Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10701 del 05/06/2020

Cassazione civile sez. trib., 05/06/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 05/06/2020), n.10701

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso iscritto al n. 21851/2013 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n.

12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

Rabobank Nederland Coóperatieve Centrale Raiffeisen-Boerenleenbank

B.A., Milan Branch, rappresentata e difesa dagli Avv. Giuseppe

Zizzo, Claudio Lucisano e Maria Sonia Vulcano, con domicilio eletto

in Roma, via Crescenzio, n. 91, presso lo studio di questi ultimi

due avvocati;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, n. 74/5/13 depositata il 16 maggio 2013.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 novembre 2019

dal Consigliere Giuseppe Nicastro;

udito l’Avv. Dello Stato Rocchitta Giammario per la ricorrente e gli

Avv. Giuseppe Zizzo e Claudio Lucisano per la controricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Tommaso Basile, che ha concluso chiedendo il rigetto del

ricorso principale.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Sulla base degli esiti di una verifica fiscale, della quale fu redatto processo verbale, il 23 novembre 2009 l’Agenzia delle entrate notificò alla Rabobank Nederland CoCiperatieve Centrale Raiffeisen-Boerenleenbank B.A., Milan Branch (hinc anche: “la contribuente” o “la Branch”) – stabile organizzazione in Italia della Rabobank Nederland Coóperatieve Centrale Raiffeisen-Boerenleenbank B.A. (hinc anche: “la Banca olandese”), con sede in Amsterdam – un avviso di accertamento, relativo a IRES e IRAP per il periodo d’imposta 2004, con il quale, tra l’altro e per quanto qui interessa, contestava la deduzione, operata dalla contribuente ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 106, comma 3, secondo periodo, della quota di un nono (pari a Euro 2.831.723,00) dell’ammontare dell’eccedenza (rispetto al limite dello 0,60 per cento del valore dei crediti risultanti in bilancio) della svalutazione del credito erogato alla Parmalat s.p.a. e alla Wishaw Trading S.A. maturata e iscritta per la prima volta in bilancio nell’esercizio 2003.

La contestazione muoveva dalla premessa che, ai sensi dell’art. 7 della Convenzione tra la Repubblica italiana e il Regno dei Paesi Bassi per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire le evasioni fiscali, con protocollo aggiuntivo, fatta a L’Aja l’8 maggio 1990, ratificata a seguito della L. 26 luglio 1993, n. 305 (hinc: “Convenzione tra l’Italia e i Paesi Bassi contro le doppie imposizioni”) e, in particolare, di tale articolo, comma 2, alla stabile organizzazione vanno attribuiti, in ciascuno Stato, “gli utili che si ritiene sarebbero stati da essa conseguiti se si fosse trattato di un’impresa distinta svolgente attività identiche o analoghe in condizioni identiche o analoghe e in piena indipendenza dall’impresa di cui essa (/ costituisce una stabile organizzazione”. Sulla base di tale premessa, l’avviso di accertamento, anche richiamando il processo verbale, rilevato che la Branch aveva un patrimonio di vigilanza (cosiddetto fondo di dotazione) nettamente inferiore a quello imposto dalla circolare della Banca d’Italia 21 aprile 1999, n. 229 alle banche residenti – sicchè, se fosse stata tale, non avrebbe potuto erogare l’intero credito alla Parmalat s.p.a. e alla Wishaw Trading S.A. – e che le risorse necessarie per tale erogazione provenivano in gran parte da finanziamenti ricevuti dalla “casa madre” olandese (e non dal fondo di dotazione), alla quale la Branch doveva quindi ritenersi avere trasferito parte degli utili dell’operazione sotto forma di interessi passivi per tali finanziamenti, tenuto conto del principio della correlazione tra costi e ricavi, attribuiva alla predetta “casa madre” la parte della svalutazione corrispondente alla percentuale dei crediti svalutati erogati con risorse provenienti dalla stessa, negandone, conseguentemente, la deducibilità a opera della Branch (che l’avrebbe operata in violazione sia dell’art. 7 della Convenzione tra l’Italia e i Paesi Bassi contro le doppie imposizioni sia del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 23, comma 1).

2. L’avviso di accertamento fu impugnato davanti alla Commissione tributaria di Milano che accolse il ricorso della contribuente.

3. Avverso tale pronuncia, l’Agenzia delle entrate propose appello alla Commissione tributaria regionale della Lombardia che lo rigettò, relativamente alla contestazione in esame, per le due ragioni che: a) “dall’omessa contestazione della svalutazione per il periodo d’imposta 2003 e dallo spirare del termine di decadenza per la rettifica del reddito da parte dell’Ufficio discende che questi poteva solo verificare che la quota della svalutazione attribuita al periodo d’imposta successivo corrispondesse ad un nono della svalutazione operata e non entrare nel merito della determinazione dell’ammontare della svalutazione deducibile per cui l’Ufficio non poteva accertare l’indebita deduzione di componenti negativi di reddito per Euro 2.831.723,00 derivante dal finanziamento concesso alla società Parmalat S.p.A. e alla Wishaw Trading Sa, società quest’ultima appartenente allo stesso gruppo, con conseguente attribuzione di ricavi (recte: parte della svalutazione) alla casa madre olandese come conseguenza del rigiro di una parte degli utili sotto forma di interessi passivi”; b) “l’assetto convenzionale desumibile dai Trattati e dal Commentario OCSE non esprime alcuna possibilità di contrastare la deducibilità delle perdite su crediti conseguite dalle stabili organizzazioni bancarie; mentre il richiamo al rapporto OCSE operato dall’Ufficio è da considerare un’illegittima applicazione retroattiva del rapporto in quanto divenuto definitivo in sede OCSE nel 2008 e quindi, comunque, inesistente all’epoca dei fatti (2003) se non quale progetto di regolamentazione. Inoltre l’avviso di accertamento non ha tenuto conto che la normativa sulla concentrazione dei rischi, a cui i verificatori hanno fatto riferimento (accordo di Basilea 2) per il calcolo del fondo di dotazione della stabile organizzazione bancaria, prevede uno specifico meccanismo di esonero per le stabili organizzazioni bancarie extracomunitarie (recte: comunitarie)”.

4. Avverso tale sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata in segreteria il 16 maggio 2013 e notificata il 12 giugno 2013, ricorre per cassazione l’Agenzia delle entrate, che affida il proprio ricorso, notificato il 24/25-26 settembre 2013, a due motivi.

7. La Rabobank Nederland Coóperatieve Centrale Raiffeisen-Boerenleenbank B.A., Milan Branch, resiste con controricorso, notificato il 31 ottobre/6 novembre 2013.

8. La Rabobank Nederland Coóperatieve Centrale Raiffeisen-Boerenleenbank B.A., Milan Branch, ha depositato una memoria.

9. Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 20 novembre 2019, nella quale il Procuratore generale ha concluso come indicato in epigrafe.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43 e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 7, per avere la CTR ritenuto che la decadenza dal potere di accertamento in rettifica della dichiarazione relativa al periodo d’imposta nel quale le svalutazioni di crediti sono maturate, imputate al bilancio e dedotte entro il limite dello 0,60 per cento del valore dei crediti risultanti nello stesso bilancio (nella specie, il 2003) preclude all’amministrazione finanziaria di rettificare la deduzione negli esercizi successivi (nella specie, il 2004) delle quote costanti di un nono dell’ammontare delle svalutazioni eccedente il suddetto limite, contestando, incidentalmente, la correttezza della deduzione originaria.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 106 e dell’art. 7, comma 2, della Convenzione tra l’Italia e i Paesi Bassi contro le doppie imposizioni, per avere la CTR ritenuto la deducibilità delle svalutazioni dei crediti – e, in particolare, la deducibilità della quota di un nono dell’ammontare delle svalutazioni eccedente il limite dello 0,60 per cento del valore dei crediti risultanti in bilancio – anche per la parte dei crediti svalutati la cui erogazione era avvenuta con risorse provenienti da finanziamenti ricevuti dalla “casa madre” olandese, in assenza di un adeguato fondo di dotazione.

3. La sentenza impugnata si fonda su due distinte e autonome rationes decidendi (evidenziate al punto 3 della parte in fatto), ciascuna giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione, le quali sono oggetto, rispettivamente, del primo e del secondo motivo di ricorso.

Nella prospettiva, pur se basata su una cognizione meramente interinale, della possibilità del superamento dell’eccezione di inammissibilità del secondo motivo sollevata dalla controricorrente (inammissibilità che, comportando il consolidamento dell’autonoma ratio decidendi oggetto di tale motivo, renderebbe irrilevante l’esame del primo motivo, che investe l’altra ratio decidendi), va osservato che il primo motivo di ricorso pone la questione se l’amministrazione finanziaria possa rettificare una dichiarazione dei redditi (ovviamente, entro il relativo termine per l’accertamento) contestando un componente di reddito a efficacia pluriennale, sulla base di una diversa ricostruzione o qualificazione giuridica dei fatti costitutivi di esso, quando tali fatti siano avvenuti in un precedente periodo d’imposta la cui dichiarazione non può più essere rettificata per essere decorso il relativo termine di decadenza.

In altre parole, il primo motivo solleva la questione se, nel caso di componenti di reddito a efficacia pluriennale, la decadenza dalla potestà impositiva dell’amministrazione finanziaria, che intenda contestare un tale componente sulla base di una diversa ricostruzione o qualificazione giuridica dei suoi fatti costitutivi, si determini con il decorso del 31 dicembre del quarto (ora quinto) anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione dove è indicato il singolo rateo in cui il componente reddituale è suddiviso ovvero con il decorso del 31 dicembre del quarto (ora quinto) anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui il componente reddituale è maturato ed è stato contabilizzato e iscritto per la prima volta in bilancio.

Il problema si pone qui con specifico riguardo alla rettifica delle dichiarazioni in cui sono indicate le quote in cui è suddiviso l’ammontare delle svalutazioni dei crediti risultanti in bilancio che supera lo 0,60 per cento del valore degli stessi crediti deducibile in ciascun esercizio; ammontare che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 106, comma 3, secondo periodo, nel testo applicabile ratione temporis, consentiva agli enti creditizi e finanziari di dedurre “in quote costanti nei nove esercizi successivi”. La questione ha, peraltro, una portata generale, giacchè si pone in modo analogo con riguardo a tutti componenti di reddito che originano da una fattispecie a efficacia pluriennale, quali, tra gli altri, le quote di ammortamento del costo di beni e le quote di spese relative a più esercizi, quando tali costo o spese siano stati sostenuti e iscritti per la prima volta in bilancio in un periodo d’imposta per il quale l’amministrazione finanziaria sia ormai decaduta dal termine per l’accertamento. Similmente essa si pone – sempre a titolo di mero esempio – in relazione alle rate della detrazione delle spese per gli interventi di recupero edilizio, quando la spesa sia stata sostenuta in un periodo d’imposta ormai definito.

Da ciò il notevole rilievo anche pratico della questione, che ha anche indotto la difesa erariale a formulare, nel corso dell’udienza pubblica, l’auspicio di un indirizzo certo da parte della Corte.

4. Come si è visto, la sentenza impugnata ha reputato che “dall’omessa contestazione della svalutazione per il periodo d’imposta 2003 e dallo spirare del termine di decadenza per la rettifica del reddito da parte dell’Ufficio discende che questi poteva solo verificare che la quota della svalutazione attribuita al periodo d’imposta successivo corrispondesse ad un nono della svalutazione operata e non entrare nel merito della determinazione dell’ammontare della svalutazione deducibile per cui l’Ufficio non poteva accertare l’indebita deduzione di componenti negativi di reddito per Euro 2.831.723,00 derivante dal finanziamento concesso alla società Parmalat S.p.A. e alla Wishaw Trading Sa (..), con conseguente attribuzione di ricavi (recte: parte della svalutazione) alla casa madre olandese come conseguenza del rigiro di una parte degli utili sotto forma di interessi passivi”.

La CTR ha dunque ritenuto che il componente negativo di reddito a efficacia pluriennale non possa più essere contestato dall’amministrazione finanziaria, per ragioni diverse dalla mera erronea determinazione della quota, quando sia divenuta definitiva, per l’inutile decorso del relativo termine di decadenza per l’avviso di accertamento, la dichiarazione dei redditi nella quale lo stesso componente è stato indicato la prima volta.

5. Nella giurisprudenza della Corte si rinvengono due precedenti che hanno recentemente affrontato la questione ex professo (in relazione a fattispecie di deduzione di quote di ammortamento), risolvendola in modo analogo alla CTR.

Si tratta di Cass. 31/01/2019, n. 2899 (non massimata) e di Cass., 24/04/2018, n. 9993, così massimata: “(i)n tema di accertamento, nell’ipotesi di beni ammortizzabili, il termine di decadenza per l’esercizio del potere impositivo decorre dall’annualità nella quale è stata presentata la dichiarazione in cui i costi sono stati concretamente sostenuti e la quota di ammortamento è stata iscritta in bilancio, rispetto alla quale sorgono i presupposti del diritto alla deduzione, a ciò non ostando il principio di autonomia dei periodi di imposta, che non opera in relazione a situazioni geneticamente unitarie ma destinate a ripercuotersi su annualità successive, e non potendo il contribuente, come peraltro affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 280 del 2005, essere esposto all’azione del Fisco per un periodo eccessivamente dilatato” (Rv. 648066-01).

Gli argomenti posti a fondamento di quest’ultima pronuncia – cui la successiva Cass. n. 2899 del 2019 sostanzialmente si limita ad aderire – sintetizzati nella citata massima, sono, più nel dettaglio, i seguenti.

Nell’accogliere il motivo di ricorso incidentale della società contribuente – che aveva denunciato, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 – il Collegio osservò anzitutto come la tesi dell’Agenzia delle entrate, secondo cui la decadenza dalla potestà impositiva si sarebbe determinata con il decorso del 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione dove è indicato il singolo rateo in cui il componente reddituale è suddiviso, non potesse trovare conferma in una “meccanicistica” applicazione del “criterio di autonomia dei periodi d’imposta”, in quanto tale criterio “non rileva in termini assoluti ed incondizionatamente, atteso che, come ha posto ben in evidenza la giurisprudenza in tema di efficacia espansiva del giudicato su annualità diversa da quella oggetto della decisione definitiva (cfr. Cass. n. 4832/15, 21395/17), esso non opera in relazione a situazioni geneticamente unitarie e, tuttavia, comunque destinate a ripercuotersi su annualità successive”.

Negato che l’autonomia dei periodi d’imposta potesse dare fondamento alla tesi dell’amministrazione finanziaria, la Corte, in secondo luogo – e soprattutto – fece ricorso all’interpretazione costituzionalmente conforme, in particolare, con riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 2005, “da cui è derivata l’adozione della vigente disciplina in tema di decadenza dell’Agenzia dal potere impositivo (e che) ha ribadito (cfr. anche Corte Cost. ord. 352/04) che, nella prospettiva di cui all’art. 24 Cost., è conforme a Costituzione, e va ricercata dall’interprete, soltanto una ricostruzione del sistema che non lasci il contribuente esposto all’azione esecutiva del fisco per termini eccessivamente dilatati ed ha nel contempo, a tal fine, rilevato la congruità del termine, sancito dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, al quale, in forza del n. 330 del 1994, va corrispondentemente rapportato l’obbligo di conservare i documenti allegati alla dichiarazione”. Dal che il Collegio trasse la conseguenza che, aderendo alla soluzione della possibilità di contestare un costo pluriennale o una quota di ammortamento oltre il termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo d’imposta di concreto sostenimento del primo o di iscrizione in bilancio dell’ammortamento, si arriverebbe “a violare lo stesso dictum di Corte Cost. 280/05”, atteso che è a tale periodo “che si ricollegano (..) i presupposti del diritto alla deduzione, e, quindi, il diritto medesimo nel suo definitivo valore (mentre il frazionamento interferisce solo sul relativo mero esercizio) e la predisposizione della documentazione giustificativa”.

6. In altre occasioni, la questione è stata solo approcciata dalla Corte, che non l’ha però compiutamente esaminata.

Cass. 11/02/2009, n. 3304 (non massimata) – citata da Cass. n. 9993 del 2018 a sostegno della soluzione da essa prescelta (“Nel senso indicato, sembra militare anche Cass. 3304/99 (recte: 3304/2009)”) ha affermato che “non v’è dubbio (…) che la rettifica della singola rata era possibile solo se fosse stato dimostrato che il cespite ammortizzato (l’avviamento) era eccessivo, perchè per questo solo motivo era possibile procedere alla rettifica della rata. E’ pur vero che ogni esercizio è autonomo, ma nel nostro caso la rettifica della rata non dipendeva da erroneità di questa (perchè superiore a quanto inizialmente previsto, perchè erroneamente calcolata ecc.), bensì dalla pretesa, mai dimostrata, dell’eccessività dell’avviamento: circostanza questa fuori causa in quanto la rettifica non riguardava l’avviamento stesso, ma solo l’esercizio 1993, essendo pacifico che nella fattispecie l’Ufficio non aveva mai proceduto al disconoscimento dell’iscrizione nel bilancio del 1990 dell’intero costo da ammortizzare negli anni successivi”. Dove non risulta del tutto chiaro se tale motivazione valga quale affermazione che, per poter rettificare le dichiarazioni dei periodi d’imposta successivi, dove sono indicate le quote in cui il componente reddituale è suddiviso, l’amministrazione finanziaria debba necessariamente contestare l’originaria iscrizione in bilancio dello stesso componente, ovvero quale mero rilievo della mancanza di prova, nella specie, dell’eccessività del valore di avviamento ammortizzato.

Cass. 21/05/2008, n. 12880 (Rv. 603903-01) – anch’essa citata, insieme con Cass. 23/06/2010, n. 15178 (non massimata), da Cass. n. 9993 del 2018 al fine di escludere che tali due pronunce possano assumere rilievo in senso contrario alla soluzione fatta propria – ha asserito che “non si vede per quale motivo si debba negare la facoltà dell’Ufficio di emettere un avviso di accertamento anche quando non ne derivi un’immediata maggiore pretesa impositiva, ma si debbano comunque contestare i criteri adottati nella redazione del bilancio ed i loro riflessi sulle obbligazioni fiscali negli esercizi futuri. L’avviso di accertamento può infatti assolvere non solo alla funzione di recuperare un tributo non pagato nell’esercizio, ma anche a quella di regolarizzare ogni altro aspetto del comportamento tributario della parte nel periodo e di assicurare il corretto svolgimento del rapporto fiscale nel futuro”.

Con il che la Corte sembra in effetti affermare solamente che l’amministrazione finanziaria ha facoltà di emettere un avviso di accertamento con cui si limiti a contestare i criteri adottati nella redazione del bilancio (nel quale il componente di reddito è iscritto per la prima volta), senza che tale avviso debba necessariamente esprimere una pretesa d’imposta, assolvendo invece solo la funzione di individuare le ripercussioni di detti (erronei) criteri di redazione del bilancio sulle obbligazioni tributarie per i periodi successivi. La Corte precisò altresì che, comunque, l’eventuale “irritualità” di un tale avviso di accertamento “non comporterebbe nessun riflesso sulla validità ed efficacia degli accertamenti emessi per gli anni successivi, nel corso dei quali è stato indebitamente dedotto, mediante quote di ammortamento, il costo riferibile all’anno” in cui è stato sostenuto.

La legittimità di un avviso di accertamento siffatto è stata successivamente confermata da Cass. n. 15178 del 2010, la quale ha peraltro aggiunto che, “pur sussistendo l’asserita decadenza dell’Ufficio dalla possibilità di rideterminare valori riferiti a spese per immobili in anni precedenti il quinquennio, è possibile la regolarizzazione dei calcoli delle quote di ammortamento per gli anni successivamente accertati”.

Va infine segnalata Cass. 13/05/2016, n. 9834 (Rv. 639870-01), che, in relazione a un caso di deduzione di quote di ammortamento ultradecennali, contestata dall’amministrazione finanziaria perchè il contribuente non aveva prodotto le fatture di acquisto dei beni strumentali ammortizzati, ha statuito che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, comma 2, primo periodo, (secondo cui “file scritture contabili obbligatorie ai sensi del presente decreto, di altre leggi tributarie, del codice civile o di leggi speciali devono essere conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta, anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 c.c. o da altre leggi tributarie, salvo il disposto dell’art. 2457 cod. cit.”) “deve essere interpretato (…) nel senso che l’ultrattività dell’obbligo di conservazione ovvero la sua estensione oltre il termine decennale dell’art. 2220 c.c. – ed ora pure del cit. art. 8, comma 5 (L. 27 luglio 2002, n. 212) si impone non già in via generale – di modo che se ne possa affermare l’inosservanza anche quando, come qui, il termine decennale sia spirato prima che l’accertamento abbia avuto luogo – ma solo se l’accertamento che sia iniziato prima del decimo anno non sia stato ancora definito, diversamente derivandone, se non un’interpretazione sostanzialmente abrogatrice della norma, un’applicazione di essa influenzata da un forte indice di discrezionalità, nel senso che, potendo l’amministrazione procedere all’accertamento nei termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, l’obbligo di conservazione, scaduto il periodo decennale, si protrarrebbe sino alla scadenza dei termini anzidetti per una durata che dipende esclusivamente dalla volontà dell’ufficio, rispetto alla quale il contribuente non avrebbe altra difesa che conservare le scritture sine die”. Con tale pronuncia, la Corte ha quindi statuito non che l’amministrazione finanziaria era decaduta dal potere di accertamento, ma solo che, essendo ormai cessato l’obbligo del contribuente di conservare le fatture di acquisto dei beni, l’onere di provare il diritto alla deduzione del costo poteva essere da lui assolto – come ritenuto dalla sentenza della CTR impugnata – mediante le annotazioni contenute nelle scritture contabili.

7. Esaurita la rassegna della giurisprudenza della Corte direttamente o indirettamente rilevante, si rammenta che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, dispone che “(g)li avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto (ora quinto) anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione”.

Tale disposizione stabilisce quindi che il termine di decadenza dal potere impositivo decorre dalla presentazione di ciascuna dichiarazione, senza prevedere alcuna regola derogatoria per i componenti di reddito pluriennali.

Da ciò sembrerebbe dover discendere che, anche con riguardo a tali componenti, la decadenza dell’amministrazione finanziaria matura con il decorso del 31 dicembre del quarto (oggi quinto) anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione dove è stato indicato ciascun singolo rateo in cui il componente reddituale è suddiviso.

Con le ricordate pronunce n. 9993 del 2018 e n. 2899 del 2019, la Corte è invece pervenuta alla diversa conclusione che, con riguardo ai ratei dei suddetti componenti reddituali pluriennali (nella specie, quote di ammortamento del costo di beni o del valore di avviamento), il recupero a tassazione, da parte dell’amministrazione, salvo che dipenda dalla mera erronea determinazione del rateo (per l’applicazione di un’aliquota errata o per errore di fatto nel calcolo del suo ammontare), deve avvenire entro il termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui il componente reddituale è maturato (nella specie, in cui il costo per i beni o per l’avviamento è stato sostenuto) ed è stato contabilizzato e iscritto per la prima volta in bilancio.

Per pervenire a questa conclusione, le predette pronunce hanno tratto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, la regola – che il citato testo di tale disposizione non sembrerebbe, almeno primo visu, come si è detto, esprimere – secondo cui la decadenza prevista da tale comma impedisce all’amministrazione finanziaria di contestare i fatti costitutivi dei componenti reddituali pluriennali nel senso di precludere la rettifica, con riguardo agli stessi fatti, delle dichiarazioni successive ancorchè esse siano, per gli altri profili, ancora contestabili.

Il Collegio reputa peraltro che – come è stato osservato anche da autorevole dottrina – gli argomenti utilizzati dalla sentenza n. 9993 del 2018 (cui la successiva ordinanza n. 2899 del 2019 si limita, come si è detto, ad aderire) per giustificare l’interpretazione da essa adottata siano non del tutto persuasivi o, comunque, opinabili, potendo prestare il fianco, ciascuno, a più di un’obiezione.

7.1. Quanto al primo argomento della negazione che l’autonomia dei periodi d’imposta potrebbe dare fondamento alla tesi secondo cui l’amministrazione finanziaria può rettificare le dichiarazioni relative a ciascun (successivo) periodo d’imposta anche se ciò comporta la ricostruzione o la riqualificazione giuridica di fatti, costitutivi di un componente pluriennale di reddito, avvenuti in un periodo d’imposta per il quale il termine per l’accertamento è ormai decorso, è stato anzitutto plausibilmente posto in dubbio che la regola dell’autonomia dei periodi d’imposta, dettata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 7, comma 1, in quanto norma di diritto sostanziale, sia effettivamente rilevante al fine di risolvere la questione procedurale se la contestazione di un componente reddituale pluriennale debba essere fatta, a pena di decadenza, entro il termine per rettificare la dichiarazione nella quale esso è stato considerato per la prima volta. Con il che, anche le obiezioni della sentenza n. 9993 del 2018 in ordine ai limiti di operatività della suddetta regola risulterebbero di scarsa utilità per risolvere la questione in esame.

D’altro canto, il riferimento alla regola processuale dell’efficacia espansiva del giudicato esterno relativo a fatti “che hanno efficacia permanente o pluriennale” (così Cass. 11/03/2015, n. 4832 e 15/09/2017, n. 21395 – richiamate da Cass. n. 9993 del 2018 – le quali menzionano entrambe, come esempi dei suddetti fatti, la “”spalmatura” in più anni dell’ammortamento di un bene o, in generale, della deducibilità di una spesa”), sembra essere scarsamente convincente per due ragioni.

Anzitutto, perchè tale regola risponde a un’esigenza – quella di evitare accertamenti dei fatti con “efficacia permanente o pluriennale” contrastanti per i vari periodi d’imposta per i quali essi producono effetto – che non è direttamente soddisfatta dalla disciplina della decadenza di Cass. n. 9993 del 2018 e n. 2899 del 2019, atteso che questa non impedisce, di per sè, accertamenti diversi per i vari periodi d’imposta, mediante avvisi notificati entro il termine individuato.

In secondo luogo – e soprattutto – perchè il riferimento alla regola dell’efficacia espansiva del giudicato esterno pare non considerare appieno la diversità tra il passaggio in giudicato di una sentenza e la mancata rettifica nei termini di una dichiarazione tributaria (nella specie, quella nella quale il componente di reddito è stato indicato per la prima volta).

Tale diversità sembrerebbe in effetti comprovata dalle considerazioni da un lato, che il giudicato è il risultato di un accertamento compiuto dal giudice nel processo mentre la decadenza dalla potestà impositiva consegue a un’inerzia dell’amministrazione finanziaria (che nulla accerta) che comporta solo la preclusione di fare valere ulteriori pretese tributarie per il periodo d’imposta per il quale sic, è verificata; dall’altro lato, che la dichiarazione tributaria è un atto che contiene una rappresentazione unilaterale del contribuente (per di più, di meri elementi numerici), con la conseguenza che gli effetti che ne scaturiscono non parrebbero poter esser quelli di un accertamento vincolante, tanto meno per periodi d’imposta ulteriori.

Da ciò l’oppugnabilità di ricollegare alla definitività di una dichiarazione, in quanto non rettificata nei termini, anche l’effetto di rendere non più contestabili, mediante avvisi di accertamento per i periodi d’imposta successivi, i componenti pluriennali di reddito che sono stati in essa considerati per la prima volta.

7.2. Quanto al secondo argomento (che sembra avere un ruolo centrale nell’impianto motivazionale di Cass. n. 9993 del 2018) dell’interpretazione costituzionalmente conforme con riferimento alla sentenza additiva di principio della Corte costituzionale n. 280 del 2005, la controvertibilità dello stesso discende dalla considerazione che tale pronuncia ha avuto a oggetto la specifica disciplina della notificazione della cartella di pagamento recante il ruolo formato a seguito della liquidazione delle imposte dovute in base alle dichiarazioni effettuata ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, nella parte in cui, ratione temporis, non prevedeva alcun termine di decadenza (con la conseguenza che il contribuente restava esposto alla pretesa del fisco quanto meno fino alla prescrizione del credito tributario). La norma (di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25) fu dichiarata incostituzionale “non essendo consentito, dall’art. 24 Cost., lasciare il contribuente assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato e comunque, se corrispondente a quello ordinario di prescrizione, certamente eccessivo e irragionevole”, tenuto conto – quanto a quest’ultimo aspetto – che, per la ben più complessa attività di accertamento “sostanziale”, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, imponeva la notificazione del relativo avviso entro il termine di decadenza del 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione e che, con il D.L. 31 maggio 1994, n. 330, art. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 luglio 1994, n. 473, era stato previsto l’obbligo del contribuente di conservare la documentazione sulla base della quale ha redatto la dichiarazione solo entro il medesimo limite temporale.

Quindi, la sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 2005 non si è occupata della decadenza in genere ma solo di quella per la notificazione della menzionata cartella di pagamento (per la quale un termine di decadenza mancava del tutto) e ha fatto riferimento al termine di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, che viene qui in rilievo, solo per precisare al legislatore che il termine che era chiamato a stabilire al fine di colmare la lacuna creata dalla stessa sentenza, concernendo un procedimento assai semplice, non avrebbe potuto essere più lungo.

Pertanto, non sembrerebbe che da tale sentenza si possa ricavare l’incostituzionalità in sè nè, in generale, di un termine più esteso di quello del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, purchè, beninteso, non irragionevole, in quanto giustificato in relazione alla complessità dell’attività che l’amministrazione finanziaria è chiamata a svolgere (come per l’abrogato raddoppio dei termini, quando la violazione comportasse l’obbligo di denuncia per un reato tributario, oggetto della sentenza di rigetto della stessa Corte costituzionale n. 247 del 2011); nè, in particolare, dell’interpretazione secondo cui la decadenza dell’amministrazione finanziaria, che intenda contestare un componente reddituale pluriennale, matura con il decorso del termine per la rettifica della dichiarazione dove è indicato il singolo rateo in cui il componente reddituale è suddiviso.

7.3. Sembra infine opinabile anche l’altro argomento che emerge da Cass. n. 9993 del 2018 secondo cui, poichè il “diritto alla deduzione” nasce (“i presupposti del diritto alla deduzione”) nel periodo d’imposta in cui il componente di reddito a efficacia pluriennale è stato inserito per la prima volta in dichiarazione, nei periodi d’imposta successivi il contribuente si limiterebbe a esercitarlo in modo “frazionato” (“mentre il frazionamento interferisce solo sul relativo mero esercizio”); con la conseguenza che la spettanza di quel diritto potrebbe essere contestata solo nei termini per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui esso è sorto.

In realtà – come pure notato dalla già ricordata dottrina – poichè l’accertamento tributario non ha qui a oggetto singoli “diritti” del contribuente ma la determinazione dell’imposta da lui complessivamente dovuta per ogni periodo e poichè la decadenza costituisce un limite all’esercizio del potere di accertamento, sembra invece doverne logicamente conseguire che, ai fini della soluzione della questione in esame, non rileva quando è sorto il diritto del contribuente a dedurre per più anni un componente negativo ma quando è sorta ciascuna obbligazione tributaria determinata avvalendosi di tale diritto.

8. Insomma, gli argomenti utilizzati da Cass. n. 9993 del 2018, poi seguita da Cass. n. 2899 del 2019, non sembrerebbero, in effetti, idonei a superare il chiaro dato testuale del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 43, comma 1, – che, per di più, in quanto stabilisce un termine di decadenza, è norma di stretta interpretazione (Cass., 25/05/2012, n. 8350, 28/03/2017, n. 8775) – il quale, senza prevedere alcuna deroga per i componenti reddituali pluriennali, stabilisce che ii termine di decadenza dal potere impositivo decorre dalla presentazione di ciascuna dichiarazione.

9. Tale esegesi, sorretta dal chiaro dato testuale del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 43, comma 1, sembra poter trovare conforto anche in una considerazione di carattere sistematico.

Premesso che la determinazione della base imponibile delle società e degli enti commerciali soggetti all’IRES, ai fini della dichiarazione fiscale, è di regola ispirata al criterio della “dipendenza”, ovverosia della “derivazione” dal risultato del conto economico, redatto in conformità alle disposizioni del codice civile e ai principi contabili nazionali (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 83, comma 1; Cass., 03/04/2019, n. 9252, 18/04/2019, n. 10902), va rilevato che, secondo il principio contabile nazionale OIC 29, l’errore nella redazione del bilancio (definito come “una rappresentazione qualitativa e/o quantitativa non corretta di un dato di bilancio e/o di un’informazione fornita in nota integrativa”; punto 10) commesso in esercizi precedenti deve essere prontamente corretto non appena lo si individui e si disponga delle informazioni e dei dati per il suo corretto trattamento (in particolare, la correzione di un errore rilevante deve essere contabilizzata sul saldo d’apertura del patrimonio netto dell’esercizio in cui lo si individua mentre la correzione di un errore non rilevante deve essere contabilizzata nel conto economico dell’esercizio in cui lo si individua; punti 47 e 48).

Orbene, se l’errore commesso in esercizi precedenti fa dunque sorgere – anche in forza dei generali principi civilistici di veritiera e corretta rappresentazione della situazione patrimoniale ed economica della società (art. 2423 c.c., comma 2) – il dovere degli amministratori di correggerlo prontamente nel bilancio dell’esercizio successivo in cui è individuato, a tale dovere sembra dover logicamente corrispondere il potere dell’amministrazione finanziaria di contestare i bilanci successivi nei quali la correzione non sia stata rilevata, senza che a ciò possa opporsi un ipotizzato “consolidamento” del bilancio in cui il dato contabile è stato per la prima volta erroneamente iscritto.

10. Occorre però ancora porsi l’interrogativo se la lettura “restrittiva” del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, fatta propria da Cass. n. 9993 del 2018 e n. 2899 del 2019, possa trovare giustificazione, sul piano dell’interpretazione logica e costituzionale, nell’eventualità che la disciplina del dovere di conservazione della documentazione fiscale, ancorchè distinta, sul piano concettuale, da quella della decadenza, possa essere comunque tale – in relazione alla peculiarità dei componenti di reddito pluriennali di dipendere da fatti verificatisi in periodi d’imposta anche di molto anteriori a quello cui si riferisce la dichiarazione contestata dall’amministrazione finanziaria da comportare altrimenti un inaccettabile pregiudizio al diritto di difesa del contribuente.

Il tema – cui Cass. n. 9993 del 2018 pure accenna (là dove fa riferimento, al punto 2.5., all'”obbligo di conservare i documenti allegati alla dichiarazione” e, al punto 2.6., alla “predisposizione della documentazione giustificativa”) – richiama due disposizioni di legge.

Anzitutto, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, comma 2, primo periodo, a norma del quale il predetto obbligo di conservazione dura, anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 c.c. o da altre leggi tributarie, “fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta”. Cosicchè, se nel termine del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, non gli è stato notificato alcun avviso di rettifica di una determinata dichiarazione, il contribuente può legittimamente disfarsi della documentazione che ha utilizzato per redigerla.

In secondo luogo, la L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 5, il quale stabilisce, per l’obbligo di conservazione di atti e documenti agli effetti tributari, il termine massimo – in questo caso, del tutto svincolato dal termine di decadenza dal potere di accertamento – di dieci anni dall’emanazione o dalla formazione degli stessi atti o documenti.

Di qui il problema della garanzia dell’effettività del diritto di difesa del contribuente cui l’amministrazione finanziaria contesti la deducibilità di un rateo di un componente reddituale pluriennale dei cui fatti costitutivi lo stesso contribuente potrebbe non disporre più della relativa documentazione fiscale per essersene legittimamente liberato dopo il decorso dei menzionati cinque o dieci anni.

Peraltro, con riguardo alla previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, sembra doversi ritenere che il concorso alla determinazione della base imponibile, anno dopo anno, dei componenti di reddito pluriennali comporti, sul piano giuridico, l’autonoma riaffermazione, in ciascuna dichiarazione, dell’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto per computare gli stessi componenti, per la quota indicata, nella base imponibile di quel periodo; con la conseguenza che anche della documentazione relativa ai fatti costitutivi del componente di reddito pluriennale sembra essere in effetti rinnovata ogni anno l’utilizzazione per la determinazione della relativa base imponibile. Da ciò pare discendere ulteriormente che, con riguardo alla documentazione relativa ai componenti reddituali pluriennali, il riferimento del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22 “al corrispondente periodo d’imposta” va inteso nel senso che tale “corrispondenza” sussiste per ciascuno dei successivi periodi d’imposta nei quali il componente assume rilievo.

Pertanto, per ognuno di tali periodi deve ritenersi decorrere un nuovo termine dell’obbligo di conservazione della documentazione fiscale relativa ai fatti costitutivi del componente reddituale pluriennale e tale documentazione dovrà essere conservata fino allo spirare del termine di decadenza per la rettifica dell’ultima dichiarazione nella quale il componente che da detti fatti discende ha assunto rilievo.

La previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, comma 2, primo periodo, pur così intesa, dovrebbe peraltro essere pur sempre coordinata con quella della L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 5, che, come si è detto, stabilisce per l’obbligo di conservazione un limite decennale che, decorrendo dall’emanazione o dalla formazione dall’atto o del documento, è indipendente dal termine di decadenza dal potere di accertamento.

Come si è visto al punto 6, il problema del coordinamento tra tali due norme è stato affrontato da Cass. n. 9834 del 2016, che lo ha risolto nel senso che l’obbligo di conservazione opera fino alla definitività dell’accertamento anche oltre il termine decennale, semprechè l’avviso di accertamento sia stato emanato entro tale termine.

Tuttavia, anche adottando quest’interpretazione, la L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 5, non stabilendo alcuna particolare disciplina per la documentazione relativa ai componenti di reddito pluriennali, in alcuni casi concreti potrebbe comunque consentire ai contribuenti di disfarsi di tale documentazione quando alcuni dei periodi d’imposta in cui il componente è suddiviso sono ancora soggetti a rettifica (come avvenuto, ad esempio, nel caso delle quote di ammortamento ultradecennali esaminato da Cass. n. 9834 del 2016).

Anche in questi casi, peraltro, relativi a fatti più remoti, la soluzione del problema della garanzia dell’effettività del diritto di difesa del contribuente non sembra poter consistere nell’introduzione di preclusioni al potere di accertamento – le quali, come si è visto, non paiono previste dalla norma di legge del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, – quanto, piuttosto, sulla falsariga di Cass. n. 9834 del 2016 nonchè della dottrina cui si è fatto più volte riferimento, nel coordinare il limite decennale dell’obbligo di conservazione di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 5, con i principi generali in tema di onere della prova: cessato il dovere di conservazione di atti e documenti, la produzione di questi non potrebbe essere considerata l’unica prova ammissibile dei fatti costitutivi del componente di reddito a efficacia pluriennale ma il contribuente dovrà poter esercitare il suo diritto di difesa anche avvalendosi di mezzi di prova diversi (da quelli eventualmente legittimamente dismessi), che il giudice valuterà secondo il generale criterio del libero convincimento.

11. Il Collegio ritiene, in conclusione, che possano ricorrere i presupposti per una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte che chiarisca, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, quale questione di massima di particolare importanza, la questione se la decadenza dalla potestà impositiva dell’amministrazione finanziaria, che intenda contestare una svalutazione dei crediti risultanti in bilancio e, più in generale, un componente di reddito a efficacia pluriennale per ragioni che non dipendono dal mero errato computo del singolo rateo di esso, si determini con il decorso del termine per la rettifica della dichiarazione dove è indicato il singolo rateo in cui il componente reddituale pluriennale è suddiviso ovvero con il decorso del termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui il componente reddituale pluriennale è maturato ed è stato iscritto per la prima volta in bilancio.

P.Q.M.

trasmette il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della Corte.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2020

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