Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10629 del 13/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 13/05/2011, (ud. 14/04/2011, dep. 13/05/2011), n.10629

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14619-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO

9, presso lo studio dell’avvocato STUDIO TRIFIRO’ &

PARTNERS,

rappresentata e difesa dall’avvocato BERETTA STEFANO, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

M.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO N.

172, presso lo studio dell’avvocato GALLEANO SERGIO NATALE EDOARDO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PASETTO GIORGIO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 268/2006 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 12/05/2006 r.g.n. 494/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/04/2011 dal Consigliere Dott. PIETRO CURZIO;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega SALVATORE TRIFIRO’;

udito l’Avvocato SERGIO GALLEANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1. Poste italiane chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’appello di Venezia, pubblicata il 12 maggio 2006, che ha rigettato l’appello contro la sentenza con la quale il Tribunale di Verona aveva accolto il ricorso di M.E., dichiarando a tempo indeterminato il rapporto di lavoro intercorso tra le parti e condannando la società alla corresponsione delle retribuzioni dal giorno della messa in mora (16 dicembre 2003).

2. Poste italiane articola sei motivi di ricorso. La M. si è difesa con controricorso. Le parti hanno depositato memorie.

3. Il primo, il secondo il terzo ed il quinto motivo di ricorso concernono la legittimità della apposizione del termine ai tre contratti di lavoro stipulati tra le parti a decorrere dal 2 dicembre 1999 (l’ultimo con scadenza 3 1 gennaio 2001 ).

4. Le questioni poste sono state affrontate in una serie di sentenze di questa Corte nelle quali si è costantemente affermata l’infondatezza delle tesi di Poste italiane a sostegno della legittimità dei contratti a termine stipulati per esigenze eccezionali dopo il 30 aprile 1998, quali il primo di quelli intercorsi tra le parti della presente controversia.

5. Cass. n. 18272 del 2006; Cass. n. 13728 del 2009 e una lunga serie di altre decisioni ricordano che l’art. 23 della legge 28 febbraio 1987 n. 56, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco all’autonomia collettiva, la quale, pertanto, non è vincolata all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti collettive hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997.

6. Partendo da questo principio la giurisprudenza di questa Corte, dopo aver ribadito la legittimità della formula adottata nell’accordo integrativo, caratterizzata, in particolare, dalla mancata previsione di un termine finale, ha ritenuto tuttavia viziate le decisioni dei giudici di merito che avevano affermato la natura meramente ricognitiva dei cd. accordi attuativi e conseguentemente il carattere non vincolante degli stessi quanto alla determinazione della data entro la quale era legittimo ricorrere a contratti a termine, atteso che con tale interpretazione dei suddetti accordi si sono discostate dal chiaro significato letterale delle espressioni usate – ed in particolare di quella secondo cui … per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30/4/98 (cfr.

accordo del 16 gennaio 1998); ciò, fra l’altro, in violazione del principio secondo cui nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

7. La stessa giurisprudenza ha ritenuto inoltre la sussistenza, nelle suddette sentenze, di una violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello per cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la statuizione secondo cui le parti non avevano inteso introdurre limiti temporali alla previsione di cui all’accordo del 25 settembre 1997 implica la conseguenza che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

8. La giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr., ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378) ha, per contro, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo circa due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione deve comunque ritenersi conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

9. Il quarto motivo censura la sentenza di merito per non aver accolto l’eccezione di mutuo consenso, assumendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che la motivazione fornita non è sufficiente. Come questa Corte ha costantemente rilevato, il giudizio sulla sussistenza di un accordo per facta concludentia, sulla estinzione del contratto, viene devoluto al giudice di merito, la cui valutazione si sottrae a censure in sede di controllo di legittimità della decisione, se la motivazione non presenta i vizi indicati dall’art. 360, n. 5 (tra le molte e tra le ultime, cfr. Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279, cui si rinvia per ulteriori richiami). Nel caso in esame la motivazione è adeguata e priva di incoerenze. Peraltro, il quesito di diritto, formulato a conclusione del motivo, è generico.

10. Il sesto motivo è, infine, inammissibile, perchè critica la decisione in ordine alla condanna al risarcimento del danno assumendo che la stessa sia stata fatta decorrere dal tentativo di conciliazione o dal deposito del ricorso giudiziario e ragionando su questo presupposto. Al contrario, in questo caso, la Corte ha dato atto e basato il suo ragionamento sul fatto che la messa in mora si collega ad una specifica lettera raccomandata con la quale la M. mise espressamente a disposizione le sue energie lavorative chiedendo di essere riammessa a lavorare. Il motivo non è conforme al contenuto della decisione ed è pertanto inammissibile.

11. L’inammissibilità del motivo comporta il passaggio in giudicato della decisione sul punto, il che esclude la possibilità di prendere in considerazione la richiesta di applicazione della disciplina del risarcimento del danno introdotta dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 proposta da Poste italiane con la memoria per l’udienza.

12. E’ opportuno ricordare che, in generale sul problema dell’applicazione retroattiva della norma su indicata, si è affermato il seguente principio di diritto: “In tema di rapporto di lavoro a termine, l’applicazione retroattiva della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5 – il quale ha stabilito che, in caso di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una “indennità onnicomprensiva” compresa tra 2, 5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8 prevista dal successivo comma 7 del medesimo articolo in relazione a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della legge, trova limite nel giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria a seguito dell’impugnazione del solo capo relativo alla declaratoria di nullità del termine, e non anche della ulteriore statuizione relativa alla condanna al risarcimento del danno, essendo quest’ultima una statuizione avente individualità, specificità ed autonomia proprie rispetto alle determinazioni concernenti la natura del rapporto” (Cass. 3 gennaio 2011, n. 65).

13. Il ricorso deve quindi essere rigettato, con conseguente condanna della parte che perde il giudizio alla rifusione delle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente alla rifusione alla controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida Euro 25,00, nonchè 2.500,00 euro per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2011

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