Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10615 del 30/04/2010

Cassazione civile sez. III, 30/04/2010, (ud. 14/04/2010, dep. 30/04/2010), n.10615

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

VIAGGI & TURISMO FORTUNA SRL (OMISSIS) in persona del legale

rappresentante ROSSI ALBERTO, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

POMPEO MAGNO 2-B, presso lo studio dell’avvocato TAMIETTI PAOLO,

rappresentata e difesa dagli avvocati MEDINI ANDREA, PLACHESI PIETRO

con delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

EDILPREFABBRICATI SRL in liquidazione in persona del liquidatore pro

tempore Dott.ssa P.M. (OMISSIS), elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA RUGGERO FAURO 43, presso lo studio

dell’avvocato PETRONIO UGO, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato PINZA ROBERTO con delega in calce al controricorso;

– controrscorrente –

avverso la sentenza n. 817/2005 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

Seconda Sezione Civile, emessa il 15/07/2005, depositata il

19/07/2005; R.G.N. 60/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/04/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato ANDREA MEDINI;

udito l’Avvocato UGO PETRONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p. 1. La s.r.l. Viaggi e Turismo Fortuna, opponendosi all’intimazione di sfratto per la scadenza al 31 agosto 2000 del secondo seiennio di durata della locazione ad uso ufficio dell’immobile sito in Corso (OMISSIS) di (OMISSIS), notificatole davanti al Tribunale di Forlì dalla s.r.l. Edilprefabbricati, deduceva che la scadenza doveva essere quella del 30 aprile 2003, in quanto essa opponente deteneva sempre per uso ufficio, in forza di altro contratto di locazione stipulato con l’intimante e scadente a quella data, altro immobile contiguo nella via (OMISSIS), che era stato unito all’altro mediante abbattimento di un muro divisorio. In via riconvenzionale, assumendo che nella complessiva unità immobiliare era esercitata un’attività comportante contatti diretti con il pubblico tramite quattro impiegate, ciascuna delle quali riceveva i clienti ad una scrivania, chiedeva l’accertamento della spettanza in suo favore dell’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale per entrambi i locali.

L’opposizione alla convalida veniva abbandonata e l’intimazione convalidata, con fissazione del rilascio alla data del 14 maggio 2003, ed il Tribunale, previo mutamento del rito, disponeva la prosecuzione del giudizio sulla riconvenzionale. Nella memoria depositata in funzione del detto mutamento, la locatrice contestava di avere mai autorizzato l’abbattimento del muro divisorio e di essere mai venuta a conoscenza del mutamento di destinazione dei due immobili da uso ufficio a sedi aperte al pubblico e per tali motivi svolgeva domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 80, cui, però, rinunciava all’udienza successiva.

p. 2. Il Tribunale rigettava la domanda con gravame delle spese osservando che per entrambi i locali il contratto indicava la destinazione ad uso ufficio, intendendosi per tale l’utilizzazione per attività di amministrazione, che la conduttrice deteneva, in forza di locazione stipulata con un terzo, altro immobile al civico n. (OMISSIS) del Corso (OMISSIS) ed esso era adibito ai contatti diretti con il pubblico, e che il mutamento di destinazione operato dalla conduttrice avrebbe potuto comportare effetti ai fini della debenza dell’indennità solo dopo tre mesi dalla conoscenza avutane dalla locatrice, non spettando, invece, l’indennità a seguito di un mutamento unilaterale, mentre mancava sia la prova che vi fosse stato un accordo fra le parti sul mutamento stesso e si doveva presumere che solo all’atto del deposito della comparsa di risposta esso fosse stato conosciuto.

p. 3. La sentenza veniva appellata dalla conduttrice e la Corte d’Appello di Bologna, nella resistenza della locatrice, con sentenza del 10 ottobre 2005, rigettava l’appello con aggravio delle spese del grado.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi la Viaggi e Turismo Fortuna.

Ha resistito con controricorso la Edilprefabbricati, che ha anche depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “erronea interpretazione del contratto nella parte in cui la Corte di Appello di Bologna ha considerato l’espressone “uso ufficio” in relazione all’attività da esercitarsi negli immobili locati quale attività volta a finalità organizzativa/contabile interna, piuttosto che come attività di contatto con un pubblico di clienti – erronea applicazione degli artt. 1362, 1363, 1364, 1365, 1366, 1360 e 1371 c.c., correlato alla L. n. 392 del 1978, art. 34, in rapporto all’art. 360 c.p.c., n. 3″.

Vi si critica la motivazione della sentenza impugnata in questo punto: “L’assunto della pretesa genericità dell’espressione “uso ufficio” risulta destituito dal benchè minimo fondamento sotto il profilo logico, oltre che dal punto di vista lessicale, per il quale una attività di ufficio, non ulteriormente qualificata, deve intendersi come attività volta a finalità organizzative/contabili, piuttosto che come attività di contatto con un pubblico di clienti e di consumatori”. La critica è svolta osservandosi che la Corte territoriale avrebbe “forzato un pò il senso della espressione “uso ufficio”, che essa non figurerebbe nel dizionario “Il Nuovo Zingarelli”, che riporta le due parole in modo distinto, che ivi l’ufficio viene così definito: “in una azienda pubblica o privata, complesso di funzioni aziendali omogenee, per lo più raggruppate in un unico settore della stessa” ed anche come “complesso di impiegati che svolgono una determinata attività nell’ambito della azienda e sede in cui lavorano”. Da tanto si desume che la spiegazione data dalla Corte bolognese all’espressione non sarebbe fondata sul piano lessicale e non sarebbe corretta sul piano logico là dove l’ha riferito ad un’attività volta a finalità organizzative/contabili interne.

Dopo queste deduzioni, l’unico riferimento alle norme evocate nell’intestazione del motivo si rinviene nell’asserto che il contratto dev’essere interpretato indagando “quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole – art. 1362 c.c.”. Segue un’esposizione che invita a mettersi nei panni dei firmatari di entrambi i contratti, ancorchè sottoscritti a distanza di quattro anni l’uno dall’altro e – sull’assunto che la locatrice aveva conoscenza che la conduttrice esercitava attività di interesse turistico, rientrante fra quelle espressamente menzionate dalla L. n. 392 del 1978, art. 34 e che ciò nonostante aveva acconsentito alla stipula dei contratti senza prevedere una deroga alla regola della L. n. 392 del 1978, art. 34 – si sostiene che se con l’espressione “uso ufficio” le parti avessero voluto indicare, come sostenuto dalla Corte d’Appello, un’adibizione all’esercizio di una attività amministrativa/contabile, avrebbero dovuto convenire espressamente che nei locali non era autorizzato il contatto diretto con il pubblico. Il motivo – pur non essendo il ricorso soggetto all’art. 366 bis c.p.c. – è concluso da un quesito di diritto che chiede se ai sensi del combinato disposto delle norme di cui si denuncia la violazione nella sua intestazione,”in un contratto di locazione che non menziona chiaramente l’uso che si intende espletare nell’immobile, si deve supplire a tale carenza facendo riferimento alla natura della attività in concreto esercitata dalla conduttrice”.

p. 1.1. Il motivo è inammissibile quanto alla dedotta violazione delle norme degli artt. 1363, 1364, 1365, 1366, 1360 e 1371 c.c., giacchè nella sua esposizione non contiene alcuna deduzione diretta evidenziare come la sentenza impugnata avrebbe violato tali norme ermeneutiche, onde all’intestazione del motivo in quanto riferita ad esse non corrisponde l’effettiva articolazione di censure su di esse fondate.

Il motivo è fondato, viceversa, quanto alla violazione dell’art. 1362 c.c., sia sotto il profilo dell’interpretazione lessicale, sia – parzialmente – sotto il profilo dell’indagine sulla comune intenzione delle parti.

Sotto il primo aspetto, la pattuizione della destinazione ad uso ufficio non può significare, come ritenuto dalla Corte territoriale, destinazione ad una “attività volta a finalità organizzative/contabili”: ciò contrasta con il comune modo di sentire l’espressione letterale “uso ufficio”, che è nel senso di comprendere il luogo in cui una persona fisica o un ente collettivo opera con il suo apparato organizzativo e si presta a comprendere sia la possibile articolazione di tale apparato che implichi, in relazione all’attività svolta dal soggetto di cui trattasi, la tenuta di un contatto diretto con il pubblico degli utenti e consumatori, sia quell’articolazione che svolga funzioni inerenti l’attività del soggetto che, essenziali per lo svolgimento della sua attività, quei contatti non comportino. In sostanza, secondo il senso comune, l’implicazione necessaria della destinazione ad uso ufficio di un immobile da parte di un soggetto è che esso dev’essere adibito ad un’attività che sia espressione dell’operare professionale (in senso lato) del soggetto, ben potendo trattarsi sia di un’attività comportante i detti contatti, sia di un’attività che non li comporti.

La Corte felsinea ha, dunque, errato nell’applicazione del criterio di esegesi letterale.

Essa ha errato anche nell’applicazione del criterio di esegesi secondo la comune intenzione delle parti al di là della lettera dell’espressione, ma l’errore riguarda solo ed ancora una volta la ricostruzione della volontà delle parti di pattuire una destinazione nel senso di una “attività volta a finalità organizzative/contabili”. Posto che il contratto venne stipulato con la qui ricorrente per un uso diverso da quello abitativo e secondo il regime della L. n. 392 del 1978, artt. 27 e ss. e, quindi, nella contemplazione dell’attività esercitata dalla conduttrice, pacificamente di interesse turistico, l’esegesi della destinazione pattuita ad “uso ufficio” si prestava a dover essere intesa come correlata all’intero ambito della gestione e dell’organizzazione funzionale a detta attività e, quindi, sia ad attività comportante contatti che ad attività non comportante contatti diretti con il pubblico.

In sostanza, il criterio teleologico di esegesi suggeriva che la posizione delle parti fosse di un consenso all’uso dell’immobile con indifferenza rispetto all’uno e all’altro tipo di utilizzazione, cioè sia ad uffici non aventi contatti sia ad uffici aventi contatti.

Entro questi limiti e solo entro questi limiti la censura appare fondata.

Non lo è, invece, là dove mira a sostenere che la contemplazione dell’essere la qui ricorrente esercente attività turistica (contemplata espressamente dalla L. n. 392 del 1978, art. 27, comma 1, n. 2) implicasse che l’intento delle parti, pattuendo l’uso ufficio fosse di prevedere una destinazione all’esercizio dell’attività della conduttrice per la parte comportante contatti diretti con il pubblico. Posto che anche un’impresa turistica svolge la sua attività sia attraverso operazioni che comportano contatti di quel genere, sia attraverso operazioni che non li comportano, la destinazione ad uso dei suoi uffici di un immobile si presta ad essere intesa, per il fatto stesso che le une e le altre possono avvenire attraverso apparati organizzativi diversamente allocati, a comprendere sia l’ipotesi di promiscuità, che quella di separazione e di esercizio solo delle une o solo delle altre.

p. 2. Con il secondo motivo si lamenta “falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 34, in rapporto all’art. 360 c.p.c., comma 3 rectius: n. 3 e conseguente omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)”.

Il motivo è inammissibile perchè nella sua esposizione – che è conclusa, del tutto inutilmente, dalla formulazione di due (pretesi) quesiti di diritto non v’è una chiara distinzione fra l’illustrazione del vizio di falsa applicazione di norma di diritto e quello di motivazione, onde risulta difficile individuare come parte ricorrente abbia inteso illustrare il primo e come abbia inteso illustrare il secondo.

Nella prima parte dell’illustrazione, dopo l’affermazione che “oggetto del contratto di cui è causa, è la locazione di immobili al fine di svolgere al loro interno attività di agenzia turistica”, che viene definita come “constatazione” che deriverebbe dalla circostanza che la ricorrente aveva preso in locazione i due immobili conseguentemente ad un notevole incremento di clientela, che non rendeva più esercitabile l’attività nei soli locali di Corso (OMISSIS), e che, come tale risulta del tutto apodittica e non individuata quanto alla sede processuale in cui sarebbe risultata, si asserisce che l’uso indicato nel contratto, cioè ad “uso ufficio” (da intendersi nel senso di attività di agenzia turistica, comprendente chiaramente anche il contatto con il pubblico, sia in vista del rilascio di biglietti di viaggio, sia di consulenza e offerte di proposte di viaggio), era circostanza nota alla locatrice, perchè la denominazione della ricorrente era eloquente circa l’attività svolta, che era anche autorizzata dall’Amministrazione Provinciale di Forlì-Cesena.

Tali assunti non sono qualificati nè come vizio di violazione della norma di diritto dell’art. 34 nè come vizio di motivazione.

In ogni caso, come s’è rilevato in chiusura dell’esame del motivo precedente non può ritenersi che una destinazione ad uso ufficio possa automaticamente intendersi come una destinazione ad un uso comportante il contatto diretto con il pubblico per il sol fatto che la conduttrice eserciti un’attività di agenzia di viaggi e turismo e che, quindi, di norma (non è da sottacere che oggigiorno ben sarebbe possibile un’attività di quella specie gestita con i clienti solo on line) implichi quei contatti: si è già detto che la genericità della destinazione suggerisce solo indifferenza del locatore per la destinazione nell’ambito dell’attività della conduttrice a quella parte comportante contatti o a quella che non li comporti. Sicchè, agli effetti della L. n. 392 del 1978, art. 35, la situazione emergente dal contratto non è quella di una destinazione ad attività comportante contatti con il pubblico, nel senso che non può ritenersi che le parti si siano rappresentate una simile destinazione come oggetto di accordo contrattuale. Onde, è il conduttore che deve provare in concreto l’adibizione a quella parte della sua attività che comporti contatti diretti con il pubblico e non ricorre la situazione per cui “In tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, il conduttore che, in seguito alla cessazione del rapporto, chieda il pagamento dell’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale non ha l’onere di provare che l’immobile era utilizzato per il contatto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori se questa circostanza derivi dalla stessa destinazione contrattuale dell’immobile (nella specie, ristorante e locanda), gravando sul locatore che eccepisce la diversa destinazione effettiva l’onere di provare tale fatto impeditivo della pretesa del conduttore, ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 2” (Cass. n. 11405 del 1992).

In una seconda parte espositiva si sostiene – ed è prospettazione che sarebbe adeguata all’onere gravate sulla ricorrente di provare la destinazione in concreto a contatti con il pubblico, autorizzata dall’indifferenza del regolamento contrattuale – che la destinazione a contatti con il pubblico sarebbe confermata da prove testimoniali, riguardo alle quali vengono però indicati solo i nomi di tre testi e non riprodotte le dichiarazioni e specificate l’udienza di assunzione e che si dicono in contrasto con la dichiarazione in senso opposto di altro teste, di cui si riproduce la dichiarazione, senza indicare anche qui l’udienza di escussione, e si sostiene la falsità.

Se questo assunto si dovesse ricondurre al vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., al di là di un’esplicita indicazione in tal senso, si profilerebbe un’ulteriore causa di inammissibilità per difetto di autosufficienza (come insegna la consolidata giurisprudenza di questa Corte: ex multis, Cass. n. 4405 del 2006).

Finita l’esposizione che fa leva nei termini indicati sulle testimonianze, si muove censura – ancora una volta senza specificarla in relazione all’intestazione duplice del motivo – al seguente passo della motivazione della sentenza impugnata: “l’assunto che nell’esercizio di un’attività finalizzata all’organizzazione di viaggi e turismo non sia possibile scindere il momento organizzativo e amministrativo da quello commerciale, di contatto con il pubblico è manifestamente privo di consistenza: basti pensare, oltre alle questioni di organizzazione ed amministrazione interna di una società con purità rectius: pluralità di dipendenti, a tutti i contatti con gli operatori economici del settore, chiaramente propedeutici alla formazione delle offerte di rivolgere successivamente alla clientela”.

La critica, peraltro, viene svolta ancora una volta pretendendo di desumere dalla considerazione della destinazione ad uso ufficio come implicante la pattuizione della destinazione alla generica attività della ricorrente e, quindi, indifferentemente alla parte di essa comportante contatti con il pubblico ed alla parte di essa non comportante quei contatti, la conseguenza dell’effettiva destinazione ai contatti, il che, invece, per quanto sopra si è osservato, avrebbe dovuto essere provato in concreto. Se anche nella detta critica si scorgesse l’enunciazione di un profilo di violazione di norma di diritto, ne sarebbe palese l’infondatezza, là dove si pretende quella implicazione.

V’è ancora la deduzione – se mal non si comprende – che l’adibizione a contatti diretti con il pubblico sarebbe stata ammessa dalla locatrice almeno per uno dei due immobili, allorquando ebbe a contestare l’arbitrarietà del mutamento di destinazione d’uso in ragione dell’abbattimento del muro divisorio, il che dovrebbe giustificare il riconoscimento dell’indennità almeno per quel locale.

Senonchè, a parte la genericità della deduzione, posto che non si indica nemmeno rispetto a quale dei due immobili sarebbe stata compiuta l’ammissione di esistenza dei contatti con il pubblico, nel passo della memoria ex art. 426 c.p.c., in cui l’ammissione sarebbe avvenuta (e che nel ricorso si riproduce) si fa riferimento, sia pure come presupposto per un’azione ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 80, all’abbattimento del muro, ma non si dice in alcun modo che uno dei due immobili aveva destinazione a contatti diretti con il pubblico. Sicchè, l’invocazione dell’art. 80, che potrebbe essere stata fatta erroneamente per il fatto dell’abbattimento del muro e della creazione di una nuova situazione delle unità immobiliari, appare elemento del tutto equivoco. Onde, se per questa parte l’illustrazione fosse da ricondurre al motivo ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., si sarebbe in presenza di un elemento del tutto privo della decisività cui alludeva l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo antecedente al D.Lgs. n. 40 del 2006.

Il fine, nell’ultima parte della illustrazione si sostiene che la Corte territoriale non avrebbe considerato che la Edilprefabbricati, sempre nella memoria ai sensi dell’art. 426 c.p.c., aveva affermato che il pubblico accedeva al civico 50 solo se accompagnato da un addetto, dopo essere entrato in contatto con l’organizzazione commerciale vera e propria della ricorrente, ubicata al civico n. (OMISSIS).

Quest’ultima deduzione, se la si potesse intendere come articolazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, sarebbe gradatamente inammissibile e inidonea ad integrare quel vizio. L’inammissibilità discenderebbe dal fatto che parte ricorrente omette di indicare se e dove nell’atto di appello l’aveva prospettata alla Corte territoriale, alla quale si imputa di non averla esaminata.

L’infondatezza emergerebbe, invece, per il fatto che la deduzione non sarebbe idonea – ed anzi lo escluderebbe – ad evidenziare che la localizzazione del civico n. (OMISSIS) svolga una diretta funzione di richiamo della clientela (si veda, ad esempio, per il locale adibito ad esposizione, nel quale la clientela venga accompagnato, Cass. n. 10598 del 2000).

p. 3. Il terzo motivo deduce “errata applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 34, in relazione all’art. 27, n. 1 e 2, che richiama la L. 12 marzo 1968, n. 326, art. 2 (art. 360 c.p.c., comma 3 (rectius: n. 3)), sotto il profilo che la Corte territoriale non avrebbe considerato che l’attività esercitata dalla ricorrente è riconducibile al n. 2 dell’art. 27.

Il motivo è manifestamente infondato, poichè il presupposto indicato dal combinato disposto della L. n. 392 del 1978, artt. 34 e 35, non è soltanto l’utilizzazione dell’immobile per una delle attività indicate nell’art. 27, ma è che tale utilizzazione comporti contatti diretti con il pubblico e tanto vale, come, del resto, s’è già rilevato a proposito del primo motivo, anche per l’attività indicata nell’art. 27, n. 2.

p. 4. li quarto motivo lamenta “omessa applicazione del principio di diritto ex artt. 92 e 306 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) in correlazione alla omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”.

Vi si critica la motivazione della sentenza impugnata anzitutto per avere affermato che “privo di pregio è anche l’ultimo motivo di appello, considerato che la rinuncia alla domanda di risoluzione del contratto ex ari. 80 L. 392/78 era stata motivata dall’avvenuto rilascio dei locali in corso di causa e certamente non poteva essere valutata a livello di soccombenza, sia pure parziale, della parte locatrice”.

Tale assunto sarebbe basato su un presupposto di fatto erroneo perchè il rilascio non era avvenuto al momento in cui il legale della resistente aveva rinunciato alla domanda ai sensi dell’art. 80 citato, essendo invece avvenuto il 14 maggio 2003, come da un verbale che si deposita come documento n. 14.

Ora, la produzione di tale documento in questa sede è inammissibile ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 1.

Tanto basta per rigettare la censura.

Si svolge, poi, a quel che sembra, una seconda censura che ha come presupposto la riconduzione della rinuncia alla domanda ai sensi dell’art. 80 citato all’ambito della rinuncia agli atti, ma la deduzione è in manifesta contraddizione con l’assunto, più volte prospettato nel ricorso, oltre che nello stesso motivo in esame, che vi sarebbe stata una rinuncia alla domanda, che è cosa diversa dalla rinuncia agli atti. La sentenza impugnata, del resto, discorre di rinuncia alla domanda. Inoltre, se vi fosse stata una rinuncia agli atti avrebbe dovuto essere dichiarata l’estinzione del giudizio di primo grado quanto ad essa.

p. 5. Il ricorso a questo punto dev’essere rigettato, nonostante la riconosciuta fondatezza della censura di violazione dell’art. 1362 c.c., cui si è proceduto in sede di scrutinio del primo motivo.

Detto riconoscimento comporta, infatti, soltanto che la motivazione sul punto della sentenza impugnata si debba intendere corretta nei termini indicati sopra in quella sede. Non comporta, viceversa, la cassazione della sentenza impugnata, in quanto il dispositivo della stessa, là dove ha rigettato l’appello e confermato la sentenza di primo grado quanto alla non spettanza dell’indennità, appare conforme a diritto.

Queste le ragioni.

L’accoglimento della censura cui si è addivenuti nell’ambito del primo motivo comporta, invero, che la situazione contrattuale quoad destinazione dell’immobile non evidenziasse – come si è detto – una destinazione ad un uso comportante contatti diritti con il pubblico, bensì, per il valore riconosciuto in precedenza all’espressione “uso ufficio”, un assenso anche ad una simile destinazione. Ne deriva che nell’economia dello svolgimento processuale sarebbe spettato alla ricorrente di dimostrare in concreto l’adibizione a contatti diretti con il pubblico, che, per quanto rilevato accogliendo la censura de qua, doveva reputarsi, se effettuata, lecita.

Si deve, infatti, rilevare che “In tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, il conduttore che, in seguito alla cessazione del rapporto, chieda il pagamento dell’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale non ha l’onere di provare che l’immobile era utilizzato per il contatto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori se questa circostanza derivi dalla stessa destinazione contrattuale dell’immobile (nella specie, ristorante e locanda), gravando sul locatore che eccepisce la diversa destinazione effettiva l’onere di provare tale fatto impeditivo della pretesa del conduttore, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., comma 2” (Cass. n. 11405 del 1992). Ex adverso, una volta che la destinazione contrattuale – cioè quella individuata dalle parti – non implichi il contatto diretto con il pubblico, bensì, nel quadro dell’attività della parte conduttrice od anche della stessa destinazione prevista dalle parti che – come nel caso di specie – possa in concreto implicare o non implicare quei contatti, compete al conduttore provare che, com’era lecito nell’economia del regolamento contrattuale, l’immobile è stato effettivamente adibito ad attività comportante quei contatti.

Ora, nella seconda parte del secondo motivo la ricorrente ha lamentato appunto che la Corte territoriale non avrebbe dato rilievo a testimonianze che avevano dimostrato l’adibizione a contatti diretti con il pubblico. Senonchè, per questa parte il secondo motivo è stato sopra dichiarato inammissibile per difetto di autosufficienza, onde, il punto della controversia relativo alla mancanza di quella dimostrazione nel corso del giudizio di merito, nell’eventuale giudizio di rinvio, cui si facesse luogo per l’accoglimento della censura di violazione dell’art. 1362 c.c., dovrebbe essere tenuto fermo, in quanto oggetto di giudicato interno formatosi per effetto della decisione di questa Corte.

Ne deriva che la cassazione della sentenza in accoglimento di tale censura si rivelerebbe inutile, perchè il giudice di rinvio dovrebbe constatare, pur applicando il principio di diritto in ordine all’esegesi della destinazione ad uso ufficio, che la prova della destinazione effettiva (e lecita) a contatti diretti con il pubblico non vi è in atti. Poichè tale constatazione è percepibile direttamente da questa Corte, si versa nella situazione per cui, all’esito dell’esame complessivo dei motivi di ricorso, il dispositivo della sentenza impugnata risulta conforme a diritto.

Per tale ragione non può farsi luogo alla cassazione della sentenza ed il ricorso, ferma l’indicata correzione della motivazione, dev’essere conclusivamente rigettato.

p. 6. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro duemilaseicento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 14 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2010

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