Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10608 del 30/04/2010

Cassazione civile sez. III, 30/04/2010, (ud. 08/04/2010, dep. 30/04/2010), n.10608

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

V.R. (OMISSIS), H.G.

(OMISSIS), H.M., H.H., H.N.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5,

presso lo studio dell’avvocato MANZI LUIGI, che li rappresenta e

difende unitamente agli avvocati THURIN STEFAN, NATZER GUNTHER giusta

delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

SARA ASSICURAZIONI SPA (OMISSIS) in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

MARTIRI DI BELFIORE 2, presso lo studio dell’avvocato ALESSI GAETANO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato BOSCAROLLI TITO

giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

P.J. (OMISSIS), G.M.

(OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 27/2005 della CORTE D’APPELLO dr TRENTO sede

distaccata di BOLZANO, emessa l’11/4/2004, depositata il 01/02/2005,

R.G.N. 52/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/04/2010 dal Consigliere Dott. ANNAMARIA AMBROSIO;

udito l’Avvocato CARLO ALBINI per delega dell’Avvocato LUIGI MANZI;

udito l’Avvocato GAETANO ALESSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio che ha concluso per l’accoglimento p.q.r. del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.1. Con sentenza in data 1-2-2005, la Corte di appello di Bolzano, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Bolzano, accertava e dichiarava che la responsabilità dell’incidente avvenuto in (OMISSIS) il (OMISSIS), in cui aveva perso la vita il pedone H.F., era da attribuire in ragione del 50% a C. M., conducente dell’autocarro investitore e per l’altro 50% al pedone stesso; condannava, quindi, G.M., in solido con P.J. e la SARA Assicurazioni s.p.a. – rispettivamente proprietaria e compagnia assicuratrice dell’autocarro – al risarcimento dei danni in favore della vedova e dei figli superstiti di H.F., in ragione del 50% delle somme già liquidate in primo grado a titolo di danno patrimoniale (ad eccezione che per il figlio H.H., già maggiorenne e non convivente all’epoca del fatto) e non patrimoniale e precisamente al pagamento delle seguenti somme: Euro 82.835,44 in favore della vedova V.R., Euro 33.012,67 in favore di H.G., Euro 42.265,41 in favore di H.N., Euro 30.000,00 per ciascuno in favore di H.H. e H.M. condannava G. M., P.J. e la SARA Assicurazioni s.p.a. al pagamento delle spese di primo grado in favore dei suddetti congiunti di H.F.;

compensava quelle di appello; confermando per il resto a sentenza impugnata.

1.2. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione V.R., H.G., H.N., H.H. e H.M. svolgendo tre motivi, illustrati anche da memoria.

Ha resistito la SARA Assicurazioni s.p.a., depositando controricorso, nonchè memoria; mentre nessuna attività difensiva è stata svolta da parte di G.M. e P.J..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia affermato il concorso di colpa del pedone nella misura del 50% omettendo qualsiasi riferimento ad “un elemento decisivo di prova acquisita” e, cioè, alla consulenza tecnica dell’ing. R., in base alla quale doveva ritenersi che “il pedone non aveva interferito in alcun modo con la traiettoria iniziale regolare dell’autocarro (…)” e che “se l’autocarro avesse proseguito nella propria direzione iniziale senza deviare verso sinistra (…) l’investimento non si sarebbe verificato”.

1.1. Il motivo è, per buona parte, inammissibile per carenza di autosufficienza ed è comunque infondato.

Sotto il primo profilo si osserva che, con il motivo all’esame, i ricorrenti lamentano il mancato apprezzamento di una relazione di c.t.u. (la quale – come è noto – non costituisce una prova vera e propria, ma un mezzo istruttorie”) riportandone solo alcuni brani, in modo tale da non consentire a questo giudice di legittimità il controllo della decisività di elementi asseritamente trascurati dai giudici di appello, controllo che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, la Corte deve essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nel ricorso, non essendo consentito sopperire alle relative lacune con indagini integrative.

Il motivo di ricorso è, comunque, infondato, dal momento che la Corte di merito ha spiegato, con motivazione adeguata, immune da vizi logici ed errori giuridici, le ragioni per le quali ha ritenuto che la causazione dell’incidente dovesse attribuirsi alla colpa concorrente del pedone.

Gli argomenti di segno contrario svolti da parte ricorrente non rivelano alcuna aporia di ragionamento o contrasto disarticolante nell’iter argomentativo seguito dai giudici di appello, il quale poggia sulla ragionata accettazione delle risultanze istruttorie quale ricostruite in sede penale (posto che la sentenza emessa ex art. 530 cpv. c.p.c., con la formula “il fatto non costituisce reato” non aveva efficacia vincolante) implicitamente, ma inequivocamente disattendendo le argomentazioni e i conclusivi rilievi esposti nella relazione di c.t.u. richiamata da parte ricorrente, attesa la loro inconciliabilità logica con la ricostruzione del sinistro operata dalla Corte territoriale.

In particolare i giudici a quibus hanno valorizzato due circostanze emergenti dalle stesse risultanze processuali già a disposizione del giudice penale (testi H. e M., perizia e rilievi dei C.C.), evidenziando: in primo luogo, l’imprudenza del pedone (peraltro soggetto di limitate sensoriali, perchè affetto da sordità bilaterale) per avere attraversato fuori delle strisce pedonali, in condizioni di scarsa visibilità, senza preventivamente accertare che la sede stradale fosse libera; in secondo luogo, l’incidenza causale di siffatto comportamento, per avere il conducente dell’autocarro sterzate a sinistra proprio al fine ad evitare l’investimento “perchè detta manovra non ci sarebbe stata “se non ci fosse stata l’improvvida presenza del pedone H. in mezzo (o quasi) alla strada”), ancorchè non fosse certo che la manovra fosse stata attuata da un conducente perfettamente attento e vigile ad ogni evenienza.

1.1.1. Deriva da ciò l’applicazione della presunzione di colpa in sede di civile con il concorso di colpa del pedone (e l’assoluzione in sede penale ex art. 530 c.p.p. con la formula del difetto di prova sull’elemento soggettivo della colpa). Invero in tema di circolazione di veicoli, e per il caso di investimento da parte di autoveicolo di pedone che attraversa la sede stradale, la presunzione di colpa del conducente investitore prevista dall’art. 2054 c.c., comma 1, non opera in contrasto con il principio della responsabilità per fatto illecito fondata sul rapporto di causalità fra evento dannoso e condotta umana, nel senso che se il conducente del veicolo investitore non ha fornito la prova idonea a vincere la suddetta presunzione, non è preclusa l’indagine da parte del giudice di merito in ordine al concorso di colpa del pedone investito. Di.

conseguenza, allorquando siano accertate, come nella specie, la pericolosità e l’imprudenza della condotta del pedone, la colpa di questo concorre a norma dell’art. 1227 c.c., comma 1, con quella presunta del conducente del veicolo investitore (Cass. civ., Sez. 3^, 31/01/2006, n. 2127).

In definitiva il primo motivo va rigettato.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 32 Cost., in relazione agli artt. 2043, 2059 e 581 c.c.) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa e contraddittoria motivazione ex art. 581 c.c..

2.1. Il motivo riguarda il punto della decisione in cui i giudici di appello – per rigettare il motivo di appello incidentale degli odierni ricorrenti, inteso ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale iure hereditatis affermano che “quattro gg di agonia sono insufficienti ad integrare quel ragionevole lasso di tempo richiesto per la maturazione del danno biologico e morale del defunto, come tale trasmissibile agli eredi”.

Parte ricorrente osserva che proprio perchè il decesso non è stato immediato, ma è maturato dopo quattro giorni di ricovero ospedaliere in condizioni di estrema sofferenza e totale inabilità – la laconica motivazione, per un verso, è inidonea a chiarire per quale motivo non sia maturato alcun danno trasmissibile agli eredi e, per altro verso, si rivela lesiva dei principi in materia di risarcimento del danno biologico e morale.

2.1. Il motivo merita accoglimento nei termini che seguono.

Come è noto le SS.UU., con quattro contestuali sentenze di contenuto identico (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 in data 11-11-2008), hanno di recente proceduto ad una rilettura in chiave costituzionale del disposto dell’art. 2059 c.c., da leggersi – non già come disciplina di un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno noi patrimoniale, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c. – bensì come norma che regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, intesa Como categoria omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie, sul presupposto dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c., e cioè: la condotta illecita, l’ingiusta lesione di interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dai titolare dell’interesse leso.

In tale prospettiva la peculiarità del danno non patrimoniale nella sua “tipicità”, avuto riguardo alla natura dell’art. 2059 c.c. di norma di rinvio ai casi previsti dalla legge (e, quindi, ai fatti costituenti, anche solo astrattamente, reato o agli altri fatti illeciti riconosciuti dal legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria. Risulta, in tal modo, superato il tradizionale concetto di danno morale soggettivo “transeunte”, integrando la sofferenza morale, in sè considerata, un pregiudizio non patrimoniale risarcibile senza ulteriori connotazioni in termini di durata.

In tale ampia accezione di danno morale risulta risarcibile anche il danno cd. tanatologico, della vittima di lesioni fisiche, che assiste lucidamente allo spegnersi dei bene della vita, in tal modo colmandosi quel vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che esclude la configurabilità del danno biologico, in caso di morte immediata, in quanto la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, incidendo sul diverso bene giuridico della vita (ex plurimis: Cass. 13,1.2006, n. 517) e lo ammette, invece, .in caso di un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto che si protrae per un tempo apprezzabile al quale lo commisura (ex plurimis: Cass. 21.7.2004, n. 13585; Cass. 21.2.2004, n. 3549). Invero – come osservato dalle SS.UU. – la sofferenza della vittima di lesioni fisiche, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine, di massima intensità, anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia (e dare luogo a danno c.d.

biologico), va risarcita quale danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

2.2. Ciò posto e precisato che il riferimento contenuto tanto nella sentenza impugnata, quanto nel motivo di ricorso – al “danno biologico e morale del defunto” deve intendersi, alla luce del (successivo) intervento delle SS.UU., come descrittivo di tutte le sofferenze fisiche e morali, che, pur in assenza di alterazioni della psiche, abbia subito il soggetto nell’intervallo tra le lesioni e la morte (in quanto tali rientranti nell’ampia accezione di danno non patrimoniale), osserva il Collegio che la succinta motivazione, sopra testualmente riportata, si limita a sottolineare solo graficamente la situazione di agonia della vittima, senza fornire alcun elemento sulle condizioni di lucidità o meno del soggetto e, correlativamente, sull’intensità delle sofferenze fisiche e/o psichiche dallo stesso subite. Anche il riferimento alla durata (di quattro giorni) dell’agonia – se può servire ad escludere che le sofferenze si siano tradotte in una patologia – non spiega perchè una sopravvivenza di tale durata non sia stata sufficiente a fare acquistare alla vittima il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, nell’ampia accezione sopra precisata, comprensiva vuoi delle sofferenze: fisiche subite nel l’indicato intervallo di tempo, vuoi soprattutto, di quelle psichiche, per l’attesa (se consapevole) della morte.

La sentenza impugnata va, dunque, cassata sul punto.

3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia nullità della sentenza per mancata pronuncia su una domanda (art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione agli artt. 112, 132, 161 c.p.c.). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte di appello non si. sia pronunciata sul motivo di appello incidentale con il quale si chiedeva il pagamento di interessi sulle somme riconosciute nella sentenza dei Tribunale a titolo di danno morale (ture proprio) “dal dì del dovuto, secondo i criteri indicati nella sentenza stessa per le spese vive.

3.1. Il motivo è infondato.

Invero la Corte di appello ha, sia pure in maniera succinta, motivato sul punto, evidenziando come i criteri di calcolo della rivalutazione e degli interessi adottati dai Tribunale risultavano condivisibili perchè conformi ai principi fissati dalle SS.UU. con sentenza n. 1712 del 17-12-1995.

Ciò posto, per infirmare sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa tale motivazione, era necessario che la parte allegasse le critiche svolte innanzi ai giudici a quibus, al fine di dimostrare che i principi (correttamente) richiamati non avevano avuto applicazione nel caso di specie.

il terzo motivo di ricorso va, dunque, rigettato.

4. In definitiva il ricorso va accolto limitatamente al secondo motivo; ciò comporta la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e il rinvio ad altro giudice di appello – individuato nella Corte di appello di Trento – che deciderà sul punto, avuto riguardo ai principi richiamati sub 2.1. e considerate le carenze motivazionali evidenziate sub 2.2.

Il giudice del rinvio provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo e il terzo motivo di ricorso; accoglie il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata In relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Trento.

Così deciso in Roma, il 8 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2010

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