Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10618 del 23/05/2016


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 10618 Anno 2016
Presidente: MIGLIUCCI EMILIO
Relatore: ORILIA LORENZO

SENTENZA
sul ricorso 22929-2011 proposto da:
RIACCI

DANIELA

RCCDNL67S49F205B,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA VELLETRI 35, presso lo
studio dell’avvocato PIETRO FEDERICO, rappresentata e
difesa dall’avvocato FERDINANDO GENOVESI;
– ricorrente contro

2016
785

CORSINI

ELISABETTA

C.F.CRSLBT56M52F023Z,

CORSINI

ANTONIO C.F.CRSNTN37H13B832L, FACONTI LAURA
C.F.FCNLRA38M52I449J, elettivamente domiciliati in
ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CORTE DI CASSAZIONE,

Data pubblicazione: 23/05/2016

rappresentati e difesi dall’Avv. ANGELO EMANUELE
TUBOLINO;

controricorrenti

avverso la sentenza n. 160/2011 della CORTE D’APPELLO
di GENOVA, depositata il 09/02/2011;

udienza del 13/04/2016 dal Consigliere Dott. LORENZO
ORILIA;
udito l’Avv. Federico con delega orale dell’Avv.
Genovesi Ferdinando difensore della ricorrente che ha
chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO SGROI che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1 Con sentenza 9.2.2011 la Corte d’Appello di Genova, in

parziale accoglimento dell’impugnazione contro la sentenza
912/06 del Tribunale di Massa, proposto dai convenuti

soccombenti Antonio Corsini, Elisabetta Corsini e Laura Faconti
nei confronti di Daniela Riacci, per quanto di stretto interesse
in questa sede:
– ha respinto la domanda di rimozione di due canne fumarie
avanzata dalla Riacci (capo A), dichiarando la soccombenza
virtuale della parte appellante;
– ha respinto la domanda di risarcitoria in relazione ad
un corpo di fabbrica realizzato dai convenuti sul confine (capo
C)

ordinando

alla

Ricci

la

restituzione

della

somma

eventualmente incassata;

(57

– ha respinto la domanda di rimozione di alcune tubazioni
installate dai convenuti-appellanti (capo L)
Per giungere a tali conclusioni, la Corte genovese ha
rilevato:
– che, come risultava dalla CTU, le due canne fumarie
(capo A) erano state regolarizzate rispettando il PRG della
città di Carrara sia sotto il profilo della dispersione dei fumi
(stante l’allungamento verso l’alto) che sotto quello della
distanza (non prevista dalla normativa locale), per cui il fumo
non poteva creare danno alla abitazione adiacente;.

che la successiva edificazione in aderenza da parte
3

della attrice aveva fatto venir meno ogni danno in relazione al
corpo di fabbrica posizionato dai convenuti sul confine (capo
C), per cui andava riformata la pronuncia di risarcimento danni
emessa dal Tribunale;

– che da uno dei titoli allegati dagli appellanti era
emersa la proprietà comune del suolo in cui erano state
interrate le tubazioni (capo L) per cui la collocazione posta in
essere dagli appellanti convenuti rientrava nell’uso legittimo
del bene comune ai sensi dell’art. 1102 cc.
3 Contro tale decisione (sempre limitatamente ai capi A, C
ed L) ricorre per cassazione la Riacci sulla base di quattro
motivi a cui resistono con controricorso i Corsini- Faconti.
La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378
cpc.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1 Col primo motivo si denunzia, ai sensi dell’art. 360 n.
3 cpc, violazione e falsa applicazione, quantomeno degli artt.
844,890,900 e 907 cc.: la Corte d’Appello, ad avviso della
ricorrente, avrebbe omesso di dare rilievo al fatto che le
immissioni provocate dalle canne fumarie sono di per sé nocive,
prescindendo da ogni accertamento in concreto circa la
tollerabilità dei fumi. Osserva che il criterio della
tollerabilità di cui all’art. 811 cc non può essere sostituito
da accorgimenti tecnici basati su una falsa rappresentazione
della situazione di fatto e richiama in proposito la consulenza
4

di parte, i rilievi fotografici e la richiesta di autorizzazione
edilizia presentata al Comune dai vicini. Riporta le distanze
delle canne rispetto alle finestre della sua abitazione e
rispetto al muro di confine e rileva che rientrando le canne

fumarie nella categoria delle costruzioni (vista la loro
stabilità), devono essere poste alle distanze legali.
Ribadisce ancora la violazione degli artt. 907 e 890 cc
evidenziando la dannosità delle canne in termini di “panorama”,
esalazioni e “fastidiosi effetti di riflesso luce causati dalla

rotazione degli elementi in alluminio”.
Rileva che le proprie finestre rappresentano vere e
proprie vedute e non – come sostenuto con disinvoltura dalla
Corte d’Appello – luci irregolari, richiamando in proposito la
propria CT di parte redatta dall’arch. Bergamini per
sottolineare l’erroneità delle conclusioni del CTU Primavera
sulla natura di luci irregolari attribuita alle predette
aperture.
Richiama

inoltre

la

violazione

della

normativa

UNI7129/1992 circa le zone di ristagno dei combusti e l’altezza
rispetto al colmo del tetto vicino e il pregiudizio non solo al
panorama, ma anche al decoro architettonico. Ritiene pertanto
corretta la decisione del primo giudice che aveva ordinato la
rimozione delle canne, mentre invece la Corte d’Appello ha
basato il suo decidere solo sull’intervenuto innalzamento delle
costruzioni.

5

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Innanzitutto è inammissibile perché in violazione del
principio di autosufficienza (art. 366 n. 6 cpc) richiama, a
sostegno della proprie tesi una pluralità di documenti e atti

difensivi senza neppure allegarli al ricorso o trascriverne il
contenuto (ciò dicasi per i molteplici riferimenti a foLogrufie,
perizie, consulenze, richieste di autorizzazioni).
Per il resto la censura si rivela infondata.
Dal contenuto della citazione introduttiva (come riassunto
a pag. 2 del ricorso) risulta dedotta “/a

sussistenza

di due

canne fumarle davanti alle finestre al primo plano della
proprietà attorea a distanza inferiore a quella di legge”,

il

che induce senz’altro a ritenere che la doglianza sia stata
formulata con riferimento alla violazione degli artt. 907 cc
(distanza delle costruzioni dalle vedute) e 890 cc (distanze per
fabbriche e depositi nocivi o pericolosi).
Ciò chiarito, come già affermato dalla giurisprudenza di
questa Corte, la canna fumaria non è una costruzione, ma un
semplice accessorio di un impianto e quindi non trova
applicazione la disciplina di cui all’art. 907 Sez. 2, Sentenza
n. 2741 del 23/02/2012 Rv. 621675). Il Collegio ritiene di dare
continuità a tale orientamento considerando le caratteristiche
dei manufatti di cui si discute

in sostanza

(si tratta

semplici tubi in materiale metallico). Perde

di

così consistenza

ogni disquisizione sulla natura di luci o vedute.
6

Quanto al tema delle immissioni di cui all’art. 844 cc. la
valutazione della tollerabilità, ove adeguatamente motivata,
nell’ambito dei criteri direttivi indicati dal citato art. 844
cod. civ., con particolare riguardo a quello del contemperamento

delle esigenze della proprietà privata con quelle della
produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile in
sede di legittimità Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/0812005 Rv.
584408).
Nel caso che ci occupa la Corte genovese, sulla scorta
degli accertamenti peritali, ha rilevato il rispetto del dettato
del piano regolatore della città di Carrara sotto il profilo
della dispersione dei fumi e ha escluso, per effetto
dell’allungamento, il rischio di danni all’abitazione adiacente
(v. pag. 6). Trattasi, come si vede, di un percorso
argomentativo succinto ma adeguato e, come tale, incensurabile.
2 Col secondo motivo si denunzia ai sensi dell’art. 360 n.
3 cpc, violazione degli artt. 869 e 873 cc. La Riacci,
evidenziando la costruzione del manufatto degli attori a
distanza inferiore a quella regolamentare di dieci metri dal
confine, richiama i principi di diritto sulla natura della
normativa locale (integrativa del codice civile) osservando che
la violazione delle distanze riguardava non solo il lato
“Sarzana”,

ma anche il confine dal lato

“monti” come accertato

dal CTU che aveva anche quantificato il danno in lire 8.000.000.
Il motivo è privo di specificità (366 n. 4 cpc).
7

E’ bene chiarire subito che, come risulta dalla sentenza
impugnata (v. pag. 6) ed anche dal ricorso, il Tribunale aveva
pronunciato solo una condanna risarcitoria in relazione alla
costruzione sul confine di cui al capo C, peraltro conformemente

alle conclusioni rassegnate dall’attrice stessa che,
diversamente da quanto richiesto nell’atto introduttivo (ove
aveva invece domandato l’arretramento: v. pag. 2 ricorso), aveva
successivamente limitato la sua pretesa solo alla sola tutela
risarcitoria (una somma di danaro di lire 20.000.000

“a titolo

di risarcimento del danno determinato dalla costruzione del
nuovo corpo di fabbrica a confine con l’attorea proprietà,
realizzata ex adverso, a distanza inferiore a mt. 10,00 dal
confine”: v. ricorso pag. 4 sub C e pag. 5).
Ciò posto, la Corte d’Appello non ha affermato che la
costruzione dei convenuti fosse stata realizzata a distanza
regolamentare, ma ha semplicemente osservato che la successiva
edificazione in aderenza da parte della attrice abbia fatto
venir meno ogni danno per l’immobile della stessa in relazione
al preesistente fabbricato edificato dai convenuti. A questo
punto, posto che – come si visto – si discuteva solo di danni e
non più di una pretesa ripristinatoria (per effetto, come si è
visto, della rinunzia dell’attrice), spettava alla Ricci di
provare innanzitutto – per demolire l’affermazione dei giudici
di merito – quale danno avesse ricevuto il suo immobile dalla
nuova situazione di fatto venutasi a creare (esistenza di due
8

fabbricati in aderenza sul lato

“Sarzana”),

e di dimostrare

altresì che sul lato “monti” insisteva una porzione di manufatto
a distanza illegale dal confine, ma ciò non risulta: infatti, in
violazione, ancora una volta, del principio di autosufficienza,

la ricorrente si è limitata soltanto a richiamare la consulenza
tecnica di ufficio senza allegare al ricorso le parti salienti
dell’elaborato ne, quanto meno, trascriverne fedelmente il
contenuto per la parte riguardante il lato

“monti”.

Non

spettando alla Corte di Cassazione l’accesso e la consultazione
degli atti del processo, nessuna verifica è possibile effettuare
in questa sede.
3 4 Col terzo motivo si denunzia ai sensi dell’art. 360 n.

5 cpc, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa
un punto decisivo della controversia. Sempre riferendosi al
manufatto realizzato a distanza irregolare dal confine, osserva
la Riacci che la Corte d’Appello non solo non ha tenuto conto
della violazione delle distanze, ma si è contraddetta perché per
altri due manufatti pure realizzati dai convenuti sul confine
“monti”

(il barbecue e la

voliera)

aveva invece confermato la

condanna all’arretramento a distanza legale.
Col quarto ed ultimo motivo si denunzia, sempre ai sensi
dell’art. 360 n. 5 cpc, la omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione: dolendosi del rigetto della domanda
di eliminazione delle tubazioni interrate di cui al capo L, la
ricorrente rimprovera innanzi -tutto alla Corte d’Appello di non
9

avere preso in considerazione il comportamento dei convenuti i
quali non avevano mai sollevato eccezioni relative alla
proprietà dello stradello o in merito all’avvenuta usucapione
dello stesso. Sottopone poi a critica il convincimento della

Corte genovese basato su uno degli atti di trasferimento dei
convenuti (atto notaio Carrozzi del 1961) e, per dimostrare il
diritto di proprietà esclusiva sulla zona di terreno interessata
dalle tubazioni interrate, richiama stralci delle note tecniche,
della relazione peritale e di un altro titolo di provenienza
(l’atto per notaio Carrozzi del 1988), sottoponendo ad
interpretazione l’atto del 1961 considerato dalla Corte
territoriale ed altri atti di provenienza, con continui
riferimenti alle planimetrie allegate. La Corte d’Appello conclude la ricorrente – non avrebbe attribuito il significato
letterale alle parole utilizzate dai contraenti nei contratti
del 1961, 1979 e 1996 né al comportamento successivo, per cui
rileggendo tutti gli atti notarili prodotti in corso di causa
nonché le relazioni tecniche emerge chiaramente che i signori
Corsini Faconti non sono mai stati proprietari dello stradello e
di conseguenza hanno posizionato illecitamente le proprie
fognature.
Queste due censure – che per il comune riferimento al
vizio motivazionale ben si prestano a trattazione congiunta sono prive di fondamento.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, anche a
10

sezioni unite – ed oggi ribadito – la deduzione di un vizio di
motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione
conferisce al giudice di legittimità non il potere di
riesaminare il merito della intera vicenda processuale

sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo,
sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza
logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del
merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di
individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e
valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la
concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del
processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la
veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente
prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti,
salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue
che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della
omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può
legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento
del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del
mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della
controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio,
ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni
complessivamente adottate, tale da non consentire
l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a
base della decisione (v. tra le tante, Sez. 3, Sentenza n. 17477
11

del 09/08/2007 Rv. 598953; Sez. U, Sentenza n. 13045 del
27/12/1997 Rv. 511208; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del
07/01/2014 Rv. 629382).
Nel caso di specie, quanto alla asserita contraddittorietà
barbecue

e

della motivazione rispetto alla diversa sorte del

della voliera, la censura è inammissibile per difetto di
autosufficienza perché non offre alcun elemento per verificare
se effettivamente tali manufatti fossero stati collocati sullo
stesso confine, non essendo consentito al giudice di legittimità
di ricercare ed esaminare gli atti del processo (nel caso di
specie, la relazione del CTU e la planimetria allegata): eppure,
sarebbe bastato allegare al ricorso o quanto meno trascrivere
fedelmente le parti di rilievo di tale elaborato.
Quanto, infine, alla questione delle tubazioni interrate,
la lunga censura si risolve in una alternativa lettura di atti
processuali continuamente richiamati ma – ancora una volta – mai
allegati o quanto meno trascritti per le parti di rilievo: non è
possibile dunque alcun controllo sull’esattezza dei rilievi a
fronte di una motivazione che, invece, si rivela del tutto
congrua, laddove desume la proprietà comune del terreno in cui
si trovano i tubi dalla lettura di un titolo di proprietà dei
convenuti e quindi ritiene legittimo ai sensi dell’art. 1102 lo
sfruttamento del bene comune da parte dei comproprietari
mediante collocazione di tubazioni interrate.
Del resto – e il discorso tronca definitivamente ogni
12

ulteriore discussione

in tema di interpretazione del

contratto, il sindacato di legittimità non può investire il
risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei
giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce

solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica
e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con
conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione
della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si
traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di
fatto da questi esaminati (Sez. 3, Sentenza n. 2465 del
10/02/2015 Rv. 634161; Sez. 3, Sentenza n. 2074 del 13/02/2002
Rv. 552238).
In conclusione, le due ultime censure della ricorrente,
lungi dall’evidenziare quell’insanabile contrasto tra le
argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire
l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a
base della decisione, si limitano ancora una volta a proporre
una alternativa ricostruzione delle risultanze processuali
sollecitando la Corte di cassazione ad una sorta di terzo grado
di giudizio, attraverso la lettura degli atti del processo quali
relazioni tecniche, planimetrie, titoli di provenienza, solo
richiamati in ricorso, in palese violazione del principio di
autosufficienza.
Il ricorso pertanto va respinto e la ricorrente, per il
principio della soccombenza, va condannata al pagamento delle
13

spese di questo grado di giudizio.
P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese del giudizio di legittimità che liquida in C. 2.700,00 di

Così deciso in Roma il 13.4.2016.

cui C. 200,00 Per esborsi oltre accessori di legge.

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