Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10675 del 23/05/2016


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 10675 Anno 2016
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: GARRI FABRIZIA

e:

o-tf 0,12,

ORDINANZA
sul ricorso 29160-2014 proposto da:
I_,F,(;NAME GIUSE1-1) R, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
COSTANTINO 53/A, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE
VIRBAN1, rappresentato e difeso dall’avvocato EMANUELE
MAG ANUCO, giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente contro
AZIENDA ASP/2 1)1 CALTANISSETTA, in persona del Direttore
Generale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO
78, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO IELO, rappresentata e
difesa dall’avvocato FERDINANDO MA UREI,1 A, giusta procura
speciale in calce al controricorso;
controricorrente –

9.855

Data pubblicazione: 23/05/2016

avverso la sentenza n. 379/2014 della CORTE D’APPELLO di
CALTANISSETTA. del 09/07/2014, depositata il 26/07/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
19/04/2016 dal Consigliere Relatore Dott. FABRIZIA GARRI;
udito l’Avvocato ANTONIO IELO, giusta delega allegata al verbale

riporta ai motivi.
FATTO E DIRITTO
Giuseppe Legname, infermiere in servizio presso l’Ospedale Vittorio
Emanuele di Gela, conveniva in giudizio la Azienda ASP di
Caltanissetta chiedendone la condanna, per quanto qui interessa, al
pagamento della somma di 6.895,00 a titolo di retribuzione
aggiuntiva spettante in relazione al tempo impiegato – venti minuti
giornalieri – per indossare e dismettere la divisa di lavoro all’inizio ed al
termine di ciascun turno per gli anni dal 2006 al 2011 .
Il Tribunale di Gela rigettava per questa parte la domanda e la Corte di
appello di Caltanissetta confermava la decisione di primo grado.
La Corte territoriale constatava che il giudice di primo grado aveva
respinto la domanda dopo aver accertato che l’attività di vestizione e
svestizione era compiuta all’interno dell’orario di lavoro. Era risultato
infatti che il dipendente registrava la presenza prima di indossare la
divisa e timbrava l’uscita solo dopo essersi cambiato.
Inoltre verificava che non era stata offerta la prova che l’azienda avesse
imposto ai lavoratori di anticipare l’ingresso e posticipare l’uscita per
indossare e dismettere la divisa da lavoro. Accertava inoltre che gli
apparecchi per registrare le presenze erano posti all’ingresso del
presidio ospedaliero e che gli spogliatoi erano collocati all’interno
dell’area aziendale presso le varie unità operative.

Roc. 2014 n. 29160 sez. ML – ud. 19-04-2016
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dell’Avvocato MAURELLI, difensore del contro ricorrente, che si

Riteneva poi irrilevante la circostanza che talvolta l’ingresso o l’uscita
non coincidevano esattamente con il turno e sottolineava che, in ogni
caso, tale orario in esubero era regolarmente retribuito ove certificato
dal capo reparto, dal primario o da altro dirigente.
Per la cassazione della sentenza ricorre Giuseppe

I ,egname

che

Resiste con controricorso la Azienda Sanitaria Provinciale di
Caltanissetta.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ed hanno
insistito nelle conclusioni prese.
Con il primo, il secondo ed il terzo motivo di ricorso è denunciata la
violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 comma l c.c. e degli ara.
112 e 115 c.p.c, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c..
Lamenta il ricorrente che la Corte di appello avrebbe erroneamente
ritenuto che non fosse stata offerta la prova dell’esistenza di un
obbligo per il dipendente di indossare e disnnettere la divisa al di fuori
dell’orario di lavoro effettivamente retribuito, anticipando l’ingresso e
posticipando l’uscita.
Sostiene in particolare che, diversamente da guanto affermato dal
giudice di appello, dalle disposizioni di servizio versate in atti, dal
protocollo di lavanderia e dal capitolato allegato, tutti ugualmente
depositati, si evince che gli infermieri sono tenuti ad indossare le divise
all’interno degli spogliatoi adiacenti ai reparti ed a dismetterle
riponendole nei sacchi di lavanderie a fine turno, esclusa la possibilità
di portarle con sé e lavarle autonomamente.
Sotto altro aspetto poi sarebbe errata la sentenza nella parte in cui
afferma che il lavoratore non avrebbe contestato di essere stato
regolarmente retribuito anche per il tempo dedicato alla
vestizione/svestizione. Al contrario, sostiene parte ricorrente, era stato
Ric. 2014 n. 29160 sez. MI uci. 19-04-2016
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articola cinque motivi.

puntualmente evidenziato, nelle note conclusive di primo grado e poi
nel ricorso in appello, che dalla documentazione versata in atti si
evinceva che l’uscita era timbrata mediamente quindici minuti dopo la
fine del turno e l’entrata cinque/dieci minuti in anticipo e che i minuti
in eccesso non erano mai stati conteggiati nel saldo orario mensile a

relative al lavoro straordinario debitamente autorizzato e,
conseguentemente, retribuito.
Erroneamente, poi, la Corte di merito avrebbe ritenuto provato il
pagamento del corrispettivo per il tempo impiegato ad indossare e
dismettere la divisa sebbene la A.S.P. di Caltanissetta, non avesse
adempiuto all’onere che su di lei incombeva.
Con il quarto motivo di ricorso è. denunciato l’omesso esame di un
fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti e la carente
motivazione della sentenza , in violazione dell’art. 360 comma 1 n. 5
C’P.C..
Sostiene parte ricorrente che la Corte di appello non avrebbe tenuto
conto del fatto che il tempo dedicato ad indossare gli abiti da lavoro,
secondo le modalità richieste dall’azienda, e confermate dai testi
escussi, esorbitava l’orario del turno. Inoltre dal confronto dei cartellini
marcatempo depositati con i saldi orari mensili maturati a favore del
lavoratore emergeva che tali differenze non erano state mai
corrisposte.
Con l’ultimo motivo di ricorso, infine, ci si duole della compensazione
delle spese di lite chiedendo che in sede di riforma le stesse vengano
poste a carico dell’azienda.
I primi quattro motivi di ricorso, che per la loro connessione possono
essere esaminati congiuntamente, sono in parte inammissibili ed in
parte manifestamente infondati.
R.ic. 2014 n. 29160
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sez.

ML – ud. 19-04-2016

favore del ricorrente. Le somme effettivamente corrisposte erano

Occorre in primo luogo rammentare che, è configurabile la violazione
dell’ art. 2697 cod. civ. soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia
attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne
risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma (cfr. tra le
tante Cass. 17.6.2013 n. 15107 e recentemente anche Cass. 16.9. 2015

regolata, invece, dagli arti. 115 e 116 cod. proc. civ.) essa deve essere
fatta valere ai sensi del numero 5 del medesimo art. 360.
Per tale aspetto, allora, sono inammissibili le censure formulate nel
primo e nel secondo motivo di ricorso con riguardo alla violazione
dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. posto che
esse investono direttamente la valutazione della prova e non la corretta
distribuzione dei relativi oneri.
Quanto alla violazione dell’art. 112 c.p.c., contenuta anch’essa nei
primi tre motivi di ricorso, anche tale censura è inammissibile posto
che al di là di una formale denuncia contenuta nella rubrica dei motivi,
nel corpo degli stessi non è riportata alcuna specifica doglianza
riconducibile ad un vizio di ultra petizione e, tanto meno, ad una
omessa pronuncia su domande o eccezioni ritualmente formulate.
Quanto alla denunciata errata valutazione da parte della Corte
territoriale delle emergenze istruttorie acquisite al processo (primo,
secondo e terzo motivo), l’illegittima inversione dell’onere probatorio
con riguardo all’avvenuto pagamento dei compensi spettanti in
relazione alla vestizione e svestizione dalla divisa (terzo morivo) e
l’omessa valutazione di fatti ritenuti decisivi per la decisione della
controversia(esistenza di disposizioni di servizio che imponevano di
indossare e dismettere la divisa in locali aziendali e dunque dopo aver
timbrato l’ingresso e prima dell’uscita prolungando, rispetto al turno, la
permanenza in azienda) oggetto di discussione tra le parti (quarto
Ric. 2014 n. 29160 sez. ML ud. 19-04-2016
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n. 18165). Ove la censura investa la valutazione della prova (attività

motivo) va rilevato che la questione agitata nel ricorso è quella del
diritto alla retribuzione del tempo impiegato per indossare e dismettere
la divisa da lavoro.
Come è stato di recente ricordato da questa Corte nella sentenza n.
692 del 15.1.2014, “La giurisprudenza di questa Corte ha più volte

692, art. 3 Рsecondo cui ӏ considerato lavoro effettivo ogni lavoro
che richieda un’occupazione assidua e continuativa” – il principio
secondo cui tale disposizione non preclude che il tempo impiegato per
indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere
pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro,
il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti

di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo
svolgimento dell’attività lavorativa: così, Cass. 14 aprile 1998 n. 3763,
Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734, Cass. 8 settembre 2006 n. 19273, Cass.
10 settembre 2010 n. 19358, Cass. 7 giugno 2012 n. 9215.

P,

stato

anche precisato (v. Cass. 25 giugno 2009 nn. 14919 e 15492) che i
principi così enunciati non possono ritenersi superati dalla disciplina
introdotta dal D.Igs. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive
93/104/CF, e 2000/34/CI -.), il quale all’art. 1, comma 2, definisce

orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a

disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o
delle sue funzioni”; e nel sottolineare la necessità dell’attualità
dell’esercizio dell’attività o della funzione lascia in buona sostanza
invariati – come osservato in dottrina – i criteri ermeneutici in
precedenza adottati per l’integrazione di quei principi al fine di stabilire
se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo, come tale
retribuibile, stante il carattere generico della definizione testé riportata.
Criteri che riecheggiano, invero, nella stessa giurisprudenza
Ric. 2014 n. 29160 sez. MI – ud. 19-04-2016
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affermato, in relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n.

comunitaria quando in essa si afferma che, per valutare se un certo
periodo di servizio rientri o meno nella nozione. di orario di lavoro,
occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere
fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di
quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte

Tale orientamento (come osserva la citata Cass. n. 19358/2010)
consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che
soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase
preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali,
da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 cod, civ.,
comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad
esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella
preparatoria.”
In definitiva il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio
costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da una etero
direzione. In difetto di direttive specifiche in tal senso l’attività di
vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione
principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo.
(cfr. Cass. 7.6.2012 n. 9215).
Orbene la Corte territoriale ha esplicitamente tenuto conto del
contenuto dei cartellini marcatempo e delle prove testimoniali dandone
una ricostruzione sul piano probatorio diversa rispetto a quella
auspicata dal ricorrente.
Venendo all’esame del caso di specie va rilevato che la decisione della
Corte territoriale si è attenuta ai principi sopra esposti.
E’ stato verificato che:
1.- il dipendente, infermiere professionale, prima di accedere al turno
di servizio era tenuto ad indossare la divisa (nei locali a ciò destinati in
Ric, 2014 n. 29160 sez. ML ud. 19-04-2016
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Giust. Com . eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, parr. 58 ss.).

prossimità dell’unità operativa di assegnazione all’interno dell’area
ospedaliera) che poi doveva dismettere a fine turno lasciandola per il
lavaggio nei cesti allo scopo collocati in azienda;.
2.- che non era stata offerta la prova che al lavoratore fosse richiesto di
entrare in anticipo rispetto al turno di servizio ed uscire con ritardo

lavoro.
In sostanza la Corte territoriale, sulla base delle allegazioni delle parti
ed in esito all’istruttoria sia documentale che testimoniale, ha accertato
che:
a.- le attività di vestizione e svestizione erano effettuate nel tempo
compreso tra la timbratura in entrata e quella in uscita (e dunque
nell’orario di lavoro);
b.- chc non era stata offerta la prova del fatto che per l’adempimento
di tale incombente l’azienda avesse imposto al lavoratore di
provvedervi al di fuori del turno di servizio;
c.- che le difettive aziendali si limitavano ad imporre di indossare la
divisa successivamente all’entrata ed a dismetteria prima dell’uscita dal
servizio;
d.- che il tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa era stato
regolarmente retribuito;
e.- che dai cartellini marcatempo si evinceva che nella maggior parte
dei casi l’ ingresso e l’ uscita coincidevano con l’orario di lavoro
previsto nei vari turni;
f.- che l’esubero di orario collegato alla prestazione di lavoro
straordinario o ad altri ordini di servizio era stato sempre regolarmente
retribuito.
Conclusivamente ha ritenuto che un eventuale scostamento orario tra
la timbratura e l’orario del turno andava collegato all’attività
Ric. 2014 n. 29160
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sez.

ML ud. 19-04-2016

rispetto alla scadenza del turno stesso per potere indossare gli abiti da

preparatoria della prestazione e che, in assenza di prova di una
espressa disposizione aziendale, tale attività preparatoria non postulava
un ulteriore corrispertivo.
Tale ricostruzione non incorre nella violazione dell’art. 2697 c.c,
denunciata con il terzo motivo di ricorso né tanto meno nella

compiutamente conto delle ragioni per cui ha ritenuto che non fosse
provata l’esistenza di una disposizione aziendale che imponesse una
entrata anticipata ed una uscita ritardata rispetto al turno di servizio e
ciò ha fatto prendendo in considerazione tutto il materiale probatorio
offertole (prove testimoniali, documentazione aziendale e cartellini
marcatempo) di cui ha dato adeguata giustificazione con accertamento
di merito in questa sede non censurabile.
Ugualmente inammissibile è la censura formulata con il quarto motivo
di ricorso.
Premesso che l’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art.
54 del di. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134,
introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per
cassazione, relativo all’orne.sso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e
abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe
determinato un esito diverso della controversia) e che non ricorre tale
vizio qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque
preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia
dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. s.u. 16.4.2015 n.
1434 e molte altre successive), nel caso in esame la Corte territoriale
ha esplicitamente tenuto conto del contenuto sia dei cartellini
marcatempo che delle prove testimoniali e ne ha dato una
Ric. 2014 n. 29160 sez. ML – ud. 19-04-2016
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violazione dell’art. 115 c.p.c.. La Corte di appello ha, infatti, dato

ricostruzione che è rispettosa dei principi in tema di distribuzione
dell’onere probatorio pur pervenendo ad un esito diverso rispetto a
quello auspicato dalla parte ricorrente.
Non si ravvisa pertanto né una motivazione assolutamente mancante
di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico né tanto meno apparente o

obiettivamente incomprensibile di tal che le censure formulate si
palesano inammissibili.
Quanto all’ultimo motivo, avente ad oggetto la richiesta di condanna
della ASP di Caltanissetta al pagamento delle spese del giudizio ,
l’esame resta assorbito dalla reiezione delle altre censure.
In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e le spese
vanno regolate secondo il criterio della soccombenza c sono liquidate
nella misura indicata in dispositivo.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al
30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13,
comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto
dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base
al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o
meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo
unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento
aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto
oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa
valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa
per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la
previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano
funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle,
pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n.
22035/2014).
Ric. 2014 n. 29160 sez. ML – ud. 19-04-2016
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contenente affermazioni tra loro inconciliabili, perplessa o

PQM

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che si
liquidano in

2500,00 per compensi professionali, € 100,00 per

esborsi, 15% per spese forfetarie ed accessori dovuti per legge.

della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della
ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’art.13 comma 1 bis
del citato d.P.R..
Così deciso in Roma il 19 aprile 2016

li-Funzioner

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del &P.R. n. 115 del 2002 dà atto

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