Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10708 del 04/05/2010

Cassazione civile sez. lav., 04/05/2010, (ud. 04/03/2010, dep. 04/05/2010), n.10708

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28091-2006 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO

EMANUELE II 326, presso lo studio dell’avvocato SCOGNAMIGLIO RENATO,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SCOGNAMIGLIO

CLAUDIO, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

BANCO POPOLARE DI VERONA E NOVARA S.C.A.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI

RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato RUSSO SERGIO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato DALLA BERNARDINA MARIO,

giusta procura speciale atto Notar PORCEDDU CILIONE di Verona del

07/11/2006, rep. n. 49691;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 46 93/2 005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/10/2005 R.G.N. 5973/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/03/2010 dal Consigliere Dott. BRUNO BALLETTI;

udito l’Avvocato PORCELLI VINCENZO per delega SCOGNAMIGLIO RENATO;

udito l’Avvocato RUSSO SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza “non definitiva” in data 28 settembre 1988 il Tribunale – giudice del lavoro di Roma, pronunziando sul ricorso ex art. 414 c.p.c. proposto da R.G. nei confronti della BANCA POPOLARE DI VERONA E NOVARA-BANCO S. GEMINIANO E S. PROSPERO soc. coop. r.l. e sulla domanda riconvenzionale ex art. 416 c.p.c. (comma 2) proposta dalla cennata Banca, così provvedeva: “non defitivamente pronunciando, dichiara la legittimità del recesso per giusta causa dal contratto di agenzia (OMISSIS) Inter partes formulato dal ricorrente con lettera (OMISSIS) e per l’effetto rigetta la proposta domanda riconvenzionale, condanna la società convenuta al pagamento di tutti gli importi dovuti a titolo di trattamento complessivo di fine rapporto da liquidarsi nel prosieguo del giudizio”. Successivamente, con sentenza “definitiva” in data 19 giugno 2000, l’adito Tribunale di Roma così statuiva: “condanna la società convenuta al pagamento in favore del ricorrente della somma di L. 100.000.000 liquidata in via equitativa a titolo di provvigioni affari F.E.I. s.p.a. e F.S. s.p.a. nonchè di risarcimento del danno, oltre ad interessi di legge nonchè all’ulteriore somma (oltre quanto già percepito in corso di causa) di L. 13.500.000, oltre accessori di legge a titolo di indennità complessiva di fine rapporto ed alle spese di lite”.

Avverso le cennate sentenze la soc. coop. r.l. BANCO POPOLARE DI VERONA E NOVARA (succeduta a titolo universale alla BANCA POPOLARE DI VERONA E NOVARA-BANCO DI S. GEMINIANO E S. PROSPERO soc. coop. r.l.) proponeva appello e, nel relativo giudizio, si costituiva R. G. che proponeva appello incidentale. L’adita Corte di appello di Roma, con sentenza del 10 ottobre 2005, così statuiva: “accoglie l’appello principale ed in riforma delle sentenze impugnate rigetta le domande proposte dal R. con il ricorso di primo grado e condanna quest’ultimo a restituire alla società appellante le somme percepite in esecuzione delle sentenze di primo grado oggetto del presente gravame con interessi legali a far tempo dalla data del pagamento; in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dalla società originaria resistente odierna appellante, condanna R. di indennità sostitutiva del preavviso con interessi dalla data di maturazione del credito; respinge l’appello incidentale; compensa integralmente le spese di entrambi i gradi di giudizio”.

Per la cassazione di questa sentenza R.G. propone ricorso assistito da due motivi e deposita memoria ex art. 378 c.p.c..

L’intimata soc. coop. r.l. BANCA POPOLARE DI VERONA E NOVARA resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Con il primo motivo di ricorso il ricorrente – denunciando “violazione dell’art. 2119 cod. civ. anche in relazione agli artt. 1175, 1206, 1337, 1366, 1375, 1748 e 1750 cod. civ., nonchè vizi di motivazione” – censura la sentenza impugnata per avere “la Corte di appello di Roma omesso di considerare gli elementi di fatto, accertati in sede istruttoria ed all’evidenza dotati del carattere della decisività, sul piano dell’accertamento dell’ambito di obbligazioni, e di diritti, assunti dalle parti in sede di trattative e di conclusione del contratto, la cui pretermissione integra, il vizio motivazionale lamentato” e rimarca che “non poteva la Corte territoriale ragionare a partire dall’assenza di un danno per il ricorrente al fine di negare la rilevanza come inadempimento dei contegni addebitati al Banco, atteso che, in punto di diritto, ritenere necessario, al fine della prova dell’inadempimento tale da integrare la giusta causa di recesso, il prodursi di un danno equivale a violare o falsamente applicare l’art. 2119 c.c. ed i principi in tema di concretizzazione del concetto indeterminato di giusta causa di recesso, per l’integrazione del quale non è affatto richiesta la produzione di un danno in capo al soggetto che subisca l’inadempienza altrui”.

Con il secondo motivo il ricorrente – denunciando “violazione o falsa applicazione dell’art. 1748 cod. civ., nonchè vizi di motivazione” – rileva, a censura della decisione sul punto che l’attività preparatoria svolta da esso ricorrente per il procacciamento di determinati affari non fosse idonea a fondare diritti provvigionali a favore del ricorrente stesso, che “alla stregua dell’art. 1748 c.c. cit., nel testo applicabile ratione temporis al rapporto in questione, l’agente ha diritto alla provvigione anche in caso di esecuzione parziale dell’affare cosicchè, anche alla luce del principio, desumibile, già all’epoca dei fatti di causa, dall’art. 1748 c.c., comma 3, di “causalità” nell’intervento dell’agente sulla promozione dell’affare si doveva riconoscere, così come aveva fatto il giudice di primo grado, e quanto meno ex art. 432 c.p.c. in via equitativa un importo a titolo provvigionale al ricorrente”.

2 – Il primo motivo di ricorso non è meritevole di accoglimento.

2/a – Al riguardo – in merito alle censure formulate dal ricorrente “in tema di concretizzazione del concetto indeterminato di giusta causa di recesso” – si rileva che, se anche la nozione di “giusta causa” può farsi rientrare nell’ambito delle “norme elastiche” (e di quelle ad esse connesse, ma con le stesse non confondibili, entro il concetto di “clausola generale”, cioè delle norme il cui contenuto, appunto, elastico richiede giudizi di valore in sede applicativa, in quanto la gran parte delle espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono dotate di una certa genericità la quale necessita, inevitabilmente, di un’opera di specificazione da parte del giudice che è chiamato a darvi applicazione), purtuttavia siffatto inquadramento non comporta l’accoglimento della conclusione come pretese dal ricorrente, atteso che l’applicazione delle disposizioni formulate in virtù dell’utilizzo di concetti giuridici indeterminati non coinvolge un mero processo di identificazione dei caratteri del caso singolo con gli elementi della fattispecie legale astratta e richiede, invece, da parte del giudice l’esercizio di un notevole grado di discrezionalità al fine di individuare nella specifica fattispecie concreta le ragioni che ne consentano la riconduzione alle nozioni usate dalla norma. Pertanto, nell’ambito di detta valutazione, il giudice, oltre a risolvere la specifica controversia, partecipa in tal modo alla formazione del concetto (e, cioè, alla sua progressiva definizione in relazione al valore semantico del termine), con la precisazione che il significato adottato non può prescindere dalle convenzioni semantiche sussistenti all’interno di una data comunità in una certa epoca storica e, sotto concorrente profilo, dai principi generali (specie di rango costituzionale) propri dell’ordinamento positivo.

In particolare, pure se l’operazione valutativa a compiuta dal giudice di merito – il quale, nell’applicare clausole generali come quella della definizione dalla “giusta causa”, applica una tipica “norma elastica” – non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, è subito da precisare (onde evitare approssimativi fraintendimenti) che la verifica generale sulla correttezza del profilo considerato dal giudice del merito siccome applicativo di “norma elastica” resta sempre soggetto ad un controllo di legittimità al pari di (= simile a) ogni altro giudizio riguardante la valutazione di “qualsiasi” norma di legge (non, quindi, ad una aprioristica valutazione di fondatezza della relativa censura sollevata sul punto inteso a far riformare la decisione impugnata), intendendosi così esattamente l’adesione all’orientamento giurisprudenziale di cui alle sentenze di questa Corte nn. 10514/1998, 434/1999, 7838/2005, 8305/2005 e 21313/2005 (in difformità al non condivisibile indirizzo espresso nelle sentenze nn. 2616/1990 e 154/1997), in quanto, nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una “norma elastica” (che, per la sua stessa struttura, si limita ad indicare un parametro generale), il giudice di merito compie un’attività di interpretazione giuridica della norma stessa, per cui da concretezza a quella parte mobile (“elastica”) della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quando un determinato comportamento venga giudicato conforme o meno ad una “qualsiasi” (cioè “non elastica”) norma di legge.

Ora, nella individuazione della nozione di “giusta causa”, occorre riferirsi alla definizione datane da “antica” dottrina – secondo cui “la giusta causa è quell’avvenimento esteriore che influendo sullo svolgimento del rapporto determina la prevalenza dell’interesse di una parte all’estinzione sull’interesse dell’altra alla conservazione del rapporto” – per considerare la precisazione (sicuramente più tecnica) indicata dalla “recente” dottrina a mente della quale “la giusta causa consiste in una situazione sopravvenuta che attiene allo svolgimento del rapporto, impedendone la realizzazione della funzione economico-giuridica e, quindi, alla causa del negozio, fonte del rapporto, nel suo aspetto funzionale”.

L’implicazione tratta dalla cennata definizione è che, concretando l’inadempimento una mancanza o un vizio funzionale della causa, il problema del coordinamento fra questa situazione e la “giusta causa”, non è suscettibile di una soluzione unitaria, in quanto si deve fare capo per ogni singolo rapporto alla disciplina dettata dalla legge e alle sue esigenze peculiari, per vedere se le norme generali sulla risoluzione del contratto vadano pur sempre applicate ovvero lo strumento più rapido del recesso per giusta causa debba impiegarsi in talune ipotesi di deficienza funzionale della causa. In particolare, per la più specifica attinenza al giudizio in esame, è opportuno riferirsi alle conclusioni tratte in materia secondo le quali: a) la spiccata e specifica importanza sociale e l’estensione stessa del fenomeno del lavoro prestato (anche in posizione autonoma) rendono opportuna la trattazione particolare del rilievo dato dall’ordinamento alla giusta causa per l’estinzione di quel rapporto;

b) l’inadempimento deve essere ricompresso nella giusta causa poichè è proprio l’inadempimento a far venire meno, prima di ogni altro fatto, il presupposto fiduciario del rapporto.

Tali precisazioni conclusive provenienti dalla dottrina (specifica in argomento) hanno trovato conferma nella giurisprudenza di questa Corte con riferimento all’utilizzabilità dell’istituto del recesso per giusta causa, disciplinato dall’art. 2119 cod. civ. nell’ambito del rapporto di agenzia (sottotipo qualificato di prestazione d’opera) che ha pacificamente natura autonoma e non già subordinata.

Sul punto, infatti, la soluzione adottata dalla giurisprudenza di legittimità è nel senso di consentire, in via analogica, l’applicazione della giusta causa anche al rapporto di agenzia, stante l’assenza di una espressa previsione normativa relativa alla possibilità di recedere senza preavviso da tale rapporto (Cass. n. 12873/2004); dalla cennata giurisprudenza è stato, altresì, precisato che la relativa normativa è caratterizzata da una certa genericità (in stretto riferimento al concetto di “norma elastica”) e richiede di essere adeguatamente interpretata in sede applicativa in correlazione allo specifico tipo di situazione oggetto di esame, senza peraltro che, in genere il livello di specificazione interpretativa possa consentire univocamente, per così dire meccanicamente, la qualificazione giuridica della vicenda oggetto di giudizio che sia stata accertata in termini puramente fattuali. Con la conseguenza che il giudizio di fatto, ai fini della sussunzione della fattispecie concreta nell’ipotesi normativa, si deve (in genere) colorare di più o meno consistenti aspetti valutativi, funzionali alla sua qualificazione in termini legali: valutazioni che spettano al giudice di merito e che nella specie, la Corte di appello di Roma ha esaustivamente compiuto escludendo – al termine di un corretto percorso motivazionale – che “il recesso del R. fosse sorretto da giusta causa e giustificato dalla inadempienza della BANCA agli obblighi assunti per contratto” e, pertanto, esattamente applicando la normativa sulla “giusta causa” secondo l’appropriato significato semantico-giuridico adottato in relazione ai principi generali dell’ordinamento.

2/b – Con riferimento, quindi, alle censure concernenti l’asserita errata valutazione delle risultanze probatorie (testimoniali e documentali) si rimarca che la cennata valutazione rientra nell’attività istituzionalmente riservata al giudice di merito non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (Cass. n. 322/2003).

Pervero, il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso e di disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel loro complesso, pur senza un’esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati e non accolti, anche se allegati, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito a quelli utilizzati. Si rileva, altresì, che le censure con cui una sentenza viene impugnata per vizio della motivazione in ordine alla valutazione delle risultanze probatorie non possono essere intese a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte – pure in relazione al valore da conferirsi alle “presunzioni” la cui valutazione è anch’essa incensurabile in sede di legittimità alla stregua di quanto già riferito in merito alla valutazione delle risultanze probatorie (Cass. n, 11906/2003) – e, in particolare, non vi si può opporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5: in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, idest di una nuova pronuncia sul fatto sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

3/c – Con riferimento, poi, alle doglianze in merito agli asseriti vizi di motivazione – che inficerebbero la sentenza impugnata – si precisa che: -) il difetto di motivazione, nel senso d’insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l’obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, – come per le censure mosse nella specie dal ricorrente – quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati; -) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l’iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno non insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l’esame di punti decisivi della controversia – irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non presenta;

-) per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi – come, nella specie, esaustivamente ha fatto la Corte di appello di Roma – le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.

4 – Passando, quindi, alla valutazione del secondo motivo di ricorso si rileva che anche lo stesso debba essere respinto.

Infatti – in merito alle censure proposte dal ricorrente dal punto in cui sono state respinte le originarie “domande di pagamento dei compensi provvisionali per i cd. affari s.p.a F.S. e s.p.a. FEC.” – la Corte di appello di Roma ha chiaramente statuito che “la circostanza che nel corso degli anni pur ribadita l’esclusione di operazioni di tal fatta dall’ambito del rapporto di agenzia, il Banco abbia assegnato una parte di compenso sulle spese di istruttorie, conferma la portata degli accordi negoziali nei termini sopra ricostruiti e la discrezionalità delle erogazioni effettuate, erogazioni che avrebbero potuto costituire al più titolo per una domanda diversa, per causa petendi (correlata, quindi, ad allegazioni in fatto e in diritto che non si leggono nel ricorso introduttivo del giudizio) e petitum, diversa da quella proposta dal R.”.

Il carattere preclusivamente decisorio di siffatta statuizione conferma l’inammissibilità del secondo motivo, in quanto l’interpretazione operata dal giudice di appello in merito al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale e della relativa impugnativa è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tale proposito, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (cfr. Cass. n. 17947/2006). In particolare, in sede di legittimità, occorre tenere distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda o di impugnativa, o la pronuncia su domanda e su impugnativa non proposta, dal caso in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa: solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c. per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di cassazione ha il potere- dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale; nel caso in cui venga invece in contestazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un tipico accertamento in fatto, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (Cass. n. 16596/2005). Più specificatamente, rientra nella nozione di error in procedendo, a fronte del quale la Corte di cassazione ha il potere- dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi necessari ai fini della richiesta pronuncia, la censura di omesso esame della domanda e di pronuncia su domanda non proposta, ma non la censura di erronea interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, nè la censura di omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione; tuttavia, qualora la censura relativa alla motivazione lamenti un vizio procedurale in cui sia incorso il giudice di merito (una sorta di error in procedendo indiretto, o di secondo grado), ciò consente alla Corte di cassazione l’esame degli atti del giudizio di merito, al limitato fine di verificare che l’errore procedurale in cui sia eventualmente incorso il giudice di merito si sia tradotto in un vizio di motivazione (Cass. n. 9471/2004).

Nella specie, la Corte di appello di Roma ha motivatamente statuito sul contenuto dell’originaria domanda giudiziale del R. e su tale punto della decisione il motivo di ricorso non è adeguatamente conformato a quanto sancito dall’art. 366 cod. proc. civ. e, comunque, ripropone censure in merito alle valutazioni probatorie inammissibili in sede di legittimità giusta quanto dianzi rimarcato sub “cap. 3/b”.

5 – A definitiva conferma della pronuncia di rigetto del ricorso vale, infine, riportarsi al principio di cui alla sentenza di questa Corte n. 5149/2001 in virtù del quale, essendo stata rigettata la principale assorbente ragione di censura, il ricorso deve essere respinto nella sua interezza poichè diventano inammissibili, per difetto di interesse, le ulteriori ragioni di censura.

6 – In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto da R.G. deve essere integralmente respinto. Il ricorrente, per effetto della soccombenza, va condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 67,00 oltre a Euro 5.000,00 per onorari, nonchè alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 4 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2010

 

 

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