Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10691 del 24/05/2016


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 10691 Anno 2016
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: GRAZIOSI CHIARA

SENTENZA

sul ricorso 26482-2012 proposto da:
PAPPALETTERA NICOLA PPPNCL27A07F205Z, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA G. B. TIEPOLO

4,

presso lo

studio dell’avvocato GIOVANNI SMARGIASSI,
rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONINO
GIUFFRIDA giusta procura speciale in calce al
2016

ricorso;
– ricorrente-

310
contro

OVIDIO 3 D SRL IN LIQUIDAZIONE, in persona del suo
liquidatore pro tempore NICOLA SIGISMONDO, MONICA

1

Data pubblicazione: 24/05/2016

SIGISMONDO, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA S.
TOMMASO D’AQUINO 75, presso lo studio dell’avvocato
MARIO LACAGNINA, che li rappresenta e difende
unitamente all’avvocato JOELLE ROSANNA LIDIA
PICCININO giusta procura speciale a margine del

– controricorrenti avverso la sentenza n. 1901/2012 della CORTE

D’APPELLO di MILANO, depositata il 06/07/2012, R.G.N.
782/10;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 11/02/2016 dal

Consigliere Dott. CHIARA

GRAZIOSI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. IGNAZIO PATRONE che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso;

2

controricorso;

26482/202

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza del 30 maggio-6 luglio 2012 la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’appello
proposto da Pappalettera Nicola avverso sentenza n. 2192/2009 con cui il Tribunale di Milano
aveva respinto la sua domanda di convalida di sfratto per morosità intimato a Sigismondo
Monica e Ovidio 3 D Sri per un contratto di locazione immobiliare ad uso commerciale stipulato

2. Ha presentato ricorso Pappalettera Nicola sulla base di sette motivi.
Il primo motivo, ex articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c., denuncia violazione della normativa
riguardante gli effetti della cessione di azienda e della cessione con essa del contratto locatizio
per avere il giudice d’appello ritenuto che l’opposizione allo sfratto della cedente l’azienda, la
Sigismondo, estendesse i suoi effetti alla cessionaria Ovidio 3 D Sri, in quanto la Sigismondo
non era stata liberata dal locatore. Lo status di condutture era stato trasferito dal cedente, cioè
dalla Sigismondo, alla società cessionaria e il pagamento banco judicis della Sigismondo poteva
essere ricevuto come pagamento di terzo in acconto, con la richiesta di convalida per omessa
opposizione del conduttore. Dalla mancata comparizione del conduttore in udienza avrebbe
dovuto derivare la convalida dello sfratto ex articolo 663 c.p.c.
Inoltre, insegna la giurisprudenza di legittimità che, se il locatore non libera il cedente, fra
quest’ultimo e il cessionario, divenuto il successivo conduttore, instaura un vincolo di
responsabilità sussidiaria, per cui il locatore può agire nei confronti del cedente per soddisfare
le obbligazioni contrattuali.
Il secondo motivo, ex articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c. denuncia falsa applicazione del
combinato disposto degli articoli 658 c.p.c., 55 e 5 I. 392/1978 e 1456 c.c. in relazione
all’articolo 1453 c.c.in ordine alla operatività della clausola risolutiva espressa e presente nel
contratto.
Ritiene la corte territoriale che, una volta proposta domanda ex articolo 1453 c.c. con
l’intimazione dello sfratto di morosità, non è possibile mutarla in domanda di accertamento di
risoluzione di diritto ex articolo 1456 c.c., domanda diversa sia per petitum sia per causa
petendi. Ma la giurisprudenza di legittimità ritiene che nelle locazioni a uso non abitativo
l’offerta o il pagamento del canone – che, se effettuati dopo l’intimazione di sfratto, non
consentono l’ordinanza ex articolo 665 c.p.c. – nel giudizio susseguente non rendono
inoperativa la clausola risolutiva espressa, poiché ex articolo 1453, terzo comma, c.c. dalla
data della domanda avanzata con la intimazione di sfratto il conduttore non può più
adempiere. Non vi è quindi illegittimo mutamento della domanda di risoluzione ex articolo
1453 in domanda di accertamento ex articolo 1456 c.c.
3

il 1 gennaio 1996 relativo a un locale sito in Milano.

Il terzo motivo, ex articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c., denuncia falsa applicazione del
combinato disposto degli articoli 1456 e 1218 c.c.
Secondo il giudice d’appello impedisce comunque l’operatività della clausola risolutiva espressa
la mancata prova da parte del ricorrente “dell’imputabilità a titolo dl colpa alla Sig.ra/Ovidio”

(sic); ma ai sensi dell’articolo 1218 c.c. la prova liberatoria incombeva sulle parti intimate, il
cui contegno stragiudiziale e processuale già di per sé ne dimostrava il dolo. Il giudice
d’appello ha invece omesso motivazione sul fatto decisivo che sarebbe stato poi esposto nel

Il quarto motivo, infatti, denuncia, ex articolo 360, primo comma, n.5 c.p.c., insufficiente
motivazione sul fatto controverso e decisivo riguardante una raccomandata ricevuta dal
locatore priva dell’assegno di pagamento del canone. Il giudice d’appello ha ritenuto tale
raccomandata priva dell’assegno di versamento del canone al momento della ricezione,
reputando non escludibile che l’assegno fosse stato immesso quando la raccomandata fu
spedita. Questo, però, sarebbe stato comunque un invio tardivo, come eccepito nella missiva
di risposta dal difensore del ricorrente, per cui si doveva applicare l’articolo 1456 c.c.
Il quinto motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c., la falsa applicazione dei
principi riguardanti l’onere della prova. La prova richiesta al ricorrente per contrastare il
“verosimile disguido” del mancato invio dell’assegno vede su un fatto negativo, cioè che
l’assegno non sia mai stato immesso nella busta, conffiggendo in tal modo con il principio della
vicinanza della prova.
Il sesto motivo, ex articolo 360, primo comma, n.5 c.p.c., lamenta contraddittorietà della
motivazione su fatto controverso e decisivo. Mentre nel passo motivazionale relativo alla
raccomandata sopra richiamato il giudice d’appello constata la carenza di prova da parte del
ricorrente, poco dopo la corte territoriale riconosce che l’invio dell’assegno è stato
immediatamente contestato mediante lettera del difensore del locatore.
Il settimo motivo, ancora ex articolo 360, primo comma, n.5 c.p.c., denuncia omessa
motivazione su fatto controverso e decisivo quanto ai mancato pagamento delle spese
successive e degli interessi maturati dopo l’intimazione di sfratto.
Resistono con controricorso Sigismondo Monica e Ovidio 3 D Srl, chiedendo il rigetto del
ricorso.
Sia il ricorrente, sia i resistenti hanno depositato memoria ex articolo 378 c.p.c., ribadendo le

rispettive posizioni.

MOTIVI DELLA DECISIONE
4

quarto motivo.

3. Il ricorso è infondato.
3.1 Il primo motivo si fonda, in sostanza, sull’asserto che, quando fu intimato lo sfratto per
morosità, conduttore era soltanto Ovidio 3 D Sri, per cui Sigismondo Monica avrebbe assunto il
ruolo di terzo, tutt’al più con una responsabilità sussidiaria rispetto al pagamento dei canoni:
pertanto dalla mancata comparizione della società conduttrice in udienza avrebbe dovuto
derivare la convalida dello sfratto ex articolo 663 c.p.c.
La censura è palesemente infondata, dal momento che – a tacer d’altro – lo stesso ricorrente,

nella premessa in cui espone la sequenza processuale del primo e del secondo grado, riconosce
che con atto del 3 agosto 2007 egli aveva intimato “sfratto per morosità alla società Ovidio 3 D
Srl…ed alla Sig.ra Monica Sigismondo con riferimento al contratto di locazione ad uso diverso
dell’immobile” di cui si tratta in questa causa;

e successivamente riconosce altresì che

all’udienza comparve, opponendosi alla convalida, la Sigismondo.
Avendo il ricorrente intimato lo sfratto congiuntamente alla società e alla Sigismondo,
manifestando in tal modo di ritenere conduttrice ad ogni effetto anche quest’ultima, del tutto
corretta è stata la condotta del primo giudice, in quanto la Sigismondo, come persona nei cui
confronti lo sfratto era stato intimato, si era presentata e si era opposta. Ciò assorbe ogni
ulteriore profilo del motivo, conducendolo a una chiara infondatezza.
3.2.1 I successivi motivi da secondo a sesto riguardano tutti la pretesa applicabilità di una
clausola risolutiva espressa ex articolo 1456 c.c. e conseguentemente la mancata dichiarazione
di risoluzione di diritto del contratto di locazione.
Il ricorrente argomenta in modo assai ampio e sotto vari profili in ordine alla questione che,
peraltro, è ictu °culi risolta dalla mancata idonea confutazione, da parte del ricorrente, dalla
prima ratio decidendi di cui si è avvalsa la corte territoriale – investita con il secondo motivo
del ricorso -, autonoma rispetto a quella successivamente adottata dalla corte e alla quale
attengono il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo.
La corte, infatti, a fronte della doglianza dell’appellante sul mancato accoglimento della sua
domanda di pronuncia di “intervenuta risoluzione di diritto del contratto”, osserva che il
Pappalettera si era avvalso di una clausola risolutiva espressa, presente nel contratto di
locazione, per la prima volta nella memoria integrativa del 16 febbraio 2008, deducendone
dunque che “una volta proposta l’ordinaria domanda ai sensi dell’articolo 1453 c.c. con
l’intimazione di sfratto per morosità non è possibile mutarla in domanda di accertamento
dell’avvenuta risoluzione ope legis di cui all’articolo 1456 c.c., in quanto questa è diversa dalla
prima, sia per quanto concerne il petitum, sia per quanto concerne la causa petendi”; e al
riguardo richiama un chiaro arresto di legittimità in tal senso (Cass. sez.3, n. 14 novembre
2006 n. 24207: “In tema di risoluzione del contratto di locazione di immobili, perché la
risoluzione stessa possa essere dichiarata sulla base di una clausola risolutiva espressa, •
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[71

richiesta la specifica domanda, con la conseguenza che, una volta proposta l’ordinaria
domanda ai sensi dell’articolo 1453 c.c., con l’intimazione di sfratto per morosità, non è
possibile mutarla in domanda di accertamento dell’avvenuta risoluzione “ope legis” di cui
all’articolo 1456 c.c., in quanto quest’ultima è autologicamente diversa dalla prima, sia per
quanto concerne il “petitum”, – perché con la domanda di risoluzione ai sensi dell’articolo 1453
si chiede una sentenza costitutiva mentre quella di cui all’articolo 1456 postula una sentenza
dichiarativa – sia per quanto concerne la “causa petendi” perché nella ordinaria domanda di
risoluzione, ai sensi dell’articolo 1453, 11 fatto costitutivo è l’inadempimento grave e colpevole,
il quale si innesta,

peraltro, in un solido orientamento giurisprudenziale che non consente di neutralizzare la
diversità ontologica delle domande, con l’evidente ripercussione processuale (v. Cass. sez.3, 5
maggio 2005 n. 167, che, a proposito della diversa natura delle due domande in questione,
ribadisce che la domanda ex articolo 1453 c.c. mira ad una pronuncia costitutiva che scioglie il
vincolo contrattuale previo accertamento da parte del giudice della gravità dell’inadempimento,
laddove la domanda ex articolo 1456 c.c. è diretta a una pronuncia dichiarativa dell’intervenuta
risoluzione per inadempimento di una delle parti previsto come determinante per la sorte del
rapporto, in conseguenza della esplicita dichiarazione di controparte di volersi avvalere della
relativa clausola risolutiva espressa; su questa impostazione si era sviluppata, già in epoca
ormai risalente, la giurisprudenza nel senso della non introducibilità successiva nel thema
decidendum di una delle due suddette domande nel caso in cui l’atto introduttivo abbia
velcolato l’altra, perché si tratterebbe dell’aggiunta di una domanda nuova, inammissibile in
appello ma anche negata da tale giurisprudenza in primo grado nel caso in cui non vi fosse
stata al riguardo accettazione del contraddittorio: v. p. es. Cass. sez.3, 12 dicembre 2003 n.
19051; Cass. sez.2, 10 novembre 1998 n. 11282; Cass. sez.2, 6 settembre 1994 n. 7668).
Il ricorrente, nel secondo motivo del ricorso, denunciante la falsa applicazione del combinato
disposto degli articoli 658 c.p.c., 55 e 5 I. 392/1978, nonché dell’articolo 1455 c.c. in relazione
all’articolo 1453 c.c., sostiene che posteriore giurisprudenza di legittimità abbia superato una
simile impostazione, giungendo anzi “a risultati diametralmente opposti”: si tratterebbe di

nell’altra, viceversa, la violazione della clausola risolutiva espressa -);

Cass. sez.3, 31 maggio 2010 n. 13248, per cui, nel giudizio a cognizione piena che consegue
alla fase di convalida, nel caso di locazione di immobili ad uso non abitativo, non sussiste
inoperatività della clausola risolutiva ex articolo 1456 c.c., dal momento che, ai sensi
dell’articolo 1453, terzo comrna, c.c., dalla data della domanda presentata ex articolo 658
c.p.c. con intimazione di sfratto, il conduttore non può più adempiere.
3.2.2 L’arresto richiamato dal ricorrente è stato, invero, massirnato nel senso che, nel
contratto di locazione di immobile ad uso non abitativo, cui non è applicabile l’articolo 55 1.27

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luglio 1978, n. 392, “l’offerta o il pagamento del canone (che, se effettuati dopo l’intimazione
di sfratto, non consentono l’emissione, ai sensi dell’art. 665 c.p.c., del provvedimento

interinale di rilascio con riserva delle eccezioni, per l’insussistenza della persistente morosità di
6

cui all’art. 663, terzo comma, c.p.c.), nel giudizio susseguente a cognizione piena, non
comportano l’inoperatività della clausola risolutiva espressa, in quanto, ai sensi dell’art. 1453,
terzo comma, c.c., dalla data della domanda – che é quella già avanzata ex art. 657 c.p.c. con
l’intimazione di sfratto, introduttiva della causa di risoluzione del contratto – il conduttore non
può più adempiere.
In realtà, per quel che si può evincere dalla motivazione della pronuncia, la fattispecie ivi
esaminata era diversa da quella che è ora in considerazione: mentre, appunto, nel presente

pur se presentata per la prima volta dopo la fase speciale di intimazione di sfratto e convalida ovvero nella memoria di cui al combinato disposto degli articoli 667 e 426 c.p.c. -, la vicenda
processuale che era stata vagliata dall’arresto invocato dal ricorrente vedeva una ben
precedente proposizione della domanda ex articolo 1456 c.c.: infatti, il giudice di secondo
grado aveva riformato la sentenza del primo ritenendo che “la clausola risolutiva espressa, di
cui al contratto sottoscritto dalle parti, non poteva spiegare alcun effetto nella fase del
procedimento sommario e speciale di sfratto, pur quando il locatore abbia dichiarato di
volersene avvalere”, come espone la sentenza

de qua.

La quale, poi, incentra le sue

argomentazioni sulla inapplicabilità ai contratti locatizi ad uso non abitativo dei c.d. termine di
grazia di cui all’articolo 55 I. 392/1978, giacché, sempre nella sentenza di secondo grado e
dunque riformando la sentenza del primo, si era ritenuto che l’offerta di pagamento dei canoni
banco judicis impedisse la convalida dello sfratto anche in un tale contratto. Dichiarando però
erronea questa interpretazione del giudice d’appello, il giudice di legittimità ne ha
semplicemente dedotto (ancora contrariamente rispetto a quanto affermato dalla corte
territoriale) che il versamento del dovuto banco judicis non poteva far venir meno gli effetti
della clausola risolutiva espressa.
Analogamente, la successiva Cass. sez. 3, 29 settembre 2014 n. 20483, conforme quanto a
massima all’appena esaminata Cass. sez. 3, 31 maggio 2010 n. 13248, tratta un caso in cui
già nella intimazione di sfratto era manifestata la volontà attorea nel senso di dichiarazione di
utilizzazione della clausola risolutiva espressa.
3.2.3 Per completezza, è il caso tuttavia di rilevare che, in motivazione, la pronuncia del 2014
non solo richiama giurisprudenza attinente alla – indiscutibile e qui indiscussa

proponibilità di

domande riconvenzionali nella memoria integrativa posteriore all’ordinanza ex articolo 667
c.p.c., ma opera anche un rapido riferimento a Cass. sez. 3, 30 giugno 2013 n. 13963 come
insegnamento nel senso della legittimità non solo di emendare, ma anche di modificare le
originarie domande sempre nella memoria ex articolo 426 c.p.c.
Peraltro, già dalla massima di quest’ultimo arresto si comprende che un simile asserto – che
parrebbe inficiare ogni conformazione preclusiva anteriore alla scadenza del termine per il
deposito della memoria ex articolo 426 – non corrisponde all’interpretazione applicativa che ne
7

caso il ricorrente mira alla dichiarazione di ammissibilità della domanda ex articolo 1456 c.c.

offre la stessa pronuncia, la quale lo riconduce dall’area della

mutati° a quella della

riconvenzionalità in senso proprio: conformemente, del resto, al fatto che una contrapposizione
tra emendati° e modifica non sussiste realmente, non costituendo la modifica una mutatio
libelli, bensì essendo ancora riconducibile alla emendatio (per tutti v. la recente Cass. sez. L,
28 settembre 2015 n. 19142), come ben può desumersi dalla differenza tra modifica e novità
che il legislatore configura nell’articolo 183 c.p.c., soprattutto nel sesto comma.
Tale dunque è il principio massirnato per Cass. sez. 3, 30 giugno 2013 n. 13963:”Ne/

procedimento per convalida di (licenza o) sfratto, l’opposizione dell’intimato dà luogo alla
trasformazione in un processo di cognizione, destinato a svolgersi nelle forme di cui all’art.
447-bis c.p.c., con la conseguenza che, non essendo previsti specifici contenuti degli atti
introduttivi del giudizio, il “thema decidendum” risulta cristallizzato solo in virtù della
combinazione degli atti della fase sommaria e delle memorie integrative di cui all’art. 426
c.p.c., potendo, pertanto, l’originario intimante, in occasione di tale incombente, non solo
emendare le sue domande, ma anche modificarle, soprattutto se in evidente dipendenza dalle
difese svolte dalla controparte.” Questa massima è la sintesi di una frase che si rinviene nella
motivazione e che – dopo avere dato atto che l’opposizione alla convalida conduce a una fase
di cognizione piena governata dal rito di cui all’articolo 447 bis c.p.c. – così recita:

“non

essendo previsti – tanto meno a pena di inammissibilità – gli specifici contenuti degli atti
introduttivi della fase di merito anche per quelli della fase sommaria, il thema decidendum
risulta cristallizzato soltanto con la combinazione degli atti introduttivi della fase sommaria e
delle memorie, appunto, integrative di cui all’art. 426 cod. proc. civ., mentre l’attore originario
è, in queste ultime, in grado di emendare le sue domande (Cass. 19 giugno 2008, n. 16635) o
anche di modificarle, soprattutto se in evidente dipendenza dalle difese di controparte. ” In
effetti, se la frase si intende letteralmente attraverso la sua contrapposizione tra emendare e
modificare, essa parrebbe tendere a qualificare privo di incidenza, ai fini della successiva fase
di cognizione piena, il contenuto dell’atto introduttivo della fase sommaria. Il che naturalmente
non può essere, poiché è indubbio che le intimazioni ex articoli 657-658 c.p.c. includono anche
la proposizione di una domanda, tant’è vero che l’articolo 426 fa riferimento a una memoria di
“eventuale integrazione degli atti introduttivi”, laddove, se gli atti introduttivi non avessero
incluso una domanda, non di una integrazione si tratterebbe, e tantomeno eventuale, bensì di
una conformazione di atti introduttivi nuovi. Il concetto cui mira, dunque, la frase sopra
riportata non può essere inteso nel senso che nulla della fase sommaria sopravvive vincolando
il giudizio a cognizione piena, bensì come ricognizione dello spazio integrativo che il legislatore
lascia alle parti per raggiungere la cristallizzazione della regiudicanda solo dopo la
consumazione del relativo termine. Il contenuto basilare del processo è già stato formato con
l’atto di intimazione: di fronte alla opposizione dell’intimato, si apre il meccanismo
riconvenzionale, anche nella forma lata dell’emendamento della domanda o delle domande
iniziali. Dopo avere riconosciuto ciò, il passo in questione effettua un apparente salto logico

8

..

__Ly

passando dalla facoltà di emendare a quella di modificare, se si intende quest’ultima come
mutatio libelli. Ma in realtà, nonostante l’improprio “soprattutto” introdotto nella frase (per cui
nelle memorie si può emendare e anche modificare le domande “soprattutto se in evidente
dipendenza dalle difese di controparte”), quel che si riconosce all’intimante è proprio la difesa
dalla difesa di controparte, cioè l’esercizio del contraddittorio non mutando la domanda
originaria ma “adeguandola” ed eventualmente aggiungendo ulteriori pretese che peraltro non
siano sostitutive di quelle addotte nell’atto introduttivo, bensì siano riconducibili nell’ambito

caso di specie, è stata ritenuta ammissibile l’iniziativa dell’intimante il quale, richiesta, in
origine, la convalida di sfratto e l’ingiunzione di pagamento dei canoni scaduti, di fronte
all’eccezione di pagamento formulata dall’intimato, ha addotto l’imputazione di quanto ricevuto
ad una diversa “causa solvendi”, costituita da un ulteriore contratto di locazione, avente ad
oggetto un locale contiguo a quello per il quale era stato intimato lo sfratto per morosità,
operando così un ampliamento del “thema decidendum”, che ha incluso una domanda di
pagamento fondata su di una “causa petendi” concorrente e legata a quella originaria da
ragioni di connessione soggettiva e, parzialmente, oggettiva”.
3.2.4 Non è quindi, a ben guardare, sostenibile che l’orientamento della giurisprudenza di
legittimità più recente abbia infranto l’impostazione tradizionale che considera inammissibile
come domanda nuova la domanda ex articolo 1456 c.c. proposta per la prima volta in una
memoria ex articolo 426 c.p.c. essendo stato intimato lo sfratto sulla base di una domanda ex
articolo 1453 c.c. E ciò è per di più confermato da una recente pronuncia (Cass. sez. 3, 9
giugno 2015

n.

11864, che ai suddetto orientamento si connette espressamente in

motivazione) per cui, appunto, una volta proposta con l’intimazione di sfratto per morosità
l’ordinaria domanda ex articolo 1453 c.c., “non è possibile mutarla in richiesta di accertamento
dell’avvenuta risoluzione “ape legis” di cui all’art. 1456 c.c.., atteso che quest’ultima è
radicalmente diversa dalla prima, sia quanto al “petitum”, perché invocando la risoluzione ai
sensi dell’articolo 1453 c.c. si chiede una sentenza costitutiva mentre la domanda di cui
all’articolo 1456 c.c. ne postula una dichiarativa, sia relativamente alla “causa petendi”, perché
nella ordinaria domanda di risoluzione, ai sensi dell’articolo 1453 c. c. il fatto costitutivo è
l’inadempimento grave e colpevole, nell’altra, viceversa, la violazione della clausola risolutiva
espressa”. D’altronde, si osserva ormai meramente ad abundantiam, un’interpretazione delle
norme processuali che ne preservi la struttura preclusiva, senza coltivare una lettura che la
attenui, indebolendo ed slabbrando i confini che il legislatore ha posto tra i segmenti della
sequenza procedurale, è richiesta dalla tutela, costituzionalmente significativa e necessaria,
dell’effettività della giustizia in termini di ragionevole durata (cfr. p.es . S.U.16 maggio 2013 n.
11830), e ciò tanto più in un contesto in cui la controbilanciante garanzia di adeguamento alle
situazioni specifiche è fornita dall’ordinamento con quello che è ora un istituto generale, cioè la
remissione in termini.

9

della riconvenzionalità. E infatti la massima attentamente si completa evidenziando che “nel

3.2.5 Il secondo motivo, pertanto, non può essere accolto. Come già più sopra accennato, il

giudice d’appello – con una motivazione evidentemente posta su un doppio binario – offre poi
una ulteriore ratio decidendi in ordine all’inapplicabilità comunque nel caso in esame della
clausola risolutiva espressa prevista nel contratto per insussistenza del presupposto di fatto
(motivazione, pagina 8s.). A ciò sono dedicati i motivi terzo, quarto, quinto e sesto, che – vista
l’autonomia della rado decidendi esaminata come oggetto del secondo motivo di ricorso,
risultato infondato – non occorre pertanto vagliare.

controverso e decisivo, adducendo che sarebbe incomprensibile la motivazione sull’ultimo
motivo d’appello attinente alla mancata sanatoria della morosità per non essere stati
corrisposti gli interessi e le spese legali. Il motivo è palesemente infondato, dal momento che
non solo, appunto, come riconosce il ricorrente, il giudice d’appello ha richiamato “le
considerazioni sopra svolte in ordine alla ritenuta insussistenza dell’inadempimento”, ma altresì
ha motivato specificamente sugli inadempimenti parziali che non ha ritenuto essere stati più
devoluti, facendo chiaramente intendere che devoluto, in quanto unico inadempimento dedotto
in appello, era l’importo dell’assegno che, secondo la prospettazione dei conduttori, sarebbe
stato inviato con raccomandata prima del giudizio all’attuale ricorrente. L’omissione
motivazionale, dunque, non sussiste.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla
rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali,
liquidate in un totale di C 4200, di cui C 200 per spese vive, oltre gli accessori di legge.

Così deciso in Roma 1’11 febbraio 2016

Il Consiglie e Estenso e

3.6 Infine, nel settimo motivo del ricorso il ricorrente lamenta omessa motivazione su un fatto

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