Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10709 del 04/05/2010

Cassazione civile sez. lav., 04/05/2010, (ud. 16/03/2010, dep. 04/05/2010), n.10709

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21606-2006 proposto da:

E.N.P.A.F. – ENTE NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA FARMACISTI, in

persona del suo presidente, elettivamente domiciliato in ROMA, via

GIUSEPPE PISANELLI n. 2, presso lo studio dell’avvocato ANGELETTI

ALBERTO, che lo rappresenta e difende per procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

P.M.S., elettivamente domiciliata in ROMA, piazza

MARTIRI DI BELFIORE n. 2, presso lo studio dell’avvocato PECORONE

VALERIA, rappresentata e difesa dall’avvocato BOLLE LUCIANO per

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2164/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/07/2005; RG 5915/2002;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2010 dal Consigliere dott. GIOVANNI MAMMONE;

udito l’Avvocato GNISCI LEONARDO, per delega ANGELETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso al giudice del lavoro di Latina la dott.ssa P. S., premesso di essere farmacista e di gestire assieme al padre dott. P.C. una farmacia in regime di impresa familiare, chiedeva che l’indennità di maternità, a lei spettante per il parto avvenuto nell’anno (OMISSIS), fosse determinata in base al reddito da lei dichiarato nel 1996 e che l’Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza Farmacisti (ENPAF) fosse condannato a corrisponderle la differenza tra quanto spettante a seguito di tale quantificazione e quanto già corrisposto.

Accolta la domanda e condannato al pagamento della somma di L. 25.252.300, oltre rivalutazione ed interessi, l’ENPAF proponeva appello deducendo che la professionista non poteva accedere al dedotto criterio di calcolo L. n. 379 del 1990, ex art. 1 avendo ella dichiarato nell’anno di riferimento non un reddito di lavoro autonomo- professionale, ma una quota di utili dell’impresa familiare. In subordine l’Ente chiedeva fosse sollevata questione di costituzionalità della L. n. 379 del 1990, artt. 1 e 3 e, in subordine ulteriore, che non fosse consentito il cumulo di rivalutazione ed interessi.

2. La Corte d’appello di Roma con sentenza pubblicata il 27.7.05 rilevava che sulla base della L. 11 dicembre 1990, n. 379, art. 1, comma 2, la richiesta indennità va determinata in base al reddito della libera professionista, senza ulteriori qualificazioni, e che come tale poteva essere qualificato il reddito percepito dall’attrice, la quale aveva svolto in maniera esclusiva e continuativa la professione di farmacista all’interno dell’impresa familiare, percependo un utile non prestabilito, ma commisurato all’apporto di energia lavorativa. La forma associativa, infatti, non trasforma l’attività professionale ed il reddito così percepito resta reddito proveniente dalla professione. Ritenuta infondata l’eccezione di costituzionalità, pertanto, la Corte rigettava l’impugnazione.

3. Avverso questa sentenza propone ricorso l’ENPAF. Risponde l’intimata con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.

4.1. Con il primo motivo è dedotta violazione della L. n. 379 del 1990, art. 1, commi 2 e 3 come recepito dal D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70 nonchè carenza di motivazione. Sostiene l’Ente di previdenza che la rado di detta normativa è quella di conferire alla professionista l’indennità compensativa per la sospensione (o la riduzione) della propria attività professionale in conseguenza della maternità e, proprio per questo, le disposizioni indicate richiedono che l’indennità in questione venga commisurata ai redditi denunziati ai fini fiscali per lo svolgimento di attività autonoma libero- professionale. Nel caso di specie l’attività posta in essere da luogo, invece, ad un reddito di partecipazione, derivante non solo dall’attività professionale, ma anche dai proventi del commercio di beni di consumo estranei all’attività farmaceutica praticato nell’azienda familiare, alla cui gestione l’attrice collabora assieme al padre. In questo caso alla professionista spetterebbe solamente l’indennità quantificata nella misura minima prevista dalla detta L. n. 379, art. 1, comma 3,.

Per il caso che tale prospettazione non sia accolta e che la L. n. 379, art. 1 sia interpretato nel senso che anche il godimento di un reddito di partecipazione consente la percezione dell’indennità nella misura percentuale del reddito dichiarato, l’Ente di previdenza solleva questione di costituzionalità della norma in questione, in quanto essa si troverebbe in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost., per la disparità di trattamento che ne deriverebbe tra le farmaciste percettrici di un reddito da lavoro autonomo e coloro che percepiscono un reddito di impresa (o quota parte di esso), con parificazione di redditi e condizioni soggettive ontologicamente diverse.

4.2. Con il secondo motivo è dedotta violazione della L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, punto 6, in quanto la Corte di merito non ha preso in esame il motivo d’appello con cui era stata contestata la pronunzia di primo grado nel punto in cui aveva condannato l’Ente a corrispondere la prestazione richiesta con rivalutazione ed interessi dalla data di maturazione del credito, senza tener conto che la norma predetta ha vietato il cumulo di rivalutazione ed interessi.

5. Il primo motivo è infondato.

5.1. La L. 11 dicembre 1990, n. 379, art. 1 in materia di indennità di maternità per le libere professioniste, sotto la rubrica Destinazione e misura dell’indennità, prevede che: “1. A decorrere dal 1 gennaio 1991, a ogni iscritta a una cassa di previdenza e assistenza per i liberi professionisti di cui alla tabella A allegata alla presente legge è corrisposta un’indennità di maternità per i periodi di gravidanza e puerperio comprendenti i due mesi antecedenti la data presunta del parto e i tre mesi successivi, la data effettiva del parto; 2. L’indennità di cui al comma 1 vene corrisposta in misura pari all’80 per cento di cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda; 3. In ogni caso l’indennità di cui al comma primo non può essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione calcolata nella misura pari all’80 per cento del salario minimo giornaliero stabilito dal D.L. 29 luglio 1981, n. 402, art. 1 convertito, con modificazioni, dalla L. 26 settembre 1981, n. 537, e successive modificazioni, nella misura risultante, per la qualifica di impiegato, dalla tabella a e dai successivi decreti ministeriali di cui al comma 2 del medesimo articolo”.

Circa l’interpretazione di questa norma, applicabile al caso di specie ratione temporis, con riferimento alla posizione della donna farmacista iscritta nell’albo ed esercente l’attività professionale in regime di partecipazione ad impresa familiare, si era creato un consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, la quale aveva ritenuto che ai fini del godimento dell’indennità di maternità parametrata, ai sensi dell’art. 1, comma 2, suddetto, al reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dall’interessata, non rileva la natura e la forma in cui viene in concreto esercitata l’attività professionale che, pertanto, può essere svolta sia a mezzo di associazione o d’impresa professionale, sia in forma di collaborazione in regime d’impresa familiare (Cass. 20.1.05 n. 1102, 25.11.00 n. 15222, 21.11.98 n. 11817, nonchè 15.12.03 n. 19130 e 28.5.99 n. 5221, queste ultime due riferite entrambe al caso di attività professionale svolta nell’ambito di farmacia gestita da un familiare).

Questa giurisprudenza aveva ritenuto non prospettabile al riguardo il dubbio di illegittimità costituzionale della norma in questione con riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., sotto il profilo della parificazione di redditi ontologicamente differenti, e della sproporzione dei contributi, versati in misura uguale dai soggetti di cui si tratta, rispetto alle diverse prestazioni spettanti in virtù del calcolo del reddito della partecipazione all’impresa rispetto al reddito prettamente professionale. Riteneva, infatti, detta giurisprudenza che la funzione della L. n. 379 del 1990 sia quella di consentire alle professioniste di dedicarsi con serenità alla maternità evitando che la stessa si colleghi ad uno stato di bisogno o anche più semplicemente ad una diminuzione del tenore di vita (Corte Cost., sent. n. 3 del 1998); ne derivava il collegamento tra indennità e reddito dell’assicurata, restando irrilevante la natura del reddito, mentre, invece, la lesione del principio di uguaglianza si sarebbe avuta se alla professionista che opera in forma associata si fosse erogata l’indennità in misura ridotta, non garantendosi in tal caso alla professionista la detta tutela della maternità (sentenza 19130 del 2003 cit.).

5.3. Ulteriormente si escludeva ogni obiezione di incostituzionalità, sotto il dedotto profilo, precisandosi che la stessa L. n. 379, all’art. 5, ammette che il contributo fissato può essere variato con decreto ministeriale al fine di garantire l’equilibrio delle gestioni e che il reddito d’impresa non è necessariamente superiore a quello ricavato da lavoro dipendente e viene a remunerare un’attività differente, non assimilabile sul piano della prestazione a quello dell’esercizio della professione i regime di subordinazione (Cass. n. 1102 del 2005, cit.).

Tale giurisprudenza ebbe un ripensamento dopo l’intervento del D.Lgs. 26 marzo 2000, n. 151 – recante il testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma della L. 8 marzo 2000, n. 53, art. 15 che pure all’art. 70 ribadiva il contenuto della L. n. 379, art. 1 – e della L. 15 ottobre 2003, n. 289, recante modifiche al testo di detto art. 70.

In sostanza, si rilevò che dai lavori parlamentari della proposta di legge di modifica del D.Lgs. n. 151, art. 70, poi sfociata nella L. n. 289 “… si evince va che si intendeva chiarire, senza possibilità di equivoci, che il reddito da prendere a riferimento per il calcolo dell’indennità è solo quello professionale con esclusione di quanto eventualmente percepito per altre attività svolte (come, ad esempio, proventi patrimoniali, redditi d’impresa, eccetera)”. Avendo la L. n. 289 sostituito l’art. 70, comma 2, sostituendo l’espressione “del reddito percepito e denunziato ai fini fiscali” con “del solo reddito percepito e denunziato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo”, se ne traeva la conclusione che il testo p re vigente dovesse essere interpretato in conformità a quello successivamente adottato, e si affermava che anche il periodo antecedente alla L. n. 289 il reddito da prendere a riferimento per il calcolo dell’indennità fosse solo quello professionale, con esclusione di quanto eventualmente percepito per altre attività (Cass. 10.6.05 n. 12260, oggi invocata dell’ENPAF).

5.4. Tale interpretazione è stata disattesa dalla più recente giurisprudenza di legittimità, la quale ha rilevato che: a) la modifica del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 70, comma 2, disposta dalla L. n, 289 del 2003 – nonostante le affermazioni di principio contenute nei lavoro preparatori – non ha portata retroattiva, nè natura interpretativa della normativa preesistente; b) dalla circostanza che sia stata emanata una norma modificativa deve inferirsi l’esistenza di un pregresso diverso regime, che il legislatore ha inteso mutare; c) in detto regime non veniva fatto riferimento alla qualificazione fiscale (“da lavoro autonomo”) dei redditi da prendere in considerazione ai fini della determinazione dell’indennità; d) nella originaria disposizione della L. n. 379, art. 1 (recepita dal D.Lgs. n. 151, art. 70, comma 2) l’attività libero-professionale non è richiamata in funzione del reddito denunciato bensì del soggetto produttore, di modo che il fatto che il reddito sia stato dichiarato come reddito d’impresa è irrilevante.

In forza di tali argomentazioni la giurisprudenza più recente ha ribadito che nel regime antecedente la L. n. 289 del 2003 la determinazione dell’indennità di maternità spettante alle libere professioniste, è basata sul reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda, a prescindere dalla forma in cui in concreto sia esercitata l’attività professionale e anche quando il reddito conseguito abbia natura mista, professionale e di impresa (Cass. 13.5.08 n. 11935).

Intendendo il Collegio dare continuità a tale impostazione, così riprendendo l’orientamento antecedente, anteriore all’emanazione della L. n. 289 del 2003 (la quale, si ribadisce, nella specie non è applicabile ratione temporis), il motivo deve essere rigettato.

5.5. Quanto alla questione di costituzionalità sollevata in subordine dall’ENPAF, deve ritenersi l’infondatezza dei profili di illegittimità denunciati in forza delle argomentazioni adottate dalla detta prevalente giurisprudenza, sopra riferite e riprese dalla recente pronunzia del 2008, contro le quali non vengono dedotti nuovi argomenti.

6. E’, invece, fondato il secondo motivo.

La L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, nel disciplinare il regime degli accessori inerenti alle prestazioni dovute dagli “enti gestori di forme di previdenza obbligatoria”, ha disposto (primo periodo) che tali enti “sono tenuti a corrispondere gli interessi legali … a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l’adozione del provvedimento sulla domanda” e (secondo periodo), che “l’importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione delle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito”.

Con quest’ultima disposizione è sancito il divieto di cumulo fra gli interessi legali e la rivalutazione monetaria riguardo alle prestazioni erogate in ritardo dagli enti suddetti, essendo stato previsto che la mora debba essere risarcita mediante la corresponsione della maggior somma risultante dal calcolo degli interessi e dal calcolo della rivalutazione.

L’odierno ricorrente aveva invocato l’applicazione di tale norma nel giudizio di merito, facendone oggetto di uno specifico motivo di appello (si vedano le conclusioni indicate nella premessa della sentenza impugnata). Trovando nella specie applicazione la norma in questione e non avendo il giudice di appello preso in esame detta censura, deve essere accolto il motivo in esame.

In conclusione, deve essere rigettato il primo motivo e deve essere accolto il secondo. Cassata l’impugnata sentenza nei limiti dell’accoglimento, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, può provvedersi nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2 riducendo la condanna dell’ENPAF agli accessori nei limiti della maggior somma tra interessi e rivalutazione.

Quanto alle spese, ferme restando le spese del giudizio di primo grado, in ragione della reciproca soccombenza, debbono essere compensate le spese del giudizio di secondo grado e quelle del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo ed accoglie il secondo; per l’effetto cassa l’impugnata sentenza nei limiti dell’accoglimento e, pronunziando nel merito, condanna l’ENPAF a pagare a P.M. S. a titolo di accessori la maggior somma tra interessi e rivalutazione. Mantiene ferma la statuizione sulle spese disposta dal primo giudice e compensa tra le parti le spese del giudizio di appello, nonchè di questo giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2010

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