Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10690 del 15/05/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 10690 Anno 2014
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: CARRA TO ALDO
Data pubblicazione: 15/05/2014

SENTENZA
sul ricorso 7571-2013 proposto da:

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MASSO LI TERESA ~SSTRS39E43E979~ elettivamente domiciliata

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in ROMA, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e

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difesa dall’avv. LO VELLI GIOVANNI, giusta delega a margine del
ne orso;

– ricorrente contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587 in persona del
Ministro pro temporc, elettivamente domiciliato in RO.MA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

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controricorrente –

avverso il decreto nel procedimento R.G. 82/2012 della CORTE
D 1APPEU. O di FIRENZE de122.6.2012, depositato il 05/09/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
21/02/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ALDO CARRATO.
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Ric. 2013 n. 07571 sez. M2 – ud. 21-02-2014
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Ritenuto in fatto

l sigg. Massoli Teresa e Galletti Marsilio chiedevano alla Corte d’appello di Firenze,
con ricorso ritualmente e tempestivamente depositato, il riconoscimento dell’equa
riparazione, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, per la irragionevole durata di
una procedura fallimentare (ancora pendente all’atto della proposizione del suddetto

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ricorso) instaurata dinanzi al Tribunale di Perugia in conseguenza della dichiarazione

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di fallimento con sentenza del 20 gennaio 1998 nei confronti della Edilizia Umbra

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s.a.s. e della stessa Massoli Teresa quale socio illimitatamente responsabile

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(fallimento, poi, esteso, con sentenza del 14 luglio 1998 nei riguardi del socio di fatto

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identificantesi con il Galletti Marsilio), invocando, la condanna del Ministero della

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Giustizia al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti per la irragionevole durata

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complessiva della indicata procedura.

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Nella costituzione del resistente Ministero della Giustizia, l’adita Corte di appello, con

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decreto depositato il 5 settembre 2012, rigettava la domanda e condannava i
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ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese giudiziali in favore del suddetto
Ministero. A sostegno dell’adottata decisione la Corte fiorentina rilevava che, nel

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caso di specie, non erano emersi comportamenti degli organi della procedura
esecutiva soggettivamente censurabili, né si erano potute evincere disfunzioni
endofallimentari come fonte di responsabilità da ritardo.
Avverso il suddetto decreto (non notificato) ha proposto ricorso per cassazione la
sig.ra Massoli Teresa, con atto notificato il 20 marzo 2013, sulla base di due motivi.
L’intimato Ministero si è costituito con controricorso.
Considerato in diritto

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1. – In via preliminare, il Collegio rileva che non è di ostacolo alla trattazione del
ricorso la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della
Procura generale presso questa Corte.
lnvero, l’art. 70, secondo comma, c.p.c., quale risultante dalle modifiche introdotte
dall’art. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico ministero «deve intervenire

nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge>). A sua volta
l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall’art. 81 del citato decretolegge n 69, al primo comma dispone che «Il pubblico ministero presso la Corte di

cassazione interviene e conclude: a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze
dinanzi alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici
della Corte di cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla
sezione di cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura
civile». L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita
sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di

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consiglio».

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Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante dalla legge
di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo comma, la sostituzione
dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e la modificazione degli artt. 380-bis,
secondo comma, e 390, primo comma, del medesimo codice, per adeguare la
disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della partecipazione del pubblico
ministero alle udienze che si tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo
comma, al secondo comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente

articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali ìl decreto di

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fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire
dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto», e cioè a far data dal22 agosto 2013.
Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto nell’art. 75, comma 2,
citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art.
376, primo comma, c.p.c.), consenta di ritenere, non solo, che la detta sezione è
abilitata a tenere pubbliche udienze e non solo adunanze camerali, ma anche che
alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la
partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facoltà
dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70, terzo comma,
c.p.c., e cioè ave ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato adottato in
data 2 dicembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza pubblica è stata
ritualmente celebrata senza la partecipazione del rappresentante della Procura
generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia
integrale del ruolo di udienza era stata trasmessa, ravvisato un interesse pubblico
che giustificasse la propria partecipazione ai sensi del citato art. 70, terzo comma,
c.p.c. (sul punto v., di recente, Cass., VI sez .. n. 1089 del2014).
2.- Ciò posto, con il primo motivo, la ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360,
comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c. – la violazione degli artt. 2, commi 1-2- 3, e 3 della legge n.
89 del 2001, nonchè dell’art. 6 pag. 1 della C.E.D.U. e dell’art. 112 c.p.c.,
congiuntamente al vizio di omessa, insufficiente o contraddìttorfa motivazione sul
fatto decisivo della controversia riguardante l’assolvimento dell’onere probatorio in
ordine alla durata irragionevole della procedura fallimentare presupposta e alla
individuazione delle relative cause determinatrici.
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3.- Con il secondo motivo la ricorrente ha denunciato l’ulteriore violazione degli artt.
2, commi 1-2- 3, e 3 della legge n. 89 del 2001, nonché dell’art. 6 pag. 1 della

C.E.D.U. e dell’art. 112 c.p.c., congiuntamente al vizio di omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione sul fatto decisivo della controversia attinente alla
mancata giustificazione sul piano logico della durata non eccessiva della medesima
procedura fallimentare.
4.- Rileva il collegio che le due censure- esaminabili congiuntamente siccome tra
loro connesse – sono fondate per le ragioni e nei termini che seguono.
Pacifica l’applicabilità della disciplina di cui alla legge n. 89 del 2001 anche con
riferimento alle procedure fallimentari (cfr., da ultimo, Cass. n. 13605 del 2013, con la
quale è stato riconosciuto il diritto all’ottenimento dell’indennizzo anche da parte del
fallito), osserva il collegio che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte
(cfr., ad es., Cass. n. 2207 del 2010 e Cass. n. 16367 del 2011, ord.}, nel giudizio
per l’equa riparazione per la violazione del termine di durata ragionevole del
processo, a norma dell’art 2, comma 2, della legge n. 89 del 2001 (nella
versione

“ratione temporis”

applicabile),

la

parte assolve all’onere di
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allegazione dei fatti costitutivi della domanda esponendo gli elementi utili a
determinare la durata complessiva del giudizio presupposto, salvi i poteri della
Corte

d’appello

adita

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accertare,

d’ufficio

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sollecitazione

dell’Amministrazione convenuta, le cause che abbiano giustificato in tutto o in
parte la durata del procedimento. Peraltro, è stato anche chiarito che, ave la parte
(come verificatosi nella fattispecie) si sia avvalsa della facoltà – prevista dall’art 3,
comma 5, della citata legge 24 marzo 2001, n. 89 – di richiedere alla corte d’appello
di disporre l’acquisizione degli atti del processo presupposto, il giudice non può
addebitare alla mancata produzione documentale, da parte dell’istante, di quegli atti

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la causa del mancato accertamento della addotta violazione della ragionevole durata
del processo; invero, la parte – come già evidenziato – ha un onere di allegazione e
di dimostrazione, che però riguarda la sua posizione nel processo, la data iniziale di
questo, la data della sua definizione e gli eventuali gradi in cui si è articolato, mentre
(in coerenza con il modello procedimentale, di cui agli artt. 737 e s. c.p.c., prescelto
dal legislatore) spetta al giudice- sulla base dei dati suddetti, di quelli eventualmente
addotti dalla parte resistente e di quelli acquisiti dagli atti del processo presupposto verificare, in concreto e con riguardo alla singola fattispecie, se vi sia stata violazione
del termine ragionevole di durata, tenuto anche conto che nel modello processuale
della legge n. 89 del 2001 sussiste un potere d’iniziativa del giudice, che gli
impedisce di rigettare la domanda per eventuali carenze probatorie superabili con
l’esercizio di tale potere.
Non essendosi la Corte fiorentina conformata ai richiamati principi, la prima censura
dedotta non può che essere accolta.
Anche la seconda collegata censura è da ritenersi fondata, perché la Corte di
appello, oltre a non aver tenuto conto dei principi che attengono al riparto dell’onere
di allegazione e dell’onere della prova nel suddetto tipo di giudizio, non ha
considerato che, alla stregua dell’univoca giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es.,
Cass. n. 8468 del 2012 e Cass. n. 9254 del 2012), in tema di equa riparazione per la
violazione del termine di durata ragionevole del processo, a norma dell’art. 2, comma
2, della legge n. 89 del 2001, la durata delle procedure fallimentari, secondo lo
standard ricavabile dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, è
di cinque anni nel caso di media complessità e, in ogni caso, per quelle
notevolmente complesse – a causa del numero dei creditori, la particolare
natura o situazione giuridica dei beni da liquidare, la proliferazione di giudizi

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connessi o la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti – non può
superare la durata complessiva di

sette anni (mentre, nella fattispecie, essa si era

sviluppata complessivamente per circa 14 anni, salvo a verificare l’imputabilità delle
singole cause che avevano determinato tale eccessiva lunghezza della procedura al
fine di individuare, poi, quella effettivamente da qualificarsi irragionevole e
riconducibile ad inerzie o negligenze dell’Amministrazione giudiziaria, attività questa
comunque non compiuta dalla Corte territoriale). Oltretutto la Corte di merito non ha
valorizzato l’ulteriore principio pacificamente acquisito nella giurisprudenza di
legittimità in base al quale, quando si verte in tema di equa riparazione ai sensi
dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno non patrimoniale è conseguenza
normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla
ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: sicché, pur dovendo
escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale “in re ipsa” – ossia di un
danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione
-, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla

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durata ragionevole del processo secondo le norme della citata legge n. 89 del 2001,
deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel
caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale
danno sia stato subito dal ricorrente.
5. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere
integralmente accolto con la conseguente cassazione del decreto impugnato ed il
rinvio della causa (essendo necessario procedere all’accertamento dell’effettiva
durata irragionevole della procedura fallimentare alla stregua di una globale
rivalutazione dei fatti) alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, che si

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atterrà agli enunciati principi di diritto e provvederà a regolare anche te spese del
presente giudizio di legittimità
PER QUESTI MOTIVI

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La Corte accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese
del presente giudizio, alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione.

Cosi deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte
suprema di Cassazione, in data 21 febbraio 2014.

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