Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10617 del 28/04/2017


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Cassazione civile, sez. II, 28/04/2017, (ud. 31/01/2017, dep.28/04/2017),  n. 10617

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14865 – 2012 R.G. proposto da:

T.M.T., – c.f. (OMISSIS) – (in proprio e quale erede di

C.L.), rappresentata e difesa in virtù di procura speciale

in calce al ricorso dall’avvocato Luigi Sini ed elettivamente

domiciliata in Roma, alla via Vincenzo Brunacci, n. 19, presso lo

studio dell’avvocato Francesca Tulanti;

– ricorrente –

contro

CA.MA.CL., – c.f. (OMISSIS) – elettivamente

domiciliata in Roma, alla via Monte delle Gioie, n. 13, presso lo

studio dell’avvocato Carolina Valensise che congiuntamente e

disgiuntamente all’avvocato Luciana Zampi la rappresenta e difende

in virtù di procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e

CA.GI. – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliata in Roma,

alla piazza della Cancelleria, n. 85, presso lo studio dell’avvocato

Barbara Paoletti che la rappresenta e difende in virtù di procura

speciale per scrittura privata autenticata per notar Ci. in

data (OMISSIS);

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 1935/2011 della corte d’appello di Roma, dep.

4/5/11;

Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 31

gennaio 2017 dal consigliere dott. Luigi Abete;

Udito l’avvocato Luigi Sini per la ricorrente;

Udito l’avvocato Carolina Valensise per la controricorrente

Ca.Ma.Cl.;

Udito l’avvocato Barbara Paoletti per la controricorrente

Ca.Gi.;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore

generale dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto in data 10.7.2000 Ca.Ma.Cl. citava a comparire dinanzi al tribunale di Viterbo i coniugi C.L. e T.M.T..

Esponeva che per successione dal padre, ca.gi., era titolare del dominio utile della bottega in (OMISSIS), della proprietà del piano superiore a tetto, corrispondente alla “caciara”, del fabbricato in (OMISSIS), della proprietà del terzo piano del fabbricato in (OMISSIS).

Esponeva che i primi due immobili fruivano di servitù di passaggio con accesso da (OMISSIS), attraverso il doppio cortile interno, “piccolo” (in catasto al (OMISSIS)) e “grande” (in catasto al (OMISSIS)), già di proprietà di Ca.Gi. e da costei alienato a C.L. e a T.M.T. con atti per notar S., rispettivamente, del (OMISSIS).

Esponeva che la servitù di passaggio doveva considerarsi sia pedonale che carrabile, giacchè i fondi serventi avevano natura commerciale, giacchè la servitù in tal guisa veniva esercitata senza opposizione alcuna da oltre un cinquantennio, giacchè l’accesso da (OMISSIS), era di ampiezza tale da consentire il transito di mezzi, giacchè nei successivi atti di alienazione posti in essere dall’originario proprietario era sempre stato menzionato il passo carraio.

Esponeva che i convenuti successivamente all’atto del (OMISSIS) avevano chiuso la porta carraia con un cancello ed avevano in tal maniera reso possibile unicamente il passaggio pedonale; che avevano ritenuto sussistente la servitù esclusivamente a vantaggio del cespite in catasto al foglio (OMISSIS), ed avevano disconosciuto ogni ulteriore diritto.

Esponeva che quale proprietaria dell’appartamento al terzo piano del fabbricato in (OMISSIS), aveva sempre avuto accesso al cortile di proprietà dei convenuti.

Chiedeva che fosse accertata e dichiarata l’esistenza della servitù di passaggio pedonale e carrabile attraverso il cortile di proprietà dei convenuti, onde accedere ai cespiti in catasto al foglio (OMISSIS), ed in catasto al foglio (OMISSIS).

Chiedeva che fosse accertato e dichiarato l’intervenuto acquisto per usucapione della servitù di passaggio pedonale attraverso il cortile di proprietà dei convenuti onde accedere al terzo piano del fabbricato al in (OMISSIS).

Chiedeva, in via subordinata rispetto alle domande in primo luogo esperite, che fosse accertato e dichiarato l’intervenuto acquisto per usucapione della servitù di passaggio pedonale e carrabile attraverso il cortile di proprietà dei convenuti onde accedere ai cespiti in catasto al foglio (OMISSIS), ed in catasto al foglio (OMISSIS).

Chiedeva condannarsi i convenuti alla immediata riapertura del cancello posto a chiusura dell’accesso da (OMISSIS), ed al risarcimento dei danni nella misura da quantificarsi in separato giudizio; con ogni conseguente ordine al conservatore dei RR. II. e con il favore delle spese di lite.

Si costituivano C.L. e T.M.T..

Chiedevano preliminarmente di essere autorizzati alla chiamata in causa di Ca.Gi., loro dante causa.

Nel merito instavano per il rigetto delle avverse domande.

In via subordinata, in ipotesi di accoglimento in tutto o in parte delle avverse pretese, chiedevano la condanna di Ca.Gi. al pagamento di somma corrispondente al deprezzamento di valore subito dall’immobile.

In via riconvenzionale chiedevano accertarsi che nessuna servitù di passaggio risultava costituita in favore del cespite in catasto al foglio (OMISSIS).

Si costituiva Ca.Gi., terza chiamata.

Instava per l’accoglimento delle pretese dell’attrice.

Con sentenza n. 387/2003 il tribunale adito dichiarava e dava atto unicamente dell’esistenza della servitù di passaggio pedonale attraverso il doppio cortile di proprietà dei convenuti onde accedere a cespite in (OMISSIS), in catasto al foglio (OMISSIS); rigettava ogni ulteriore domanda; condannava l’attrice a rimborsare ai convenuti la metà delle spese di lite, compensando la residua metà; compensava integralmente le spese nel rapporto tra i convenuti e la terza chiamata.

Avverso tale sentenza interponeva appello Ca.Ma.Cl..

Resistevano C.L. e T.M.T.; esperivano altresì appello incidentale subordinato avverso il rigetto della domanda di garanzia.

Resisteva Ca.Gi.; instava per il rigetto dell’appello incidentale e proponeva a sua volta appello incidentale in ordine alla disposta compensazione delle spese del primo grado tra ella ed i convenuti.

Con sentenza n. 1935/2011 la corte d’appello di Roma in parziale riforma del primo dictum, dichiarava l’intervenuto acquisto per usucapione della servitù di passaggio pedonale e carrabile attraverso il cortile “grande” di proprietà dei convenuti, in catasto al (OMISSIS), onde accedere al cespite dell’appellante principale in catasto al foglio (OMISSIS);

dichiarava l’intervenuto acquisto per usucapione della servitù di passaggio pedonale e carrabile attraverso il cortile “piccolo” di proprietà dei convenuti, in catasto al (OMISSIS), onde accedere al cespite dell’appellante principale in catasto al foglio (OMISSIS);

condannava gli appellati C.L. e T.M.T. alla riapertura del cancello carrabile in (OMISSIS), ovvero, in alternativa, alla consegna delle chiavi all’appellante principale;

rigettava l’appello incidentale esperito da C.L. e T.M.T.;

condannava C.L. e T.M.T. a pagare le spese di c.t.u. e a rimborsare a Ca.Ma.Cl.Ma.Cl. i 2/3 delle spese del doppio grado compensando il residuo 1/3;

condannava C.L. e T.M.T. a rimborsare a Ca.Gi. le spese del doppio grado.

Evidenziava preliminarmente la corte che era da respingere l’eccezione degli appellati di inammissibilità in sede di gravame della produzione dell'”atto notarile in data (OMISSIS), di affrancazione dal canone della bottega ex formo e panetteria” (così sentenza d’appello, pag. 4); che invero il divieto ex art. 345 c.p.c. non era destinato ad operare con riferimento alle prove documentali e comunque che l’atto del (OMISSIS) costituiva documento indispensabile ai fini della decisione.

Evidenziava conseguentemente che l’originaria attrice doveva reputarsi legittimata ad agire con riferimento alla bottega in (OMISSIS)170, particella 482, sub 7(OMISSIS), giacchè il proprio dante causa alla stregua del rogito in data (OMISSIS) ne aveva acquistato la piena proprietà; che in ogni caso Ca.Ma.Cl., seppur fosse stata titolare in via esclusiva del diritto di enfiteusi, aveva diritto di rivendicare l’acquisto della servitù a titolo originario o derivativo.

Evidenziava ulteriormente la corte – in ordine al terzo motivo dell’appello principale con cui si era censurato il primo dictum nella parte in cui aveva disconosciuto l’intervenuto acquisto a titolo originario a carico del cortile interno, “piccolo” e “grande”, della servitù di passaggio pedonale e carrabile a favore del cespite in catasto al foglio (OMISSIS), e della servitù di passaggio carrabile a favore del cespite in catasto al foglio (OMISSIS) – che “la carraia ha sempre consentito il passaggio di mezzi di ampia dimensione forniti di ruote e che tali veicoli erano diretti anche alla bottega ed al magazzino in questione, forniti di porte di accesso al cortile, all’evidenza necessarie per consentire il carico e scarico di merci e combustibili (…)” (così sentenza d’appello, pag. 6); che non valeva a smentire tale conclusione la circostanza che una delle porte di accesso al locale annesso al forno fosse preceduta da un’ampia piattaforma e da una scalinata con cinque gradini, che la porta della legnaia fosse collegata al piano del cortile da una piccola rampa e che la porta della “caciara” fosse preceduta da una scala di tredici gradini, comunque ampi a sufficienza da consentire il carico ed il deposito delle merci; che al contempo l’esercizio della servitù a favore dell’immobile adibito a bottega e dell’immobile adibito a magazzino, corrispondente alla “caciara”, rinveniva riscontro nei contratti di affitto all’uopo depositati e susseguitisi per l’uno e l’altro locale a decorrere, rispettivamente, dal 1937 e dal 1968; che del resto l’esistenza delle servitù rinveniva attestazione, in chiave ricognitiva, negli atti di vendita del (OMISSIS).

Evidenziava infine la corte che era da respingere la domanda di garanzia svolta dai coniugi C. – T. nei confronti di Ca.Gi.; che infatti negli atti per notar S. del (OMISSIS), con cui Ca.Gi. aveva alienato a C.L. e a T.M.T. i cortili interni, “piccolo” e “grande”, era chiaramente indicata l’esistenza delle servitù.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso T.M.T., in proprio e quale erede di C.L.; ne ha chiesto sulla scorta di sette motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese.

Ca.Ma.Cl. ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile ovvero rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.

Ca.Gi. del pari ha depositato controricorso; ha chiesto rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. e la nullità del procedimento in ordine all’ammissibilità di nuovi documenti in appello ed in ordine alla distinzione tra prove costituende e costituite.

Deduce che l’actio confessoria può essere esperita unicamente dal proprietario, mentre l’attrice aveva espressamente allegato di esser titolare del dominio utile.

Deduce che in epoca antecedente alla novella di cui alla L. n. 69 del 2009 il divieto di nuove prove in appello operava anche con riferimento alle prove documentali, cosiddette “precostituite”.

Deduce che la corte di merito ha ammesso la produzione del rogito Si. del (OMISSIS) senza il supporto di alcuna motivazione, nè ha “esaminato la questione della sussistenza di un’eventuale causa non imputabile alla parte, peraltro neppure dedotta e nel caso di specie inesistente” (così ricorso, pag. 35).

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. sul punto del giudizio di indispensabilità di un documento e la nullità del procedimento; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la insufficienza della motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Deduce che la corte distrettuale per nulla ha dato conto dell’affermata indispensabilità dell’ammissione dell’atto notarile del (OMISSIS); che in parte qua la motivazione è del tutto insufficiente.

Deduce che il documento ammesso in seconde cure “risulta formato in epoca addirittura precedente alla introduzione del giudizio di primo grado e parte attrice ben poteva produrlo già in quella fase processuale” (così ricorso, pag. 38); che dunque non sussiste l’estremo della indispensabilità.

Deduce che in parte qua la sentenza impugnata è volta esclusivamente a supplire alla inerzia probatoria di parte attrice.

Deduce che pur in appello l’originaria attrice ha dedotto di essere titolare del dominio utile, cosicchè al cospetto di siffatta specifica allegazione di parte avversa la corte territoriale avrebbe dovuto di certo disconoscere l’indispensabilità del documento attestante l’avvenuta affrancazione del fondo.

Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono strettamente connessi.

Se ne giustifica perciò la disamina contestuale.

Ambedue i motivi comunque sono destituiti di fondamento.

Si osserva che ai sensi dell’art. 1078 c.c. l’enfiteuta è senz’altro abilitato a costituire servitù in favore del fondo oggetto del suo dominio utile.

Di conseguenza l’enfiteuta è senz’altro legittimato ad agire in confessoria servitutis, onde “farne riconoscere in giudizio l’esistenza”. D’altronde la legittimazione dell’enfiteuta all’actio ex art. 1079 c.c. si giustifica appieno in applicazione analogica della previsione dell’art. 1012 c.c., comma 2, a tenor del quale “l’usufruttuario può far riconoscere l’esistenza delle servitù a favore del fondo”.

Evidentemente il riscontro della legittimazione ad agire di Ca.Ma.Cl. in qualità di mera titolare del dominio utile, assorbe ogni aggiuntiva ragione di censura veicolata dai motivi de quibus.

In ogni caso – nel quadro del disposto dell’art. 345 c.p.c. nella formulazione applicabile ratione temporis ovvero nella formulazione antecedente alla novella di cui alla L. n. 69 del 2009 (nel caso di specie il giudizio d’appello è stato introdotto nel 2003) – la produzione in appello dell’atto notarile in data (OMISSIS), con cui ca.gi., dante causa dell’originaria attrice, ebbe ad affrancare il bene oggetto del suo diritto reale parziario, doveva reputarsi sicuramente ammissibile alla luce dell’insegnamento di questa Corte a tenor del quale il nuovo documento si qualifica indispensabile, allorchè è di per sè sufficiente a provare il fatto controverso a prescindere da tutte le altre fonti di prova (cfr. Cass. 29.5.2013, n. 13432).

Difatti il rogito Si. del (OMISSIS) era ed è indiscutibilmente di per sè sufficiente a dar ragione della legittimazione ad agire di Ca.Ma.Cl. anche quale proprietaria della bottega in (OMISSIS) (in catasto al foglio (OMISSIS))

D’altro canto l’indispensabilità in appello della nuova produzione documentale si giustifica viepiù nel segno dell’applicazione analogica dell’art. 1012 c.c., comma 2, il cui ultimo inciso – “egli deve in questi casi chiamare in giudizio il proprietario” – induce a qualificare come litisconsorte necessario il nudo proprietario ed, analogicamente, il titolare del dominio diretto.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1061 c.c. e la contraddittorietà della motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio circa l’apparenza della servitù di passaggio.

Deduce che la corte romana ha con motivazione illogica e contraddittoria ritenuto “sussistente il requisito della apparenza con riferimento alle pretese servitù di passaggio pedonali e carrabili in favore dei fondi dell’attrice” (così ricorso, pag. 42).

Deduce segnatamente che le porte di accesso ai locali, “fondi dominanti”, non sono carrabili, perchè consentono esclusivamente l’ingresso pedonale, così come si evince dalle fotografie allegate alla relazione di c.t.u..

Deduce altresì, con riferimento alla porta carraia che dalla via pubblica dà accesso al cortile “grande”, che la corte d’appello non ha provveduto a riscontrare, siccome sarebbe stato necessario allorchè le opere visibili ricadono unicamente nel fondo servente, la sussistenza di “un segno di raccordo almeno funzionale (…) con il fondo dominante” (così ricorso, pag. 45).

Deduce inoltre che il portone d’ingresso al cortile, con accesso alla pubblica via, non appare opera “idonea a rilevare in maniera non equivoca l’esistenza di una servitù di passo carrabile in favore dei locali (…) in uso all’attrice” (così ricorso, pag. 46); che invero il portone di ingresso al cortile, che dà accesso alla pubblica via, “veniva e viene utilizzato dallo stesso proprietario del fondo servente, (…), essendo così necessario un quid pluris (…)” (così ricorso, pag. 46).

Deduce ancora che “sicuramente indizio di segno contrario è l’assenza di maniglie esterne per l’apertura delle porte dal lato del cortile, come è evidente dalla foto n. 18 allegata alla c.t.u. (…)” (così ricorso, pagg. 46 – 47).

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1051 c.c. e l’omessa motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo del giudizio circa i limiti della servitù di passaggio.

Deduce che la corte di merito per nulla ha esplicitato le ragioni per le quali ha “ritenuto di poter riconoscere l’esistenza di una servitù di passaggio carrabile in favore di due distinti locali (la ex caciara e la bottega del fornaio) all’interno dei quali non è in alcun modo possibile accedere con gli automezzi, come risulta evidente dalle foto allegate alla perizia di ufficio” (così ricorso, pag. 48); che i pretesi fondi dominanti sono locali raggiungibili soltanto a piedi.

Il terzo ed il quarto motivo di ricorso del pari sono significativamente correlati.

Ne è opportuno quindi l’esame simultaneo.

Entrambi i motivi comunque sono privi di fondamento.

Si premette che i motivi de quibus si qualificano esclusivamente in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Occorre tener conto, da un lato, che T.M.T. con tali mezzi di impugnazione censura sostanzialmente il giudizio “di fatto” cui la corte distrettuale ha atteso (“occorreva verificare l’esistenza in loco di opere visibili e permanenti idonee a consentire l’acquisto per usucapione della servitù così definita apparente”: così ricorso, pag. 44; la corte romana ha “erroneamente ritenuto di valorizzare le porte pedonali dei fondi serventi come opere visibili dimostrative della servitù di passaggio carrabile”: così ricorso, pag. 45).

Occorre tener conto, dall’altro, che è propriamente il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499).

Su tale scorta si rappresenta, per un verso, che l’accertamento dell’apparenza di una determinata servitù in relazione al dedotto acquisto di essa per usucapione costituisce apprezzamento di fatto che, se congruamente e correttamente motivato, non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità (cfr. Cass. 31.7.1981, n. 4883; Cass. 26.6.2001, n. 8736, secondo cui ogni questione circa la sussistenza delle opere visibili e la loro idoneità a dimostrare univocamente e senza incertezze la preordinazione all’utilità del fondo dominante costituisce apprezzamento di fatto, demandato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se congruamente e correttamente motivato); per altro verso, che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Nei termini testè enunciati l’iter motivazionale che sorregge, in parte qua agitur, il dictum della corte territoriale risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo e esaustivo sul piano logico – formale.

Più esattamente la corte d’appello ha vagliato nel complesso – non ha dunque obliterato la disamina di punti decisivi – e dipoi ha in maniera inappuntabile selezionato il materiale probatorio cui ha inteso ancorare il suo dictum (“esistono pertanto già in atti gli elementi necessari (…) per dichiarare (…)”: così sentenza d’appello, pag. 7), altresì palesando in forma nitida e coerente il percorso decisorio seguito (“la porta carraia, esistente da tempo immemorabile, e le porte di accesso al magazzino e alla bottega di fornaio, che da moltissimi anni (ben prima del 1934, anno della divisione) affacciano sul cortile, costituiscono opere visibili e permanenti che manifestano l’esistenza della servitù, anche con carretti (prima) ed autovetture (oggi)”: così sentenza d’appello, pag. 6; “che poi si tratti di servitù di passaggio anche carrabile, discende dalla natura dell’accesso carrabile e dalla destinazione dei negozi, ad uso commerciale, con evidente necessità di far accedere mezzi semoventi di una certa dimensione per il trasporto e lo stoccaggio delle merci”: così sentenza d’appello, pag. 7).

D’altro canto, ai fini della sussistenza del requisito dell’apparenza, necessario per l’acquisto di una servitù per usucapione (o per destinazione del padre di famiglia), si richiede la presenza di segni visibili, cioè di opere di natura permanente, obiettivamente destinate all’esercizio della servitù medesima, che rivelino, per la loro struttura e funzione, in maniera inequivoca, l’esistenza del peso gravante sul fondo servente, mentre non è necessario che dette opere insistano su di esso, essendo sufficiente, ove esse si trovino sul fondo dominante, che siano visibili dal fondo servente in modo che possa presumersene la conoscenza da parte del proprietario di quest’ultimo (cfr. Cass. 21.7.1989, n. 3472; Cass. 26.11.2004, n. 22290).

D’altronde, ben può un varco nella recinzione di un fondo considerarsi opera visibile e permanente di una servitù di passaggio sempre che, per le sue caratteristiche, risulti destinato a permettere l’accesso al fondo dominante (cfr. Cass. 9.5.1977, n. 1798).

Al contempo è innegabile che il passaggio pedonale ed il passaggio carrabile costituiscono servitù distinte ed autonome, sicchè dall’esistenza della prima non può desumersi l’esistenza della seconda, (cfr. Cass. 30.3.2000, n. 3906).

E tuttavia è da disconoscere che la corte di merito abbia attribuito “alla costituita servitù di passo carraio l’ulteriore contenuto atipico della sosta dei mezzi lungo la strada” (così ricorso, pag. 49).

Infatti la circostanza che la servitù di passaggio carrabile fosse suscettibile di esercizio sino al limitare della piattaforma, delle scale e della rampa che precedono le porte di accesso pedonale ai locali dell’originaria attrice, non vale ad escludere la sussistenza della stessa servitù nei termini in cui concretamente è stata esercitata.

Del resto il contenuto e l’estensione di una servitù acquistata per usucapione sono delimitati dall’estensione del possesso, così come condizionato dallo stato dei luoghi, in base al quale si è determinata la usucapione (cfr. Cass. 28.1.1983, n. 804; Cass. 11.6.2010, n. 14088, secondo cui il possesso è criterio idoneo per stabilire il contenuto delle servitù acquistate per usucapione).

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio riguardante l’insussistenza di un possesso valido all’acquisto a titolo originario del passaggio pedonale e carrabile sul cortile “grande”.

Deduce che la corte distrettuale non ha valutato “il giudicato formatosi con la sentenza n. 9/2006 del Tribunale di Viterbo, pronunciata inter partes, avente ad oggetto il merito possessorio nel giudizio (…) instaurato a seguito di ricorso ex art. 703 c.p.c. promosso dall’attrice Ca.Ma.Cl.” (così ricorso, pag. 50) nei confronti suoi e del coniuge.

Deduce che la sentenza suindicata è stata da ella depositata nel corso del giudizio di appello nella prima difesa successiva al suo passaggio in giudicato; che dunque la relativa produzione è certamente ammissibile, giacchè non era possibile attendervi in precedenza.

Deduce che la sentenza n. 9/2006 del tribunale di Viterbo, pronunciata inter partes, ha respinto il ricorso possessorio esperito dalla controparte e ha disconosciuto in capo a Ca.Ma.Cl. il possesso di una servitù di passaggio carrabile e pedonale attraverso il cortile “grande” ed a favore del locale adibito a bottega in (OMISSIS) (in catasto al foglio (OMISSIS)).

Deduce quindi che la sentenza n. 9/2006 fa stato ad ogni effetto tra le parti ai sensi dell’art. 2909 c.c..

Il quinto motivo non merita seguito.

E’ sufficiente reiterare gli insegnamenti di questo Giudice del diritto.

Ovvero l’insegnamento a tenor del quale nel giudizio possessorio l’accoglimento della domanda prescinde dall’accertamento della legittimità del possesso, perchè è finalizzato a dare tutela ad una mera situazione di fatto avente i caratteri esteriori della proprietà o di un altro diritto reale; cosicchè il giudicato formatosi sulla domanda possessoria è privo di efficacia nel giudizio petitorio avente ad oggetto l’accertamento dell’avvenuto acquisto del predetto diritto per usucapione, in quanto il possesso utile ad usucapire deve avere requisiti che non vengono in rilievo nei giudizi possessori (cfr. Cass. 5.10.2009, n. 21233).

Ovvero l’insegnamento a tenor del quale le azioni proposte, rispettivamente, in sede possessoria e petitoria, pur nell’eventuale identità soggettiva sono caratterizzate dall’assoluta diversità degli altri elementi costitutivi (causa “petendi” e “petitum”); cosicchè nel giudizio petitorio non possono essere invocati i provvedimenti emessi in sede possessoria, nè le argomentazioni e le circostanze risultanti dalla sentenza che ha definito quel giudizio, giacchè queste ultime hanno rilievo solo in quanto si trovino in connessione logica e causale con la decisione in sede possessoria, e perciò, lasciando impregiudicata ogni questione, sulla legittimità della situazione oggetto della tutela possessoria, non possono influire sull’esito del giudizio petitorio (Cass. 20.7.1999, n. 7747).

Con il sesto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1158 c.c. e contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo del giudizio in ordine alla prova del possesso; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 e 1142 c.c..

Deduce che la corte territoriale ha riscontrato il possesso ad usucapionem in maniera illogica e contraddittoria; che gli atti che la corte di Roma ha menzionato, ovvero il contratto di locazione del (OMISSIS), il verbale di consegna del (OMISSIS), il verbale di consegna del (OMISSIS), “non affermano affatto quello che si legge in sentenza e vanno inoltre interpretati nel loro complesso” (così ricorso, pag. 57); che “i documenti valorizzati dalla Corte di Appello come prova del possesso erano e rimangono atti di autonomia privata intercorsi tra (…) ca.gi. (…) ed i suoi affittuari, che mai venivano esternalizzati, tanto meno nei confronti dei precedenti proprietari dei cortili” (così ricorso, pagg. 57 – 58).

Con il settimo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1371 c.c. e contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo del giudizio in ordine alla interpretazione dei contratti di compravendita.

Deduce che la corte di merito ha errato allorchè ha respinto l’appello incidentale da ella e dal coniuge esperito nei confronti di Ca.Gi..

Deduce in particolare che la corretta interpretazione degli atti notarili del (OMISSIS) e la natura dello stato dei luoghi “doveva portare la Corte ad escludere che nei contratti medesimi vi fosse una chiara menzione dell’esistenza delle servitù di passaggio carrabili” (così ricorso, pag. 64).

Il sesto ed il settimo motivo di ricorso sono strettamente connessi.

Il che ne suggerisce la disamina congiunta.

L’uno e l’altro motivo in ogni modo vanno respinti.

Si rappresenta previamente che in ossequio al canone di cosiddetta “autosufficienza” del ricorso per cassazione, quale positivamente sancito all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, ben avrebbe dovuto la ricorrente, onde consentire a questa Corte il compiuto riscontro dei propri assunti, riprodurre più o meno integralmente nel corpo del ricorso il testo del contratto di locazione del (OMISSIS), del verbale di consegna del (OMISSIS), del verbale di consegna del (OMISSIS) e degli atti per notar S. del (OMISSIS) e non già limitarsi a trascriverne singoli stralci (cfr. Cass. 20.1.2006, n. 1113, secondo cui il ricorso per cassazione – in forza del principio di cosiddetta “autosufficienza” – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed altresì a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito).

E ciò tanto più, da un canto, che la controricorrente Ca.Ma.Cl., con riferimento ai documenti del (OMISSIS) e del (OMISSIS), ha dedotto che è “censurabile la ricostruzione parziale di controparte, che si è ben guardata dal citare, nel proprio ricorso, le parti dei documenti che attestavano incontrovertibilmente il passaggio attraverso il cortile di (OMISSIS) Ca. e l’accesso dalla porta carraia di (OMISSIS)” (così controricorso di Ca.Ma.Cl., pag. 33). Dall’altro, che la controricorrente Ca.Gi. ha dedotto che le servitù sono richiamate nei rogiti del (OMISSIS) (cfr. controricorso di Ca.Gi., pag. 7).

Si rappresenta altresì che l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione (cfr. Cass. 22.2.2007, n. 4178; cfr. Cass. 2.5.2006, n. 10131).

Si rappresenta ancora che nè la censura ex n. 3 nè la censura ex n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 possono risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione; d’altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, sotto entrambi i cennati profili, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (cfr. Cass. 22.2.2007, n. 4178; cfr. Cass. 2.5.2006, n. 10131).

All’insegna delle enunciate indicazioni nomofilattiche l’interpretazione patrocinata dalla corte distrettuale è in toto inappuntabile, giacchè del tutto congrua ed esaustiva e condotta in pieno ossequio al prioritario canone ermeneutico di cui all’art. 1362 c.c..

Si rappresenta in ogni caso che i mezzi di impugnazione in esame si traducono, in sostanza, nella prospettazione della maggiore plausibilità dell’interpretazione di segno contrario (“(…) mentre i documenti nulla dicono al riguardo”: così ricorso, pag. 59; “null’altro si legge nell’atto di acquisto in merito alla servitù di passaggio, di talchè non è affatto evidente, come ha affermato la Corte di Appello, che (…)”: così ricorso, pag. 62).

Ed in pari tempo, in ordine al rilievo della ricorrente secondo cui “la Corte di merito (…) solo da tali documenti, senza il contributo di alcuna prova orale (…) ha ritenuto raggiunta la prova del possesso ultraventennale” (così ricorso, pag. 58), che siffatta deduzione involge gli aspetti del giudizio – interni al discrezionale ambito di valutazione degli elementi di prova e di apprezzamento dei fatti – afferenti al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di siffatto convincimento rilevanti nel segno dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Sicchè tale prospettazione si risolve in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento, in parte qua agitur, di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr. Cass. 26.3.2010, n. 7394; Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789).

Si rappresenta da ultimo con riferimento ai rogiti per notar S. che questo Giudice spiega che l’estensione e la modalità di esercizio della servitù debbono essere dedotte dal titolo, tenendo conto della comune intenzione dei contraenti, da ricavarsi, peraltro, non soltanto dal tenore letterale delle espressioni usate, ma anche dallo stato dei luoghi, dall’ubicazione reciproca dei fondi e dalla loro naturale destinazione, elementi tutti formativi e caratterizzanti l’utilitas legittimante la costituzione della servitù. E soggiunge che il giudizio sulla estensione di una servitù costituisce un apprezzamento della volontà contrattuale e del modo in cui la servitù e esercitata, che si risolve in un giudizio di fatto incensurabile in Cassazione se sorretto da adeguata e corretta motivazione (cfr. Cass. 13.5.1980, n. 3148).

Nel caso de quo la motivazione della corte romana indiscutibilmente si conforma ai surriferiti parametri di adeguatezza e correttezza.

Il rigetto del ricorso giustifica la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità. La liquidazione segue come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente, T.M.T., a rimborsare alla controricorrente, Ca.Ma.Cl., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nel complesso in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali, i.v.a. e cassa come per legge; condanna la ricorrente, T.M.T., a rimborsare alla controricorrente, Ca.Gi., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nel complesso in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali, i.v.a. e cassa come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sez. seconda civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 31 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2017

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