Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10713 del 04/05/2010

Cassazione civile sez. lav., 04/05/2010, (ud. 25/03/2010, dep. 04/05/2010), n.10713

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

ILVA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L. G. FARAVELLI 22, presso lo

studio dell’avvocato ROMEI ROBERTO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato LUCA FAILLA, giusta delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

G.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA

195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLILLO VINCENZO,

giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 303/2006 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 15/05/2006 R.G.N. 304/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/03/2010 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato PETRARCA NICOLA DOMENICO per delega FAILLA LUCA;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza de 17.2 – 15.5.2006 la Corte d’Appello di Genova respinse il gravame principale proposto dalla Uva spa avverso la sentenza di prime cure che l’aveva condannata al pagamento, in favore dell’ex dipendente G.F., di quanto dovuto a titolo di indennità di mancato preavviso e di risarcimento danni da demansionamento; in parziale accoglimento del gravame incidentale del G. rideterminò il danno da demansionamento per il periodo luglio 1995 – 5 dicembre 1997 e condannò la Uva spa al risarcimento del danno biologico da invalidità permanente.

A sostegno del decisum, e per ciò che ancora qui specificamente rileva, la Corte territoriale, disattese le eccezioni in rito sollevate dall’appellante principale, osservò quanto segue:

– correttamente il primo Giudice, avendo ricevuto il G. il premio di produzione (rectius: di risultato) nella misura minima, malgrado i colleghi del suo stesso ufficio avessero riscosso allo stesso titolo una somma superiore, aveva liquidato la differenza economica in questione quale danno derivante dall’illegittimo demansionamento, con ciò dovendo escludersi il dedotto vizio di ultrapetizione e restando peraltro la statuizione nell’ambito del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale;

– le prove raccolte in prime cure facevano ritenere accertato il demansionamento così come lamentato e, quindi, con riferimento a due distinti periodi temporali: il primo (luglio 1995 – 5 dicembre 1997) per l’avvenuta adibizione del G. a mansioni non riconducigli alla categoria di appartenenza; il secondo (relativo al periodo successivo al 5 dicembre 1997) per essere stato lasciato il lavoratore totalmente inattivo;

– la somma liquidata in prime cure per il risarcimento del danno relativamente al primo dei suddetti periodi di demansionamento doveva ritenersi insufficiente;

– la CTU medico legale rinnovata in grado di appello aveva riconosciuto la permanenza di un danno biologico, seppure di modesta entità;

– spettava al G. l’indennità di mancato preavviso, costituendo l’accertato demansionamento giusta causa delle rassegnate dimissioni e dovendosi escludere l’intervenuta acquiescenza del lavoratore alla situazione verificatasi.

Avverso tale sentenza della Corte territoriale, l’Uva spa ha proposto ricorso per cassazione fondato su dieci motivi e illustrato con memoria.

L’intimato G.F. ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge (artt. 112, 161, 410, 412 bis, 433 e 434 c.p.c.), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale non abbia ritenuto la nullità dell’intero giudizio per omesso rituale previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, ancorchè tale nullità fosse stata dedotta come specifico motivo di gravame.

1.1 Il motivo è infondato alla luce del condiviso orientamento di questa Corte secondo cui la mancanza dell’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, previsto dall’art. 412 bis c.p.c., quale condizione di procedibilità della domanda nel processo del lavoro, deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all’art. 416 c.p.c. e può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice, purchè non oltre l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., con la conseguenza che ove rimprocedibilità dell’azione, ancorchè segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio (cfr, ex plurimis, Cass., n. 15956/2004).

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge (artt. 112 e 116 c.p.c.), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale non abbia pronunciato sulla richiesta di “espunzione” delle dichiarazioni rese da un teste che aveva promosso un giudizio contro essa ricorrente per i medesimi fatti e con formulazione di identiche domande rispetto a quanto dedotto e richiesto nel presente giudizio, nè abbia spiegato le ragioni per cui la deposizione di tale teste era stata ritenuta ammissibile ed attendibile, tanto da essere posta a fondamento della decisione.

2.1 Il motivo è infondato per quanto contesta l’ammissibilità del teste, dovendosi riconoscere che quest’ultimo, sulla base delle stesse allegazioni di cui al ricorso, non può essere ritenuto portatore di un interesse legittimante la sua eventuale partecipazione al giudizio; per quanto censura la pretesa attendibilità riconosciuta dalla Corte territoriale alle dichiarazioni dei teste in parola, il motivo è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non essendo stato ivi riportato il contenuto di tali dichiarazioni, alle quali, peraltro, la sentenza impugnata neppure fa espresso riferimento.

3. Con il terzo mezzo la ricorrente denuncia violazione di legge (artt. 112, 414 e 159 c.p.c.), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale abbia omesso di pronunciarsi sulla eccepita nullità del ricorso introduttivo di primo grado in relazione alla domanda attinente al premio di risultato, non abbia rilevato il difetto dei requisiti di cui all’art. 414 c.p.c., n. 4 e non abbia spiegato in base a quale delle allegazioni del ricorso introduttivo potesse ricavarsi la data di decorrenza della dedotta dequalificazione.

3.1 La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di affermare il principio secondo cui, per aversi la nullità del ricorso introduttivo di cui all’art. 414 c.p.c., non è sufficiente l’omessa indicazione in modo formale dell’oggetto della domanda e degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui la stessa si fonda, ma è necessario che sia omesso o del tutto incerto il petitum sotto il profilo sostanziale e processuale, nel senso che non ne sia possibile l’individuazione attraverso l’esame complessivo dell’atto, da compiersi anche d’ufficio e anche in grado di appello (cfr, ex plurimis, Cass., n. 8839/2002); è stato inoltre rilevato che, nel rito del lavoro, la valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui questa si fonda implica una interpretazione dell’atto introduttivo della lite riservata – salva la censurabilità in sede di legittimità per vizi della motivazione – al giudice del merito, il quale in sede di appello può trarre elementi di conforto del proprio giudizio positivo circa la sufficienza delle indicazioni contenute in ricorso dal rilievo che esse consentirono al giudice di primo grado (come avvenuto nella fattispecie) di impostare e svolgere l’istruttoria ritenuta indispensabile alla decisione della controversia (cfr, ex plurimis, Cass., n. 10316/2002).

Nel caso che ne occupa la Corte territoriale ha ritenuto, attraverso la disamina del ricorso introduttivo di primo grado, l’avvenuta specificazione della domanda di risarcimento dei danni da demansionamento, facendo puntuale richiamo ai passi significativi in tal senso; la motivazione addotta risulta coerente con i dati rilevati e priva di elementi di contraddittorietà, sicchè, nell’ambito del controllo della sua correttezza logico formale consentito a questa Corte resiste alle censure svolte sotto il profilo del preteso vizio di motivazione.

Deve inoltre ritenersi che le valutazioni espresse dalla Corte territoriale siano riferibili anche alla problematica inerente il premio di risultato, atteso che, come già esposto nello storico di lite, la sentenza impugnata ha ricondotto la liquidazione delle maggiori spettanze a tale titolo al danno derivante dall’illegittimo demansionamento.

Anche il motivo all’esame va quindi disatteso.

4. Con il quarto mezzo a ricorrente denuncia violazione di legge (artt. 112 e 115 c.p.c.; artt. 2697 e 1223 c.c.), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale, in relazione alle riconosciute differenze inerenti al premio di risultato, abbia erroneamente apprezzato il contenuto della domanda originariamente svolta su punto, dovendo peraltro rilevarsi, sulla base della normativa contrattuale, il difetto di prova in ordine al fatto che, in altre circostanze, il G. avrebbe percepito tale premio in misura superiore, nè avendo la Corte territoriale fornito motivazione al riguardo.

4.1 Osserva il Collegio che, secondo il condiviso orientamento di questa Corte, in sede di legittimità occorre tenere distinta l’ipotesi in cui venga lamentato l’omesso esame di una domanda da quella in cui si censuri l’interpretazione data alla domanda stessa, ritenendosi in essa compresi, o esclusi, alcuni aspetti della controversia in base ad una considerazione non condivisa dalla parte;

con la conseguenza che, mentre nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c. e la Corte di cassazione ha il potere – dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale, nell’altro caso, invece, poichè l’interpretazione della domanda e l’individuazione della sua ampiezza e del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, alla Corte è devoluto soltanto il compito di effettuare il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto Sa decisione impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., n. 60066/2001).

Nel caso di specie la ricorrente non contesta che il G. abbia rivendicato le maggiori somme inerenti alla liquidazione del premio di risultato, ma assume che, secondo le allegazioni di cui al ricorso di primo grado, la relativa domanda sarebbe stata fondata su una diversa causa petendi (a titolo di inadempimento di una determinata obbligazione e non di risarcimento del danno da demansionamento); deve quindi ritenersi che il vizio denunciato non attiene all’avvenuta pronuncia su una domanda non proposta dalla parte, bensì alla (pretesamente erronea) interpretazione delle ragioni che di tale domanda erano state poste a fondamento.

Trova quindi applicazione il ricordato principio secondo cui l’interpretazione della domanda e l’individuazione della sua ampiezza e del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, accertamento che nella specie la Corte territoriale ha compiutamente effettuato richiamando, attraverso una motivazione coerente e priva di vizi logici, il contenuto del ricorso introduttivo e confermando la valutazione che dello stesso aveva reso il primo Giudice, dovendo peraltro escludersi che tale richiamo, giusta il contenuto del ricorso stesso quale riportato in ricorso, presenti elementi di palese incongruità tali da non lasciar comprendere le ragioni de decisum.

L’infondatezza di tale profilo di censura e la conseguente riconducibilità della pretesa al “danno causato dall’illegittimo comportamento datoriale” assorbe le ulteriori doglianze inerenti alla prospettata interpretazione della contrattazione collettiva, peraltro di per sè improcedibili per la mancata produzione del CCNL su cui si fondano (art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4; cfr, ex plurimis, Cass., n. 15495/2009, ove è precisato che l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda – imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella nuova formulazione di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 – non può dirsi soddisfatto con la trascrizione nel ricorso delle sole disposizioni della cui violazione il ricorrente si duole attraverso le censure alla sentenza impugnata, dovendosi ritenere che la produzione parziale di un documento sia non solamente incompatibile con i principi generali dell’ordinamento e con i criteri di fondo dell’intervento legislativo di cui ai citato D.Lgs. n. 40 del 2006, intesi a potenziare la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, ma contrasti con i canoni di ermeneutica contrattuale dettati dagli artt. 1362 e ss. c.c., e, in ispecie, con la regola prevista dall’art. 1363 c.c., atteso che la mancanza del testo integrale del contratto collettivo non consente di escludere che in altre parti dello stesso vi siano disposizioni indirettamente rilevanti per l’interpretazione esaustiva della questione che interessa).

5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione di legge (artt. 414 e 415 c.p.c.; artt. 2103, 2697, 1730 e 2735 c.c.), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale abbia erroneamente ritenuto provato il demansionamento subito dal G. nel periodo luglio 1995 – 5 dicembre 1997, trascurando peraltro la disamina di un documento proveniente dallo stesso G., pretesamente confessorio dell’insussistenza del demansionamento.

5.1 Secondo il consolidato orientamento di questa Corte il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza – nonchè di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti – spetta in via esclusiva al giudice del merito; di conseguenza la deduzione con il ricorso per Cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, restando escluso che le censure concernenti il difetto di motivazione possano risolversi nella richiesta alla Corte di legittimità di una interpretazione delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 27464/2006; 3994/2005;

11933/2003; 5231/2001; 9716/2000; 6023/2000).

Al contempo deve rilevarsi che il ricorso per cassazione – in ragione del principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e: quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito; con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui, con il ricorso per cassazione, venga dedotta l’incongruità, l’insufficienza o contraddittorietà della sentenza impugnata per l’asserita mancata valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che i ricorrente precisi, mediante integrale trascrizione della medesima, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti, di delibare la decisività della medesima, dovendosi escludere che la precisazione possa consistere in meri commenti, deduzioni o interpretazioni delle parti (cfr, ex plurimis, Cass., n. 12362/2006), Nel caso all’esame il ricorso non soddisfa a tali requisiti, non essendo state riportate (se non per due brevi e scoordinati tacerti della deposizione di un testimone) le dichiarazioni dei testi escussi, le quali, secondo l’assunto della ricorrente, porterebbero ad escludere che fosse stato riferito il contenuto professionale delle mansioni svolte dal G. nel periodo precedente il mese di luglio 1995.

5.2 Deve poi escludersi il lamentato vizio di motivazione, atteso che quella adottata dalla Corte territoriale appare esaustiva nella considerazione delle circostanze rilevanti ai fini del decidere (confronto tra le mansioni demandate ai lavoratore prima e dopo la decorrenza della ritenuta dequalificazione; raffronto della diversa collocazione gerarchica dell’interessato; valutazione della non riconducibilità delle nuove mansioni a quelle della categoria di appartenenza) e risulta immune da elementi di contraddittorietà o illogicità.

5.3 Quanto al profilo di doglianza inerente all’omesso esame della nota del G. in data 7.10.1998, deve considerarsi che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’omesso esame di un fatto decisivo, previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è costituito da quel difetto di attività del giudice del merito che si verifica tutte le volte in cui egli abbia trascurato, non la deduzione o l’argomentazione che la parte ritiene rilevante per la sua tesi, ma una circostanza obiettiva acquisita alla causa tramite prova scritta od orale, idonea di per sè, qualora fosse stata presa in considerazione a condurre con certezza ad una decisione diversa da quella adottata, cosicchè, ad integrare il predetto difetto, occorre non solo che il fatto, sebbene dibattuto tra le parti, sia stato totalmente trascurato dal giudice al pari di quelli non sottoposti ritualmente al suo accertamento, ma anche che il fatto in questione, per la sua diretta inerenza ad uno degli elementi costitutivi, modificativi od estintivi del rapporto in contestazione, sia dotato di una intrinseca valenza tale da non poter essere tacitamente escluso dal novero delle emergenze processuali decisive per la corretta soluzione della lite, come non si verifica per ogni singolo indizio, segnale od indice critico, il quale per la sua gravità o per la sinergica convergenza con altri elementi indiziar consentirebbe, in ipotesi, al giudice di risalire alla individuazione di un fatto ignoto (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 13981/2004;

1203/2000; 2601/1998; 10778/1997; 914/1996; 7000/1993).

Nel caso di specie il documento di cui la ricorrente lamenta la mancata considerazione è privo del descritto requisito della decisività, poichè l’affermazione del lavoratore di esser stato privato dal 5.12.1997 dei compiti che svolgeva precedentemente non contiene alcuna confessione della insussistenza del demansionamento già nel periodo precedente a tale data.

Anche il motivo all’esame, nei distinti profili in cui ai articola, non può quindi trovare accoglimento.

6. Con il sesto mezzo la ricorrente denuncia violazione di legge (artt. 115, 414 e 432 c.p.c.; artt. 1126, 2103 e 2697 c.c.), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale:

– abbia ritenuto la risarcibilità del danno da demansionamento prescindendo dalle allegazioni formulate dall’interessato;

– abbia fatto coincidere l’esistenza del danno risarcibile con la lesione del diritto in sè considerata;

– abbia trascurato di considerare la circostanza che il G. era andato in pensione pochi giorni dopo le rassegnate dimissioni;

– abbia motivato la liquidazione effettuata, del tutto eccessiva, in termini insufficienti.

6.1 Quanto al primo profilo del mezzo all’esame, osserva la Corte che l’assunto della ricorrente inerente alla mancata allegazione delle circostanze di danno da parte del lavoratore è meramente affermato;

senza che sia stato riprodotto nel ricorso, in violazione del principio di autosufficienza de medesimo, il contenuto degli atti processuali da cui andrebbe desunta la fondatezza della doglianza; ne discende che la censura difetta della necessaria specificità in ordine alla (pretesa) insussistenza degli elementi qualificanti il danno di cui è stato chiesto il risarcimento, con conseguente inammissibilità della doglianza appunto per quanto concerne il dedotto difetto di allegazione dei fatti costitutivi del chiesto risarcimento.

6.2 Quanto al secondo profilo va considerato che, secondo il condiviso orientamento di questa Corte, in caso di accertalo demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr, Cass., n. 14729/2006; nonchè, con particolare riferimento al precipuo rilievo della prova per presunzioni in tema di danno provocato sul fare areddittuale del soggetto, Cass., SU, n. 6572/2006; Cass., n. 29832/2008).

In sostanza, secondo la giurisprudenza di questa Corte, fermo restando che il danno da demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assume uno specifico rilievo proprio la prova per presunzioni, per la quale dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti, si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno.

Nel caso che ne occupa la Corte territoriale, che non ha affatto affermato la sussistenza del danno in re ipsa, ha concretamente desunto l’esistenza dello stesso, in via presuntiva, dalla presa in considerazione di specifiche emergenze fattuali (lesioni all’immagine e alla professionalità, quest’ultima “mortificata fino al finale definitivo annullamento”), ricollegandovi la perdita del patrimonio di conoscenze e di specializzazione e il “pregiudizio di futuro sviluppo professionale”, ritenuto particolarmente significativo considerata l’età dell’interessato e preclusivo della “ricostruzione ex novo di professionalità lavorativa utile al proficuo reinserimento lavorativo nella stessa e, a maggior ragione, in altra azienda” e giungendo in tal modo, con motivazione coerente ed immune da vizi logici, al riconoscimento della effettiva sussistenza del danno risarcibile.

6.3 La circostanza che, dopo le dimissioni, il lavoratore sia andato in pensione (ricavando oltre tutto, come pure accertato dalla Corte territoriale, un emolumento “di ammontare inferiore alle retribuzioni perse”) costituisce riprova, piuttosto che smentita, del riconosciuto pregiudizio e, pertanto, non può costituire elemento di valida censura alla decisione adottata.

6.4 Secondo il consolidato orientamento interpretativo di questa Corte, nell’esercizio del potere di liquidare con valutazione equitativa la somma dovuta al lavoratore quando sia certo il relativo diritto, il giudice è tenuto a dare congrua ragione del processo logico attraverso il quale perviene alla liquidazione del quantum debeatur, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 6333/2003; 16992/2005);

parimenti consolidato è il principio secondo cui l’esercizio in concreto di tale potere discrezionale non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 8807/2001; 23304/2007).

Nel caso di specie la Corte territoriale ha puntualmente indicato i parametri utilizzati per la liquidazione equitativa del danno (entità del demansionamento; durata del medesimo; retribuzione percepita), sicchè deve escludersi il dedotto vizio di motivazione, risolvendosi la censura svolta al riguardo nella richiesta di riconsiderazione degli elementi di giudizio concernenti il merito, come tale inammissibile in questa sede di legittimità.

6.7 Anche il mezzo all’esame non può pertanto essere accolto.

7. Con il settimo mezzo la ricorrente denuncia violazione di legge (art. 115 c.p.c.; artt. 2043 e 2087 c.c.; artt. 40 e 41 c.p.), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale, in relazione al danno biologico;

– abbia trascurato di considerare, al fine della quantificazione di tale ragione di danno, l’incidenza sulla salute psichica del G. delle condizioni di salute (asserita grave anoressia) di sua figlia, erroneamente negandole efficacia concausale;

– abbia riconosciuto l’invalidità permanente del G. nonostante avesse cessato la propria attività lavorativa per pensionamento.

7.1 Fermo restando che la Corte territoriale, senza peraltro fare espresso riferimento alle condizioni di salute della figlia dell’odierno intimato, si è conformata al principio già enunciato da questa Corte secondo cui l’incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (cfr, Cass., n. 5924/1995), il primo profilo di doglianza è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo stato ivi precisato con quale atto ed in che termini la questione della (pretesa) rilevanza della patologia della figlia del lavoratore sarebbe stata devoluta, ai fini de quibus, al Giudice del gravame.

7.2 Il secondo profilo è inammissibile, risolvendosi in una censura di merito sulle conclusioni della CTU svolta in grado d’appello e che la Corte territoriale ha seguito, senza che peraltro siano riscontrabili vizi logici nelle argomentazioni dell’ausiliario (quali recepite nella sentenza impugnata), secondo cui il pensionamento dell’odierno intimato aveva si ridotto le conseguenze negative del disturbo dell’adattamento cronicizzato, ma aveva costituito “una sorta di “ratifica” della prematura cessazione di una carriera lavorativa nella quale il G. aveva investito gran parte della propria autostima, determinando, così, la permanenza di un danno biologico, seppur di modesta entità”.

7.3 Il mezzo all’esame non può pertanto essere accolto.

8. Con l’ottavo mezzo la ricorrente denuncia violazione di legge (art. 115 c.p.c.; artt. 1175, 13375, 2119 e 1460 c.c.), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale:

– abbia ritenuto sussistente la giusta causa di recesso del lavoratore sotto il profilo della sua tempestività in relazione alla decorrenza del dedotto inadempimento datoriale;

– non abbia rilevato la strumentalità della condotta del G., che, poche settimane prima di dimettersi, si era visto riconoscere l’avvenuta esposizione ultradecennale all’amianto al fine di conseguire i benefici previdenziali ai sensi della L. n. 257 del 1992;

– non abbia rilevato l’illegittimità della condotta del lavoratore, che, al momento delle dimissioni, non si era più presentato al lavoro da oltre due mesi;

– abbia ritenuto che la condotta datoriale sarebbe stata di gravità sempre crescente, pur rilevando che la situazione di inattività lavorativa totale perdurava da circa un anno.

8.1 La Corte territoriale, con motivazione coerente con le risultanze istruttorie acquisite e immune da vizi logici, ha rilevato che il comportamento inadempiente della parte datoriale non si era concretizzato in un fatto unico esauritosi in un preciso e definito momento temporale, bensì in una “condotta continuativa nel tempo, la cui valenza di gravità ha subito un costante crescente andamento”, con i conseguente “progressivo aggravamento dell’illecito ed il superamento della tollerabilità di tale situazione”, al contempo la Corte territoriale ha escluso che la condotta del G. potesse essere reputata acquiescente, essendo risultato dalle acquisizioni testimoniali che egli si era lamentato dell’assenza di mansioni; con specifico riferimento alla coincidenza temporale fra dimissioni e ottenimento del beneficio contributivo di cui alla L. n. 257 del 1992, la Corte territoriale ha poi evidenziato la sostanziale irrilevanza della questione, osservando che “la giusta causa non viene meno per la scelta di operare le dimissioni in epoca che consenta di minimizzare il danno derivante dalla perdita del posto di lavoro”.

La circostanza inerente alla asserita mancata presentazione del G. al lavoro in epoca antecedente alla presentazione delle dimissioni non risulta esaminata dalla Corte territoriale, nè la ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza de ricorso per cassazione, indica con quale atto, in che termini e a che fine la disamina di tale circostanza sarebbe stata devoluta al Giudice del gravame; trattasi peraltro di circostanza sostanzialmente estranea al thema decidendi, non risultando che l’odierna ricorrente abbia reagito alla condotta pretesamente inadempiente del lavoratore fondando sulla stessa una qualche domanda (la domanda riconvenzionale svolta vertendo sulla asserita debenza da parte del lavoratore dell’indennità contrattuale di mancato preavviso). Osserva inoltre il Collegio che la valutazione della idoneità della condotta del datore di lavoro sotto il profilo del demansionamento a costituire giusta causa di dimissioni del lavoratore ex art. 2119 c.c. e, quindi, anche quella concernente la sussistenza della tempestività della reazione alla suddetta illecita condotta, si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (cfr, Cass., nn. 14496/2005; 8589/2004); dal che discende, attesa appunto l’adeguatezza della motivazione resa dalla Corte territoriale, l’infondatezza del mezzo all’esame.

9. Il nono motivo di ricorso, relativo alla dedotta spettanza a favore della parte datoriale dell’indennità di mancato preavviso, resta logicamente assorbito dal rigetto del precedente mezzo.

10. Con il decimo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge (art. 1282 c.c.; art. 429 c.p.c.), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale:

– abbia riconosciuto dovuti gli interessi e la rivalutazione monetaria su quanto liquidato a titolo di danno da demansionamento e di danno biologico rispettivamente dalla data del presunto demansionamento e del verificarsi del preteso danno biologico anzichè dalla data della sentenza ovvero da quella della domanda giudiziale;

– non abbia spiegato i criteri adottati al fine della liquidazione dei suddetti accessori, in particolare non comprendendosi il riferimento, nella liquidazione del danno biologico, alla data del 10.6.2005.

10.1 Osserva il Collegio che la domanda del lavoratore di risarcimento dei danni derivanti da inadempienze contrattuali della parte datoriale, come nel caso di danno da demansionamento (art. 2103 c.c.), si ricollega direttamente al rapporto di lavoro, dando luogo ad una controversia di lavoro disciplinata, quanto agli accessori del credito, dall’art. 429 c.p.c., comma 2, a mente del quale interessi e rivalutazione del maggior danno da diminuzione di valore del credito hanno decorrenza dal giorno della maturazione del diritto (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 3213/2004; 976/1996; 4672/1993).

A tale criterio si è attenuta la sentenza impugnata, la quale ha parimenti spiegato che la data del 10.6.2005 (a partire dalla quale è stata disposta la rivalutazione monetaria quanto alla somma liquidata a titolo di danno da invalidità permanente) è quella del decreto di aggiornamento della tabella utilizzata per la liquidazione del danno biologico.

Deve quindi convenirsi per l’infondatezza del mezzo all’esame.

11. In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 37,00 oltre ad Euro 3.000,00 (tremila) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 25 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2010

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