Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10632 del 03/05/2010

Cassazione civile sez. I, 03/05/2010, (ud. 20/01/2010, dep. 03/05/2010), n.10632

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

L.I.M., con domicilio eletto in Roma, Via

Crescenzio n. 20, presso l’Avv. MENICACCI Stefano che la rappresenta

e difende come da procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Presidente del Consiglio

pro tempore, rappresentata e difesa, per legge, dall’Avvocatura

generale dello Stato, e presso gli Uffici di questa domiciliata in

Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

per la cassazione del decreto della Corte d’appello di Perugia

depositato il 13 febbraio 2007.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

giorno 20 gennaio 2010 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio

Zanichelli.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L.I.M. ricorre per cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della Corte d’appello che ha respinto il suo ricorso con il quale è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo svoltosi in primo grado avanti alla Pretura di Roma dal 17 aprile 1997 al 5 agosto 1998, in grado d’appello avanti al Tribunale di Roma dal 14 giugno 1999 al 10 gennaio 2003 nonchè avanti la Corte di Cassazione dal 3 novembre 2003 al 24 novembre 2005.

Resiste l’Amministrazione con controricorso.

La causa è stata assegnata alla Camera di consiglio in esito al deposito della relazione redatta dal Consigliere Dott. Alberto Giusti con la quale sono stati ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La richiamata relazione è del seguente letterale tenore:

“Il decreto impugnato ha respinto la domanda di equo indennizzo per danno non patrimoniale ritenendo non violato il canone della ragionevole durata del processo, avendo ritenuto il processo presupposto di complessità media, avendo giudicato ragionevole la durata complessiva di sei anni e sei mesi e avendo decurtato dalla durata del processo presupposto, oltre al periodo di interruzione del giudizio per la cancellazione dell’albo dell’avvocato della ricorrente, anche il periodo per la fissazione dell’udienza di discussione, sia in primo grado che in appello.

Il motivo di ricorso – con cui si denuncia l’erronea determinazione del periodo di durata ragionevole del processo – è manifestamente fondato, nei termini di seguito precisati.

In tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo ai sensi della L. n. 89 del 2001, è fatto obbligo al giudice di merito, nel verificare la sussistenza della violazione, di tener conto dei criteri al riguardo applicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e di considerare la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione (Cass., Sez. 1^, 11 maggio 2006, n. 10894).

La Corte territoriale – a fronte di un processo previdenziale durato nei tre gradi del giudizio oltre sette anni – ha determinato in sei anni e sei mesi la durata ragionevole del processo, discostandosi senza alcuna motivazione dai parametri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ed ha erroneamente detratto dalla durata complessiva il periodo occorso in primo grado ed in appello per la fissazione dell’udienza di discussione, ai sensi degli artt. 415 e 435 cod. proc. civ.”.

Ritiene il Collegio di poter condividere le argomentazioni esposte e la soluzione prospettata.

Avendo tuttavia la ricorrente, con la sostanza delle sue argomentazioni, contestato complessivamente il calcolo compiuto dalla Corte d’appello in ordine ai sottoperiodi da considerare ai fini della ragionevole durata del procedimento e quindi anche, implicitamente, l’intero scomputo operato da giudice del merito del lasso di tempo intercorrente tra la pronuncia di primo e di secondo grado e, rispettivamente, la proposizione dell’appello e del ricorso per cassazione, deve precisarsi quanto segue.

La questione relativa alla possibilità di dedurre dalla durata complessiva del processo l’intero lasso di tempo come sopra intercorso oppure alla necessità di calcolare l’intero periodo come parte della durata del procedimento non addebitabile alla parte in quanto esercizio di una facoltà riconosciuta dalla legge e quindi non soggetta a sindacato e a eventuale censura è già stata posta all’attenzione della Corte che ha reso pronunce non sempre coincidenti stabilendo che “il giudice dell’equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89 – chiamato ad accertare se vi sia stata o meno violazione del termine di durata ragionevole di un processo civile articolatosi su più gradi – può detrarre, dalla complessiva sua durata, in considerazione dell’impegno limitato della controversia, una parte considerevole del tempo trascorso per la proposizione dell’impugnazione, e ciò sebbene la legge processuale consenta alle parti di poter fruire pienamente dei termini stabiliti per proporre le impugnazioni di legge” (Cassazione civile, sez. 1^, 9 luglio 2005, n. 14477) ma anche che “… non può detrarsi dalla durata complessiva del processo il periodo trascorso prima dell’esercizio, da parte del soccombente, della facoltà di impugnazione, poichè l’utilizzazione del termine al riguardo accordato dalla legge rientra nella fisiologia dei processo, e, dunque, non autorizza in sè un prolungamento della scadenza ragionevole, sempre che non risulti riconducile ad un intento dilatorio od a negligente inerzia” (Cassazione civile, sez. 1^, 18 marzo 2005, n. 5991).

Ritiene il Collegio di dover aderire al principio di cui alla prima pronuncia citata in quanto maggiormente rispettoso della ratio sottesa alla disciplina dell’equo indennizzo.

La Convenzione europea per i diritti dell’Uomo impone agli Stati membri di predisporre strumenti per la tutela giudiziale dei diritti che, sia per la normativa procedimentale che li disciplina che per l’organizzazione di uomini e mezzi predisposta per la loro attuazione, garantisca ai soggetti che li utilizzano un risultato, e quindi una risposta alla loro domanda giudiziale, in tempi ragionevoli. Nell’ambito della valutazione in concreto della durata del processo non può tuttavia prescindersi da un obbligo di collaborazione di chi utilizza lo strumento processuale soprattutto laddove il giudice non dispone di strumenti per contenere i tempi del procedimento in quanto, in subiecta materia, si verte in tema di risarcimento del danno e quindi da un lato è necessaria, per la sua risarcibilità, la configurabilità di una colpa in capo al presunto danneggiante ma dall’altro si richiede da parte del preteso danneggiato, ex artt. 1175 e 1375 c.c., e art. 1227 c.c., comma 2, di adoperarsi al fine di non aggravare la posizione del debitore.

Ne consegue, quanto alla specifica questione, che quand’anche potesse addebitarsi allo Stato la predisposizione di uno strumento processuale che può rivelarsi inidoneo, tenuto conto del lungo periodo concesso per l’impugnazione in mancanza di notifica, a garantire una ragionevole durata complessiva (e in materia non a caso è intervenuto di recente i legislatore dimezzando il termine di cui all’art. 327 c.p.c.), deve comunque tenersi conto del comportamento della parte al fine di valutare se abbia contribuito a mantenere il processo entro limiti temporali ragionevoli o ne abbia senza necessità provocato l’allungamento. Non è in discussione, infatti, il diritto della parte di utilizzare integralmente il termine a lei concesso per esercitare il diritto di impugnazione ma il diverso diritto della stessa parte ad ottenere il risarcimento del danno da irragionevole durata del processo anche per il periodo eccedente quello strettamente necessario, posto che, in tal caso, il danno che ne deriva sarebbe la conseguenza di una scelta legittima ma non necessaria.

Sotto questo profilo la Corte, dopo aver statuito che “la parte vittoriosa che non eserciti una facoltà, quale quella della notificazione della sentenza a sè favorevole a fini sollecitatori, lasciando decorrere tutto il termine lungo per la proposizione della impugnazione non può pretendere che l’intero termine decorso venga addebitato alla organizzazione giudiziaria, dovendo il lasso temporale trascorso per detta scelta processuale essere riferito alla stessa parte, ha già altresì stabilito il principio secondo cui non può essere addebitato alle parti l’intero periodo utilizzato per la proposizione dell’impugnazione ma spetta “al giudice dell’equa riparazione dell’equa riparazione verificare di volta in volta, tenuto conto delle circostanze delle singole vicende processuali, quale sia in concreto stato il comportamento della parte che chiede l’equa riparazione tra un grado e l’altro, e scomputare dalla durata complessiva del giudizio solo il lasso di tempo non riconducibile, secondo il suo prudente apprezzamento, all’esercizio del diritto di difesa” (Cassazione civile, sez. 1^, 7 marzo 2007, n. 5212).

Ritiene tuttavia la Corte di dover ulteriormente precisare e definire il tempo strettamente necessario all’esercizio del diritto, non apparendo l’opzione consistente nella rimessione della valutazione al giudice del merito l’unica possibile nè quella maggiormente rispondente alle esigenze di tendenziale certezza sull’applicazione della norma cui l’interpretazione della stessa deve ambire. Dovendo dunque ricercarsi un parametro certo ed affidabile, è indubitabile che a tali requisiti corrisponda quello fornito dallo stesso legislatore che, nell’ipotesi di notificazione della sentenza, ha previsto termini perentori per la sua impugnazione con ciò chiaramente ed incontestabilmente valutando che questi siano congrui anche a fronte della particolare complessità della controversia, l’alternativa essendo l’inconciliabilità dei termini fissati con il dettato dell’art. 24 Cost..

Se così è, ne consegue che il tempo strettamente necessario per l’esercizio del diritto di impugnazione è quello fissato per la stessa nelle singole ipotesi, decorrente dal momento in cui, attraverso la comunicazione del biglietto di cancelleria, la parte viene a conoscenza del deposito della decisione: se infatti tale adempimento non è idoneo a far decorrere il termine breve per impugnare e quindi a ridurre necessariamente il termine per l’esercizio del diritto tuttavia incontestabilmente lo rende possibile facendo così insorgere l’onere della parte che dalla pendenza del processo potrebbe subire un danno di non aggravarlo con una condotta dilatoria anche se, sotto altro aspetto, legittima.

L’impugnato decreto deve dunque essere cassato e la causa rinviata, anche per le spese, alla stessa Corte d’appello in diversa composizione che, quanto all’aspetto da ultimo trattato, si atterrà al seguente principio di diritto: “Poichè non può essere addebitato all’amministrazione della giustizia il segmento temporale del processo utilizzato dalla parte per l’esercizio di un diritto eccedente quello strettamente necessario non deve essere computato nella durata complessiva del procedimento il tempo intercorrente tra la pronuncia impugnata e la proposizione dell’impugnazione per la parte eccedente quella corrispondente al tempo trascorso fino alla comunicazione dell’avvenuto deposito della decisione maggiorato di quello corrispondente al termine previsto per lo specifico mezzo di gravame”.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso; cassa in parte qua il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2010

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