Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10635 del 03/05/2010

Cassazione civile sez. I, 03/05/2010, (ud. 04/02/2010, dep. 03/05/2010), n.10635

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – rel. Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.R., elettivamente domiciliato in Roma, via Sistina 121,

presso l’avv. MARRA Alfonso Luigi, del Foro di Napoli, che lo

rappresenta e difende giusta procura in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma, n. 3713 cron., del

18 maggio 2005, nel procedimento iscritto al n. 51816/04;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 4

febbraio 2010 dal relatore, cons. SCHIRO’ Stefano;

lette le conclusioni scritte del Pubblico ministero, in persona del

sostituto procuratore generale, dott. Schiavon Giovanni, che ha

concluso chiedendo il rigetto del ricorso per manifesta infondatezza.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con decreto del 18 maggio 2005 la Corte d’appello di Roma condannava il Ministero della Giustizia al pagamento in favore di R.R. della somma di Euro 300,00, oltre a interessi e spese processuali, a titolo di indennizzo per il superamento del termine di ragionevole durata di un processo instaurato davanti al Giudice del lavoro di Napoli, per rivalutazione monetaria e interessi di mora su prestazioni previdenziali corrisposte in ritardo, definito in primo grado con sentenza del 5 febbraio 1996, in secondo grado, a seguito di ricorso del 26 marzo 1996, con sentenza del 20 maggio 1999, a cui aveva fatto seguito giudizio di cassazione introdotto con ricorso in data 1 luglio 2000 e definito con sentenza del 30 settembre 2002, che aveva cassato la decisione impugnata, rinviando la causa davanti alla Corte di appello di Potenza, dove il giudizio era stato riassunto il 28 ottobre 2003 ed era ancora pendente. A fondamento della decisione, la Corte di merito, premesso che il periodo eccedente la durata ragionevole del processo era complessivamente pari a circa un anno, tenuto conto di due anni di inerzia della parte per la proposizione del ricorso per Cassazione e del ricorso per riassunzione, determinava l’entità dell’indennizzo nella misura di Euro 300,00, pari ad Euro 250,00 circa per ogni anno di ritardo, in relazione all’oggetto del contendere, di modestissima rilevanza economica, con la conseguenza che il patema d’animo e lo stress derivanti dall’attesa della decisione dovevano essere considerati estremamente modesti in considerazione della posta in gioco.

2. Per la cassazione di tale decreto il R. ricorre sulla base di sei motivi e memoria. Il Ministero della Giustizia non ha svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente censura il decreto impugnato, proponendo sei motivi di ricorso, con i quali lamenta:

1.1. l’erronea determinazione del termine ragionevole di durata del processo, anche in relazione alla natura previdenziale della causa;

il mancato rispetto dei parametri europei in ordine alla quantificazione per anno del danno non patrimoniale, liquidato in misura modesta, in considerazione della scarsa rilevanza economica della controversia (secondo, quarto e quinto motivo), nonchè il calcolo dell’equo indennizzo solo con riferimento, sulla base di incongrua motivazione, al periodo eccedente la ragionevole durata della causa e non all’intera durata del giudizio (terzo motivo) ed infine l’erronea applicazione delle tariffe professionali vigenti riguardanti i procedimenti di volontaria giurisdizione, anzichè i giudizi ordinali dinanzi alla Corte d’appello, e senza tener conto dei parametri e degli importi liquidati dalla giurisprudenza della CEDU (sesto motivo).

2. Con riferimento al primo motivo del ricorso, rileva preliminarmente il collegio che il ricorrente, con la sostanza delle sue argomentazioni, ha contestato complessivamente il calcolo compiuto dalla Corte d’appello in ordine ai sottoperiodi da considerare ai fini della ragionevole durata del procedimento.

Ciò premesso, la doglianza è fondata nei termini qui di seguito precisati.

In primo luogo la Corte di appello ha determinato il termine ragionevole di durata dell’intero processo, senza tener conto della durata del giudizio di primo grado e conteggiando il suddetto termine soltanto a partire dal giudizio di appello. Tuttavia questa Corte, con orientamento che il collegio condivide pienamente e intende in questa sede ribadire, ha già affermato che in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, pur essendo possibile individuare degli “standard” di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, occorre avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dall’introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva dell’unico processo da considerare nella sua complessiva articolazione (Cass. 2008/23506).

3. Inoltre la Corte di appello ha escluso dal computo del termine non ragionevole di durata del processo un periodo di circa due anni, in conseguenza dell’inerzia della parte nel proporre il ricorso per Cassazione e quello di riassunzione della causa davanti al giudice di secondo grado. Osserva al riguardo il collegio che la questione relativa alla possibilità di dedurre dalla durata complessiva del processo l’intero lasso di tempo come sopra intercorso, oppure alla necessità di calcolare l’intero periodo come parte della durata del procedimento non addebitabile alla parte in quanto esercizio di una facoltà riconosciuta dalla legge, e quindi non soggetta a sindacato e a eventuale censura, è già stata posta all’attenzione della Corte che ha reso pronunce non sempre coincidenti, stabilendo che “il giudice dell’equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89 – chiamato ad accertare se vi sia stata o meno violazione del termine di durata ragionevole di un processo civile articolatosi su più gradi – può detrarre, dalla complessiva sua durata, in considerazione dell’impegno limitato della controversia, una parte considerevole del tempo trascorso per la proposizione dell’impugnazione, e ciò sebbene la legge processuale consenta alle parti di poter fruire pienamente dei termini stabiliti per proporre le impugnazioni di legge” (Cass. 2005/14477), ma anche che “… non può detrarsi dalla durata complessiva del processo il periodo trascorso prima dell’esercizio, da parte del soccombente, della facoltà di impugnazione, poichè l’utilizzazione del termine al riguardo accordato dalla legge rientra nella fisiologia del processo, e, dunque, non autorizza in sè un prolungamento della scadenza ragionevole, sempre che non risulti riconducibile ad un intento dilatorio od a negligente inerzia” (Cass. 2005/5991).

Ritiene il collegio preferibile aderire al principio di cui alla prima delle due citate pronunce, in quanto maggiormente rispettoso della ratio sottesa alla disciplina dell’equo indennizzo. Infatti la Convenzione europea per i diritti dell’Uomo impone agli Stati membri di predisporre strumenti per la tutela giudiziale dei diritti che, sia per la normativa procedi mentale che li disciplina che per l’organizzazione di uomini e mezzi predisposta per la loro attuazione, garantisca ai soggetti che li utilizzano un risultato, e quindi una risposta alla loro domanda giudiziale, in tempi ragionevoli. Tuttavia, nell’ambito della valutazione in concreto della durata del processo, non può prescindersi da un obbligo di collaborazione di chi utilizza lo strumento processuale, soprattutto laddove il giudice non dispone di strumenti per contenere i tempi del procedimento, in quanto, in subiecta materia, si verte in tema di risarcimento del danno e quindi da un lato è necessaria, per la sua risarcibilità, la configurabilità di una colpa in capo al presunto danneggiante, ma dall’altro si richiede al preteso danneggiato, ex artt. 1175, 1375 c.c. e art. 1227 c.c., comma 2, di adoperarsi al fine di non aggravare la posizione del debitore. Di conseguenza, quand’anche potesse addebitarsi allo Stato la predisposizione di uno strumento processuale che può rivelarsi inidoneo, tenuto conto del lungo periodo concesso per l’impugnazione in mancanza di notifica, a garantire una ragionevole durata complessiva (e in materia non a caso è intervenuto di recente il legislatore dimezzando il termine di cui all’art. 327 c.p.c.), deve comunque tenersi conto del comportamento della parte, al fine di valutare se la medesima abbia contribuito a mantenere il processo entro limiti temporali ragionevoli o ne abbia senza necessità provocato l’allungamento. Non è in discussione, intatti, il diritto della parte di utilizzare integralmente il termine a lei concesso per esercitare il diritto di impugnazione, ma il diverso diritto della stessa parte ad ottenere il risarcimento del danno da irragionevole durata del processo anche per il periodo eccedente quello strettamente necessario, posto che, in tal caso, il danno che ne deriva sarebbe la conseguenza di una scelta legittima ma non necessaria.

Sotto questo profilo, la Corte, dopo aver statuito che “la parte vittoriosa che non eserciti una facoltà, quale quella della notificazione della sentenza a sè favorevole a fini sollecitatori, lasciando decorrere tutto il termine lungo per la proposizione della impugnazione non può pretendere che l’intero termine decorso venga addebitato alla organizzazione giudiziaria, dovendo il lasso temporale trascorso per detta scelta processuale essere riferito alla stessa parte”, ha già altresì stabilito il principio secondo cui non può essere addebitato alle parti l’intero periodo utilizzato per la proposizione dell’impugnazione ma spetta “al giudice dell’equa riparazione verificare di volta in volta, tenuto conto delle circostanze delle singole vicende processuali, quale sia in concreto stato il comportamento della parte che chiede l’equa riparazione tra un grado e l’altro, e scomputare dalla durata complessiva del giudizio solo il lasso di tempo non riconducibile, secondo il suo prudente apprezzamento, all’esercizio del diritto di difesa ” (Cass. 2007/5212).

Il collegio ritiene tuttavia opportuno ulteriormente precisare e definire il tempo strettamente necessario all’esercizio del diritto, non apparendo l’opzione consistente nella rimessione della valutazione al giudice del merito l’unica possibile, nè quella maggiormente rispondente alle esigenze di tendenziale certezza sull’applicazione della norma cui l’interpretazione della stessa deve ambire. Dovendo dunque ricercarsi un parametro certo ed affidabile, è indubitabile che a tali requisiti corrisponda quello fornito dallo stesso legislatore che, nell’ipotesi di notificazione della sentenza, ha previsto termini perentori per la sua impugnazione, con ciò chiaramente ed incontestabilmente valutando che questi siano congrui anche a fronte della particolare complessità della controversia, l’alternativa essendo l’inconciliabilità dei termini fissati con il dettato dell’art. 24 Cost.. Di conseguenza il tempo strettamente necessario per l’esercizio del diritto di impugnazione è quello fissato per la stessa nelle singole ipotesi, decorrente dal momento in cui, attraverso la comunicazione del biglietto di cancelleria, la parte viene a conoscenza del deposito della decisione: se infatti tale adempimento non è idoneo a far decorrere il termine breve per impugnare e quindi a ridurre necessariamente il termine per l’esercizio del diritto, tuttavia incontestabilmente lo rende possibile, facendo così insorgere l’onere della parte che dalla pendenza del processo potrebbe subire un danno di non aggravarlo con una condotta dilatoria anche se, sotto altro aspetto, legittima.

Sul punto può essere pertanto affermato il seguente principio di diritto: “Poichè non può essere addebitato all’amministrazione della giustizia il segmento temporale del processo, utilizzato dalla parte per l’esercizio di un diritto, eccedente quello strettamente necessario, non deve essere computato nella durata complessiva del procedimento il tempo intercorrente tra la pronuncia impugnata e la proposizione dell’impugnazione per la parte eccedente quella corrispondente al tempo trascorso fino alla comunicazione dell’avvenuto deposito della decisione maggiorato di quello corrispondente al termine previsto per lo specifico mezzo di gravame”.

4. Sono manifestamente fondati il secondo, quarto e quinto motivo – esaminati congiuntamente in quanto attinenti a questioni strettamente connesse poichè la determinazione dell’indennizzo nella misura di Euro 300,00, pari ad Euro 250,00 per anno di ritardo, si configura irragionevolmente in misura inferiore a quella che risulterebbe dall’applicazione dei parametri stabiliti dalla CEDU, anche tenendo conto della modesta rilevanza economica del giudizio presupposto.

Osserva al riguardo il collegio che il parametro per indennizzare la parte del danno non patrimoniale subito nel processo presupposto va individuato nell’importo non inferiore ad Euro 750,00 per anno di ritardo, alla stregua degli argomenti svolti nella sentenza di questa Corte n. 16086 del 2009. Secondo tale pronuncia, in tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e in base alla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo (sentenze 29 marzo 2006, sui ricorsi n. 63261 del 2000 e nn. 64890 e 64705 del 2001), gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni possono essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, “a condizione che le decisioni pertinenti” siano “coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato” e purchè detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45 per cento del risarcimento che la Corte avrebbe attribuito. Di conseguenza, stante l’esigenza di offrire un’interpretazione della L. 24 marzo 2001, n. 89 idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l’art. 6 della CEDU (come interpretata dalla Corte di Strasburgo), la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata. Tali principi vanno confermati in questa sede, con la precisazione che il suddetto parametro va osservato in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo invece aversi riguardo per quelli successivi, al parametro di Euro 1.000,00 per anno di ritardo, tenuto conto che l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno.

5. E’ invece manifestamente infondato il terzo motivo, Infatti è vincolante per il giudice nazionale, il disposto della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di durata del processo (Cass. 2005/21597; 2008/14).

Resta assorbita la censura di cui al sesto motivo, dovendosi comunque procedere alla riliquidazione delle spese del giudizio di merito in ragione dell’accoglimento del ricorso sotto i profili in precedenza rilevati.

6. L’impugnato decreto deve essere pertanto cassato in ordine alle censure accolte e poichè sono necessari ulteriori accertamenti di fatto la causa va rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla stessa Corte d’appello in diversa composizione, che riesaminerà la domanda alla stregua dei principi in precedenza enunciati.

P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione. Cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2010

 

 

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