Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10625 del 02/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 02/05/2017, (ud. 10/05/2016, dep.02/05/2017),  n. 10625

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9526-2013 proposto da:

P.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato ANTONINO

SPINOSO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

MASSIMO GRATTAROLA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ILVA S.P.A., p.i. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA G. MAZZINI 27,

presso lo studio dell’avvocato LUCIO NICOLAIS, rappresentata e

difesa dall’avvocato EDOARDO LE BOFFE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1350/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 15/01/2013 R.G.N. 263/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/05/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LEO;

udito l’Avvocato IVELLA FRANCESCO per delega verbale Avvocato

GRATTAROLA MASSIMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Torino, con sentenza depositata il 15/1/2013, respingeva il gravame interposto da P.G., dipendente della ILVA S.p.A., avverso la sentenza del Tribunale di Alessandria che aveva rigettato la domanda del ricorrente diretta all’accertamento del proprio diritto ad ottenere la retribuzione, da parte della società datrice di lavoro, per il tempo impiegato per vestirsi con l’apposita tuta, da computare, secondo il P., come ore di lavoro Per la cassazione della sentenza ricorre il lavoratore articolando quattro motivi. La società resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il P. denuncia la violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 692 del 1923, artt. 3; R.D. n. 1955 del 1923, art. 10; D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 1; nonchè delle Direttive Cons. CE 104/1993 e 34/2000, lamentando che la Corte di merito avrebbe basato ogni ragionamento sul fatto che il lavoratore non avrebbe provato quali dispositivi di protezione individuale utilizzasse e sul fatto che, “per sua propria consolidata giurisprudenza, l’indossare la tuta da lavoro, anche se imposta dal datore di lavoro, non costituisce mai orario di lavoro”, omettendo di considerare che la tuta ed i dispositivi di protezione sono, nel caso specifico, beni aziendali, che non possono essere portati fuori dall’azienda senza una specifica disposizione dell’imprenditore; si sarebbe, quindi, in presenza – a parere del ricorrente – di operazioni esecutive di una prescrizione datoriale ai quali il lavoratore non può sottrarsi senza incorrere in responsabilità disciplinare.

1.1. Il motivo non è fondato.

Invero, la Corte distrettuale, con un iter motivazionale ineccepibile fondato sull’analitico esame delle risultanze istruttorie e facendo proprio il consolidato orientamento espresso, sul tema, dalla giurisprudenza di legittimità (si veda, per tutte, Cass. n. 1697/2012), ha affermato che, nella fattispecie, il fatto che il P. avesse sostenuto di essere stato tenuto ad indossare dispositivi di protezione e che tale fatto, da solo, dimostrasse la sussistenza dell’eterodirezione – depositando, a sostegno dei propri assunti, esclusivamente un comunicato aziendale nel quale, alla voce -obblighi del lavoratore la cui inosservanza comporta l’applicazione delle sanzioni disciplinari” è indicato tra tali obblighi quello di -osservare le misure disposte, ai fini della sicurezza individuale, collettiva e dell’igiene” – non può considerarsi sufficiente, dal momento che il ricorrente non ha dedotto, neanche in sede di interrogatorio libero, alcun elemento in ordine all’attività che svolgeva ed ai dispositivi che doveva indossare, limitandosi a parlare di “una tuta da lavoro”.

E ciò, anche in considerazione del fatto che il P., secondo quanto risulta per tabulas, ha reso la propria prestazione lavorativa presso lo stabilimento della convenuta di (OMISSIS) presso il reparto finiture e che, dal novembre 2005 sino alla cessazione del rapporto di lavoro, ha lavorato presso il reparto di vigilanza, nei locali della portineria; anche a prescindere, quindi, dalla mancanza di allegazioni e di prove, non è pensabile che il P. indossasse dispositivi di protezione nel periodo in cui prestava servizio in portineria.

Correttamente, la Corte di merito ha, quindi, sottolineato che il fondamento della pretesa retributiva deve, nella fattispecie, essere necessariamente correlato all’esistenza, per quel lasso di tempo utilizzato ad indossare tute e dispositivi di sicurezza. di un sostanziale ed indiscusso assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro, il quale deve potere disporre del tempo e delle energie lavorative offerte dal lavoratore. Pertanto, in mancanza di tale prova della c.d. eterodirezione, non può riconoscersi alcuna fondatezza alla detta pretesa retributiva, proprio in considerazione della natura sinallagmatica del rapporto.

2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 167 c.p.c. e si lamenta che la Corte di Appello non avrebbe tenuto nel debito conto il fatto che mentre la ILVA S.p.A. ha negato che il ricorrente fosse obbligato ad indossare la tuta, la stessa non ha mai posto in dubbio nè contestato che lo stesso indossasse i dispositivi di protezione individuale; inoltre – deduce ancora il ricorrente -, in mancanza di contestazione, non era necessario andare ad analizzare se il P. utilizzasse o meno quei dispositivi, e quali utilizzasse, essendo tale circostanza da porre incontestatamente a fondamento della decisione.

2.1 Il motivo non è fondato.

A prescindere, infatti, dalla genericità della contestazione, al riguardo valgono le considerazioni già svolte sub 1.1.

Il percorso motivazionale è stato condotto dai Giudici di Appello con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue in ordine alla mancata allegazione di prove, da parte del P., a sostegno dei propri assunti; argomentazioni che valgono anche a dimostrare la non fondatezza della censura articolata con il secondo mezzo di impugnazione, posto che, come già messo innanzi in rilievo, la Corte territoriale ha operato una corretta sussunzione dei fatti nelle norme da applicare, sicuramente scevra dagli errores in iudicando che la parte ricorrente lamenta.

3. Con il terzo motivo la parte ricorrente lamenta ancora la violazione dell’art. 115 c.p.c. e deduce che la Corte territoriale avrebbe tratto elementi di prova da un documento (verbale contenente la testimonianza del P. in altra causa analoga) che non faceva parte della causa e che non avrebbe potuto essere utilizzato perchè mai regolarmente e tempestivamente prodotto nè acquisito d’ufficio dal giudice.

3.1. Il motivo è inammissibile.

In ordine alla valutazione degli elementi probatori, posto che la stessa è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in Cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte, qualora il ricorrente denunci, in sede di legittimità, l’errata valutazione di prove, ha l’onere non solo di trascriverne il testo integrale nel ricorso per cassazione, ma anche di specificare i punti ritenuti decisivi al fine di consentire il vaglio di decisività che avrebbe eventualmente dovuto condurre il giudice ad una diversa pronunzia, con l’attribuzione di una diversa valutazione alle prove relativamente alle quali si denunzia il vizio (cfr. Cass. n. 6023 del 2009). La qual cosa, nella fattispecie, non è avvenuta.

Nel caso di specie, inoltre, la contestazione, peraltro del tutto generica, sulla non corretta valutazione dei mezzi di prova si risolve in una inammissibile richiesta di riesame di verifica dell’esistenza di fatti posti, a dire del ricorrente, a fondamento della decisione oggetto del giudizio di legittimità (Cass. n. 6023 del 2009, cit.), finalizzata ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014).

Deve, dunque, affermarsi, per tutte le considerazioni che precedono, che neppure il terzo mezzo di impugnazione è idoneo a scalfire le argomentazioni cui è pervenuta la Corte di merito.

4. Con il quarto motivo il P. denuncia la violazione dell’art. 116 c.p.c., perchè, a suo dire, la Corte territoriale avrebbe basato il proprio convincimento su prove inesistenti, avendo desunto dalle dichiarazioni del lavoratore che affermava di avere lavato le divise dei colleghi, il fatto ch’egli non indossasse dispositivi di protezione.

4.1 Il motivo è inammissibile, in quanto, ancora una volta, censura in modo del tutto generico la non corretta valutazione delle prove da parte della Corte territoriale che, invece, attraverso un iter motivazionale ineccepibile, basato, come innanzi rilevato, sulla sequenza temporale dei fatti e sulla documentazione posta a sostegno della motivazione, ha operato la corretta sussunzione di tali fatti nella norma da applicare, facendo altresì costante e corretto riferimento ai consolidati arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità (cfr., tra le molte, Cass. n. 1697/2012).

Alla stregua di quanto esposto il ricorso va quindi respinto.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità da liquidare in Euro 3.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2017

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