avrebbe potuto aver luogo ove alla relativa data i lavori non fossero ancora iniziati.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Sotto l’apparente deduzione dei vizi di violazione di legge e difetto di motivazione, le censure proposte dai ricorrenti si risolvono nella sollecitazione di un nuovo apprezzamento in ordine all’attendibilità dei testimoni, alla luce di altri elementi risultanti dagli atti, ed implicano pertanto un riesame del merito della controversia, non consentito a questa Corte, alla quale non spetta il potere di valutare le risultanze dell’istruttoria, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica e la coerenza logica della valutazione compiuta dal giudice di merito, al quale soltanto compete il giudizio sull’attendibilità dei testi, così come la scelta, tra gli elementi di prova, di quelli ritenuti più idonei a sorreggere la motivazione, senza altro limite che quello d’indicare le ragioni del proprio convincimento (cfr. Cass., Sez. 1, 2/08/2016, n. 16056; 23/05/2014, n. 11511; Cass., Sez. lav., 7/01/2009, n. 42).

3. Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., anche in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, rilevando che la sentenza impugnata ha omesso di pronunciare in ordine alla domanda, da essi proposta, di riconoscimento dell’indennizzo per un reliquato della superficie di mq. 217, rimasto intercluso nell’area interportuale, e per trentacinque piante di alto fusto insistenti nel fondo espropriato.

3.1. Il motivo è infondato.

In caso di espropriazione parziale, l’indennità concordata tra l’espropriante e l’espropriato o liquidata giudizialmente copre l’intera diminuzione patrimoniale conseguente all’esproprio, ivi compreso il pregiudizio derivante dall’interclusione o dalla divisione del fondo, ovvero dalla perdita di accesso alla zona rimasta interclusa a seguito della realizzazione dell’opera pubblica sull’area occupata (cfr. Cass., Sez. Un., 25/06/2012, n. 10502; Cass., Sez. 1, 14/01/2008, n. 591; 6/03/1999, n. 1928), nonchè, qualora si tratti di fondi non edificabili, il danno cagionato al soprassuolo arboreo (cfr. Cass., Sez. Un., 27/08/1998, n. 8497; Cass., Sez. 1, 4/05/2001, n. 6275), la cui autonoma valutazione ai fini della liquidazione non esclude il carattere unitario dell’importo dovuto all’espropriato, non essendo concepibile il riconoscimento di tante distinte indennità quante sono le voci di danno ipoteticamente configurabili. Pertanto, la dichiarazione d’inammissibilità dell’opposizione alla stima, in ragione dell’intervenuta accettazione dell’indennità offerta dall’espropriante, non può non estendersi anche alle pretese riguardanti l’interclusione dell’area residua e l’abbattimento delle piante esistenti nel fondo espropriato, in ordine alle quali non è conseguentemente configurabile alcuna omissione di pronuncia.

4. Con il quarto motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 90 e 91 c.p.c., L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 24, D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 5-bis, L. 8 agosto 1992, n. 359, art. 1 e del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, sostenendo che, nella liquidazione delle spese processuali, la sentenza impugnata non ha tenuto conto del valore della domanda, da commisurarsi all’importo dell’indennità offerta.

4.1. Il motivo è infondato.

Com’è noto, infatti, l’opposizione alla stima non dà luogo ad un giudizio d’impugnazione dell’atto amministrativo, ma introduce un ordinario giudizio sul rapporto, il cui oggetto non si esaurisce nel mero controllo delle determinazioni adottate in sede amministrativa, ma consiste nella determinazione dell’indennità effettivamente dovuta in base ai criteri previsti dalla legge, nella cui individuazione il giudice non è vincolato dalle indicazioni delle parti, ma agisce in piena autonomia, conformemente al principio jura novità curia, con il solo limite di non poter liquidare una somma inferiore a quella offerta, a meno che l’espropriante non proponga una specifica domanda in tal senso (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 13/01/2011, n. 716; 28/02/2006, n. 4388; 23/09/2005, n. 18681). Pertanto, il valore della domanda, da assumere come parametro per la liquidazione delle spese processuali a carico della parte soccombente, non può essere determinato con riferimento all’indennità offerta dall’espropriante, dovendosi tenere invece conto delle conclusioni formulate dall’opponente, con la conseguenza che ove le stesse, come nella specie, non rechino l’indicazione di un importo determinato, la causa va considerata di valore indeterminabile.

5. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2017

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