Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10605 del 30/04/2010

Cassazione civile sez. III, 30/04/2010, (ud. 05/03/2010, dep. 30/04/2010), n.10605

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA ARENULA 29, presso lo studio dell’avvocato ASCOLI LUCIANO,

che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CAPPELLI

ROBERTO, CASABIANCA SERGIO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.G. (OMISSIS), CE.GI.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEL

VIMINALE 43, presso lo studio dell’avvocato LORENZONI FABIO, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GRIGNOLIO FRANCESCO

giusta delega a margine del controricorso;

IMPRESA EDILE MONGARDI ELIO DI MONGARDI PAOLO & C S.A.S. in

persona

del suo legale rappresentante pro tempore Sig. M.P.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CICERONE 49, presso lo studio

dell’avvocato BERNARDINI SVEVA, rappresentato e difeso dagli avvocati

CONTI FILIPPO giusta delega in calce al controricorso, PRASTARO

ERMANNO giusta procura speciale del Dott. Notaio MASSIMO GARGIULO in

FAENZA 3/3/2010, rep. n. 141470;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1448/2005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, 1^

SEZIONE CIVILE, emessa il 29/4/2005, depositata il 17/10/2005, R.G.N.

322/A/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/03/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato LUCIANO ASCOLI;

udito l’Avvocato ERMANNO PRASTARO;

udito l’Avvocato GUIDO MELONI per delega dell’Avvocato LORENZONI

FABIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio che ha concluso per il rigetto.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p. 1. Nel luglio del 1985 C.G. e Ce.Gi.

convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Firenze M. M., e, sulla premessa di essere proprietari ciascuno di un appartamento al piano primo di un fabbricato sito in Borgo S. Lorenzo, deducevano che nel maggio del 1984 il M., proprietario dell’immobile sottostante i loro appartamenti e sito al piano terra dello stesso edificio, aveva iniziato lavori di ristrutturazione, che si erano concretati nella demolizione di pareti divisorie ed avevano cagionato gravi danni ai loro sovrastanti appartamenti. Di tali danni – riguardo ai quali era stato anche esperito un accertamento tecnico preventivo – chiedevano la condanna del convenuto al risarcimento.

Si costituiva il M., assumendo che i lavori erano stati appaltati all’impresa edile Mongardi Elio di Mongardi Paolo & c. s.a.s., di cui chiedeva ed otteneva la chiamata in causa per esserne manlevato. Detta impresa si costituiva e resisteva alla domanda, eccependo: che non era dimostrata l’esistenza dei nesso causale tra i lavori ed i danni; che, comunque, difettava una sua condotta colposa nell’esecuzione degli stessi; che, semmai, l’origine dei danni andava ricercata in carenze costruttive strutturali del solaio del primo piano, delle quali doveva rispondere proprio il convenuto; che – suo dire – era stato costruttore e progettista dell’immobile e, quindi, aveva perfetta conoscenza della situazione, ed era stato, d’altro canto, l’autore del progetto di variante relativo ai lavori appaltati ed eseguiti da essa deducente.

Il Tribunale, all’esito dell’istruzione, che aveva luogo anche con l’espletamento di una consulenza tecnica volta ad individuare le cause dei danni, con sentenza del giugno 1995, rigettava la domanda (tra l’altro escludendo anche una responsabilità del M. quale costruttore e progettista dell’immobile, per non essere state tali qualità dimostrate).

Sull’appello degli attori e la resistenza del M. e della chiamata in causa, la Corte di appello di Firenze, con sentenza depositata del luglio 1999, rigettava l’appello. Riteneva la Corte di appello (sostanzialmente confermando le valutazioni espresse dal primo giudice), che, come emergeva dalla consulenza tecnica d’ufficio, la demolizione dei tramezzi, in una struttura di cemento armato era tecnicamente possibile, senza provocare danni; che nella fattispecie i danni si erano verificati perchè nella costruzione dell’edificio, avvenuta nel 1971, il costruttore dell’epoca aveva realizzato le travi in cemento armato. con una campata maggiore rispetto a quella progettata, essendo stati i pilastri di sostegno delle travi realizzati con una luce di metri 5,40 anzichè di metri 4,40, per cui le stesse travi sopportavano una maggiore flessibilità, in ragione della quale i muri divisori erano venuti ad assumere una funzione vicaria delle strutture portanti; che tale vizio di costruzione era occulto, per cui nè il convenuto nè l’appaltatrice avrebbero potuto rendersene conto, con conseguente mancanza di un loro comportamento colpevole; che il danno subito dagli attori era, pertanto, da ascriversi al caso fortuito costituito dal fatto del terzo costruttore nella realizzazione delle travi in cemento armato, poichè esse erano poste su pilastri posizionati a distanza maggiore rispetto al progetto.

p. 2. Avverso quella sentenza gli attori proponevano ricorso per cassazione, al quale resistevano con separati controricorsi il M., che svolgeva, altresì, ricorso incidentale condizionato contro la chiamata in causa, nonchè quest’ultima.

Questa Corte, con sentenza n. 12219 del 28 agosto 2003, dopo avere considerato corretto l’inquadramento della fattispecie sotto la norma dell’art. 2051 c.c., operato dalla sentenza impugnata e condiviso dalle parti, accoglieva il ricorso principale quanto al primo motivo, con cui si era dedotto che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto esistente il caso fortuito per il fatto che il danno era stato provocato da un vizio occulto delle travi del solaio, verificatosi nel corso della sua costruzione ed integrante un’anomalia originaria delle strutture portanti, come tale estranea agli obblighi di vigilanza del custode. In particolare, questa Corte affermava che, ai fini della responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c., il vizio di costruzione della cosa in custodia, anche se ascrivibile al terzo costruttore, non esclude la responsabilità del custode e particolarmente del proprietario-possessore nei confronti del terzo danneggiato, non costituendo caso fortuito, che interrompe il nesso eziologico e ciò indipendentemente dall’eventuale responsabilità del terzo (punto 7.2. della sentenza). La sentenza impugnata è stata, dunque, cassata con rinvio, dichiarandosi assorbito l’ulteriore motivo (dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), mentre il ricorso incidentale condizionato è stato dichiarato inammissibile per difetto di interesse sul riflesso che sulla domanda di manleva, dei cui presupposti la ricorrente incidentale contestava la chiamata, non si era provveduto per il rigetto della domanda principale, mentre la cassazione con rinvio lasciava intatta la possibilità che all’esito il giudice di rinvio si pronunciasse.

p. 3. Il giudizio veniva riassunto dagli attori davanti alla Corte d’Appello di Firenze, la quale nella resistenza delle altre due parti, con sentenza del 17 ottobre 2005, in riforma della sentenza di primo grado accoglieva la domanda risarcitoria quanto alla spesa necessaria per l’eliminazione dei danni subiti dagli appartamenti degli attori, mentre la rigettava quanto al danno per la svalutazione commerciale degli stessi e per la limitazione di godimento durante le opere di ripristino. Inoltre, rigettava la domanda di manleva del M. verso l’impresa appaltatrice.

p. 3.1. Contro questa sentenza il M. ha proposto ricorso per cassazione che è sostanzialmente articolato, nonostante la non chiara veste grafica, su tre motivi, il primo afferente alla statuizione a favore degli originali attori, il secondo ed il terzo prospettati contro l’impresa appaltatrice.

Gli intimati hanno resistito con separati controricorsi.

I resistenti C. e Ce. hanno anche presentato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 1. Con il primo complesso motivo si deduce: “Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia: con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5. Violazione o falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. e dell’art. 1125 c.c.: con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., ed ancora omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia: con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Violazione o falsa applicazione dell’art. 394 c.p.c.: con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Il motivo sostiene che, nell’applicare il principio di diritto enunciato da questa Corte nella sentenza di cassazione con rinvio – cioè che l’esistenza del vizio occulto rappresentato dalla situazione di maggiore sottoposizione ad elasticità delle travi di sostegno in relazione al posizionamento dei pilastri non esimeva il custode dalla responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c. – la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare:

a) che, “pacifico essendo sempre stato (attesa la presunzione assoluta della comproprietà del solaio fra il proprietario della unità immobiliare del piano soprastante ed il proprietario di quella sottostante), che il C. ed il Ce. erano ciascuno comproprietari con il M. del rispettivo solaio, in coerenza con i principi di diritto enunciati dalla Suprema Corte, derivando la responsabilità ex art. 2051 c.c., oggettivamente dal rapporto di custodia della cosa che ha prodotto il danno, doveva conseguirne che, come espressamente dedotto dal M. nel giudizio di rinvio, la responsabilità per i danni prodotti in ciascuno dei due singoli appartamenti dal rispettivo solaio, doveva far capo al proprietario del quartiere soprastante, cui per tale sua qualità faceva capo la custodia del relativo solaio, quantomeno in pari misura con chi ne aveva la custodia per il fondo sottostante”;

b) che, peraltro, poichè nella specie la relazione custodiale per la quota di pertinenza del M., quale proprietario dell’immobile sottostante, era stata da lui trasferita alla ditta appaltatrice dei lavori, il giudice di rinvio avrebbe dovuto suddividere la responsabilità per il danno fra gli attori e detta impresa.

La corte di rinvio, viceversa, avrebbe del tutto omesso di considerare “l’esame della circostanza pacifica in causa relativa alla comproprietà dei solai, espressamente richiamata dall’appellato M., omettendo sul punto ogni motivazione”. Sarebbe incorsa, inoltre, nella violazione degli artt. 2051 e 1125 c.c., “atteso che il decisum della Corte di Cassazione imponeva l’esigenza di accertare chi effettivamente avesse la cosa al momento del sinistro. Sarebbe, inoltre, “incorsa nel vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione”, là dove – dopo avere rilevato che il M. non aveva dimostrato, come imposto dal principio di diritto affermato dalla sentenza di rinvio, (non già la sua assenza di colpa, bensì) l’esistenza di un fattore causale esterno alla dinamica della cosa come determinativo dei danni, sì da eliminare il nesso eziologico fra il vizio della cosa ed il loro verificarsi – aveva affermato la responsabilità del M. “senza che possa discutersi, trattandosi di un tema di indagine completamente nuovo, e per di più non specificamente richiesto in sede di conclusioni, l’eventuale concorso dei danneggiati ex art. 1227 c.c.”: infatti, l’eccezione di concorso di colpa dei danneggiati era stata invece formulata sin dalla comparsa di risposta avanti al Tribunale e reiterata con la comparsa di risposta in sede di rinvio.

Siffatta eccezione, integrando una conclusione presa nel giudizio di merito e non decisa dalla sentenza di rinvio, d’altro canto, non esulava dai limiti del giudizio di rinvio, siccome fissati dall’art. 394 c.c..

p. 2. Il motivo propone due distinte censure.

p. 2.1. Con la prima, che appare logicamente preliminare, si censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la sentenza impugnata, là dove avrebbe considerato come tema d’indagine “nuovo” e, peraltro, nemmeno prospettato in sede di “conclusioni”, quello dell’esistenza, ai sensi dell’art. 1227 c.c. (evidentemente del suo primo comma), di un concorso dei danneggiati nella causazione del danno, per essere gli stessi comproprietari delle travi e del relativo solaio, e, quindi, anch’essi custodi agli effetti dell’art. 2051 c.c..

p. 2.1.1. La censura appare inammissibile anzitutto perchè ciò che si lamenta – cioè che la deduzione della situazione evidenziante il detto concorso, id est la comproprietà, sarebbe stata prospettata fin dalla comparsa di costituzione in primo grado e, quindi, ribadita nella comparsa di costituzione in sede di rinvio, il che evidenzierebbe che non vi era la novità ritenuta dalla Corte territoriale – è riconducibile alla violazione di una norma del procedimento, cioè ad un errore nell’individuazione del “chiesto” e, quindi, dell’art. 112 c.p.c.. Onde, la denuncia di siffatta violazione sarebbe dovuta avvenire ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e non del n. 5 di detta norma, non venendo in rilievo alcun vizio motivazionale sulla cd. quaestio facti. La censura, per come prospettata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in buona sostanza appare articolata con allegazioni inidonea a sorreggerla come tale.

p. 2.1.2. L’inammissibilità, peraltro, non cesserebbe di configurarsi anche se, nell’esercizio dei poteri di qualificazione corretta della sostanza della censura, essa si apprezzasse nei sensi ora detti. Infatti, la censura sarebbe inammissibile per difetto di autosufficienza della sua esposizione. In essa, infatti, non si riportano nè le espressioni con cui la deduzione dell’eccezione di cui si discorre sarebbe stata formulata nella comparsa di costituzione davanti al Tribunale, nè quelle con cui essa sarebbe stata ribadita nella comparsa di costituzione nel giudizio di rinvio.

Onde non si comprende come possa discorrersi di fatto pacifico, senza individuare l’allegazione con cui esso sarebbe stato introdotto e mantenuto nella controversia, atteso che un fatto pacifico ai fini di una controversia civile è pur sempre un fatto che alcuna delle parti deve avere allegato in essa, perchè è solo quando il fatto viene allegato che l’altra parte può ammetterlo direttamente ed espressamente oppure ammetterlo indirettamente attraverso l’affermazione di un fatto che lo presupponga.

Ora, è giurisprudenza consolidata di questa Corte che anche la deduzione della violazioni di norme del procedimento deve rispettare il principio di autosufficienza (in termini: ex multis, Cass. n. 12239 del 2007; n. 6361 del 2007, a proposito della denuncia dell’omessa pronuncia; n. 9076 del 2006; n. 4840 del 2006; n. 17424 del 2005; n. 6972 del 2005; n. 6225 del 2005).

p. 2.1.3. In via ulteriormente gradata, la censura sarebbe inammissibile, perchè critica una sola delle due rationes decidendi prospettate sia pure lapidariamente dalla Corte territoriale.

Infatti, quest’ultima, oltre ad avere considerato nuova la deduzione della situazione legittimante l’applicazione dell’art. 1227 c.c., ha detto che comunque nelle conclusioni non era stata prospettata.

Sarebbe stato allora onere del ricorrente censurare anche tale ratio decidendi, posto che, quand’anche la Corte territoriale avesse errato nel ritenere nuova la deduzione, il non essere stata la stessa comunque prospettata in sede di precisazione delle conclusioni sarebbe stato sufficiente a precluderne l’esame. Il ricorrente, dunque, avrebbe dovuto impugnare tale ratio e dimostrare, con opportuni riferimenti in funzione di autosufficienza dell’esposizione, che nelle conclusioni l’eccezione era stata mantenuta.

p. 2.2. Ove non sussistessero le ragioni di inammissibilità evidenziate, la censura si profilerebbe in ogni caso infondata.

Lo sarebbe sotto un primo profilo, qualora si reputasse come parrebbe suggerire l’invocazione da parte del ricorrente della presunzione di comproprietà del solaio fra il suo immobile e quelli degli attori – che il ricorrente abbia inteso prospettare che la considerazione della comproprietà del solaio dovesse comunque farsi d’ufficio da parte della Corte territoriale, quale elemento della situazione di fatto giustificativo di qualificazione in iure d’ufficio, anche senza bisogno di allegazione da parte dell’attore. Si dovrebbe, infatti, osservare che, pur dovendo condividersi il principio di diritto, secondo cui “il solaio che divide due unità abitative l’una all’altra sovrastante, ed appartenenti a diversi proprietari deve ritenersi, salva prova contraria, di proprietà comune, costituendo l’inscindibile struttura divisoria tra le due strutture immobiliari, con utilità ed uso eguale ed inseparabile per le medesime, sì che la manutenzione e ricostruzione di tutte le sue parti – e, quindi, anche delle travi che ne costituiscono la struttura portante, e non siano meramente decorative del soffitto dell’appartamento sottostante – compete in parti eguali ai due proprietari (Cass. n. 13606 del 2000; n. 3178 del 1991), la possibilità che la proprietà potesse non essere comune avrebbe precluso alla Corte territoriale di ritenerla d’ufficio comune in difetto di allegazione del ricorrente, agli effetti dell’applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1.

p. 2.3. Sotto un secondo profilo, sia che non fosse sussistita l’inammissibilità del motivo per le dette ragioni, sia che si reputasse al contrario possibile l’ora detto apprezzamento d’ufficio, l’essere il solaio fra le proprietà dell’attore e quelle dei convenuti, e segnatamente anche le travi in comproprietà fra l’uno e gli altri, se pure fosse stata situazione evidenziante l’esistenza dell’obbligo custodiale riguardo ad esso e, quindi, della astratta canalizzazione di responsabilità per il danno cagionato dall’esistenza del vizio accertato nelle fasi di merito, anche a carico degli attori, nel caso concreto non avrebbe giustificato la loro responsabilità concorrente (con il qui ricorrente) nella causazione dei danni di cui è processo.

Nella specie, infatti, occorre considerare che la sequenza causale della verificazione dei danni non si è sviluppata soltanto attraverso un dinamismo originante dal solaio, bensì attraverso la combinazione fra esso ed un evento casualmente ascrivibile, sia pure indirettamente, al ricorrente, qual è stato l’abbattimento delle pareti divisorie sottostanti. E’ stata la combinazione fra esso ed lo stato di fatto vizioso del solaio a cagionare i danni. E, se è punto rimasto accertato nelle fasi di merito – come si legge nella stessa sentenza di rinvio che il ricorrente non poteva prevedere che la rimozione avrebbe aumentato l’elasticità delle travi e del solaio proprio per il carattere occulto del vizio, questo esclude come ha rilevato detta sentenza – che il ricorrente versasse in colpa per tale rimozione, ma non lo esenta dalla responsabilità per il dinamismo innescato attraverso la rimozione nello stato del solaio:

di esso egli solo deve rispondere e non ne devono rispondere anche il C. ed il Ce., posto che essi non hanno dato alcun contributo causale con l’inerzia nell’eliminare il vizio del solaio, il quale, finchè i tramezzi non vennero rimossi, non era idoneo o non si era rivelato idoneo a cagionare danno. L’efficacia causale del vizio è stata, in sostanza determinata da un comportamento tenuto da uno dei comproprietari custodi su altra res (i tramezzi) e, pertanto, egli solo ne deve rispondere. D’altro canto, se, rispetto ai proprietari danneggiati il fatto della rimozione dei tramezzi si considera come fatto di un terzo che, come tale non li esentava dal dover vigilare sulle conseguenze rispetto alla cosa comune, questo aspetto viene in evidenza per eventualmente affermare che essi, se il dinamismo della cosa comune e, quindi, oggetto di concustodia proprio con quel terzo, abbia cagionato danno ad altri terzi, non possano sottrarsi alla responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c., nei confronti di detti terzi, perchè sono custodi anch’essi. Nel rapporto fra essi ed il concustode, viceversa, proprio l’esistenza della concustodia (del solaio e delle travi) e, quindi, del dominio sia dell’uno che degli altri sulla res ed il suo atteggiarsi nel senso della piena autonomia di esercizio, fa assumere al comportamento che il concustode ha tenuto sul suo bene con conseguente incidenza sul bene comune e, quindi, comportamento omissivo in ordine al dovere di custodia, il carattere di evento che vale a rendere ininfluente l’esistenza del dovere custodiale sul bene comune anche a carico del danneggiato, specie considerando che il comportamento che a livello della serie causale ha scatenato il dinamismo della res comune non è stato tenuto su di essa, ma su res di esclusiva pertinenza dell’altro concustode. Onde, nei rapporti fra concustodi, non è possibile che il concustode che, scatenando il dinamismo della res comune attraverso un comportamento tenuto su res di sua esclusiva pertinenza, possa pretendere di addebitare la causa all’altro concustode.

La prospettazione del ricorrente, in definitiva, sarebbe infondata in iure sulla base del seguente principio di diritto: “in presenza di uno stato di fatto della cosa, nella specie un solaio divisorio, con relative travi di sostegno, fra proprietà singolari di diversi comunisti, che si presenta potenzialmente vizioso per un difetto di costruzione, nel senso che tale stato non assicura che la res assolva in modo sicuro alla sua funzione e che, quindi, non determini danno, l’esistenza di uno stato di fatto della proprietà sottostante che, per il tramite della presenza, fin dalla costruzione dell’edificio di tramezzi cha abbiano assunto impropriamente una funzione portante vicaria rispetto a quella che avrebbero dovuto svolgere il solaio e le travi in mancanza del vizio, comporta che la rimozione dei tramezzi da parte del proprietario sottostante e la conseguente causazione di danni agli edifici sovrastanti per effetto di aumento della flessibilità delle travi, determina, in mancanza di responsabilità per colpa in tale rimozione in ragione del carattere occulto del vizio, una situazione nella quale il nesso di causalità fra lo stato del solaio e delle travi ed i danni è riferibile, agli effetti dell’art. 2051 c.c., nei rapporti fra il proprietario dell’edificio sovrastante e quello dell’edificio sottostante, soltanto a quest’ultimo e non anche quale concorrente nella custodia del solaio e delle travi al proprietario sovrastante. Ciò, perchè nella specie la relazione concustodiale (sul solaio e sulle travi) suppone che il dovere di vigilanza si eserciti autonomamente e non già congiuntamente o su parti separate della cosa oggetto della custodia”.

Il motivo, dunque, sarebbe stato infondato.

p. 4. E’ da precisare che le considerazioni che si sono venute svolgendo a proposito della infondatezza del primo motivo suppongono che esso fosse pienamente ammissibile in relazione ai limiti del giudizio di rinvio. Ed in effetti, se il fatto della situazione di comproprietà del solaio e delle travi era stato introdotto nel giudizio di merito, le ragioni della cassazione della prima sentenza di appello, là dove hanno statuito che il M. si doveva considerare, agli effetti dell’art. 2051 c.c., custode e, quindi, potenzialmente responsabile – salvo il concreto accertamento da parte del giudice di rinvio – del danno originatosi a causa del vizio di dette res anche se occulto, pur implicando l’accertamento in ture della sua posizione di custode a quegli effetti, avevano lasciato impregiudicata la questione della possibile esistenza della relazione custodiale anche nei riguardi dei danneggiati. E ciò per la ragione che l’accertamento della posizione di custode del M. non era incompatibile con il successivo accertamento dell’esistenza di quella relazione, in quanto questione introdotta all’epoca nel giudizio di merito.

Al riguardo vengono in rilievo i seguenti principi di diritto:

“La sentenza di cassazione vincola il giudice di rinvio non solo in ordine ai principi di diritto affermati, ma anche ai necessari presupposti di fatto che il principio di diritto affermato presuppone come pacifici o come già accertati definitivamente in sede di merito.

Pertanto, i limiti del giudizio di rinvio non sono soltanto quelli che derivano dal divieto di ampliare il thema decidendum, prendendo nuove conclusioni, ma altresì quelli inerenti alle preclusioni che discendono dal giudicato implicito formatosi con la sentenza di cassazione, onde neppure le questioni conoscibili di ufficio, non rilevate dalla Corte Suprema, possono in sede di rinvio essere dedotte o comunque esaminate, giacchè il loro riesame tende a porre nel nulla o a limitare gli effetti della stessa sentenza di cassazione, in contrasto col principio della loro intangibilità” (Cass. n. 14075 del 2002; 1437 del 2000; n. 1524 del 2000);

“L’efficacia preclusiva della sentenza di cassazione con rinvio vale solo con riferimento ai fatti che il principio di diritto, enunciato nella detta sentenza, presuppone come pacifici o come già accertati definitivamente in sede di merito, mentre, allorchè la cassazione avvenga per vizi di violazione di legge o per vizi relativi alla motivazione, essa non incide sul potere del giudice di rinvio, non solo di riesaminare i fatti già oggetto di discussione nelle precedenti fasi, ma anche, nei limiti in cui non si siano verificate preclusioni processuali o decadenze, di accertare nuovi fatti, da apprezzare in concorso con quelli già acquisiti (nella specie, cassata la sentenza di appello per illegittimo diniego di una prova testimoniale, il giudice di rinvio – avendo escusso uno dei due testi indicati ed essendo deceduto l’altro – aveva disposto il giuramento suppletorio). (Cass. n. 7379 del 2001; n. 4299 del 1995);

“La pronuncia di Cassazione per errore “in iudicando”, con enunciazione del principio di diritto cui il giudice di rinvio deve uniformarsi, non vincola il giudice medesimo in ordine alle circostanze che siano meramente ipotizzate, in via narrativa, da detta enunciazione, atteso che una preclusione al riesame si verifica solo con riguardo ai fatti che quel principio presupponga come pacifici o già accertati in Sede di merito (Cass. n. 2660 del 1989)”.

p. 5. Con un secondo motivo, dedotto formalmente in unione al terzo e che come esso appare riferibile soltanto alla domanda di manleva, perchè la Corte territoriale l’ha usato (o meglio l’avrebbe usato soltanto per rigettare la medesima e non anche in funzione del rigetto della domanda degli originari attori), si deduce “Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia: con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Violazione o falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c.”.

Vi si censura la sentenza impugnata quanto all’affermazione che la causa del danno riconducibile al vizio di costruzione del solaio per l’eccessiva distanza delle travi, andava “ricondotta all’operato del M. che quell’edificio aveva costruito”.

Non solo tale circostanza non sarebbe vera, in quanto dalla relazione di collaudo del 3 luglio 1972, redatta dall’Ing. S. ed allegata alla relazione di A.T.P. risultava che l’edificio era stato costruito dalla Cooperativa Alece, mentre il M. aveva eseguito, su appalto della stessa, solo lavori di rifinitura esterna, ma, inoltre, il Tribunale nella sentenza di primo grado aveva escluso che il M. fosse stato costruttore e/o progettista dell’intero edificio e, quindi, anche delle strutture in cemento annate e su detta statuizione si era formato giudicato interno, in difetto di impugnazione con l’appello.

p. 5.1. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, in quanto non riproduce il contenuto della relazione di collaudo e della sentenza di primo grado ai quali fa riferimento, nè indica se e dove in questa sede di legittimità la relazione di A.T.P. (cui sarebbe allegata quella di collaudo) e la detta sentenza siano stati prodotti (si veda, al riguardo, la cit. Cass. n. 12239 del 2007).

Comunque, l’affermazione censurata non costituisce la vera ratio decidendi della reiezione dell’azione di manleva o comunque si configura come una ratio del tutto superflua, posto che l’effettiva ragione di quella reiezione è quella criticata con il terzo motivo, di cui ora si dirà.

p. 6. Il terzo motivo denuncia “Violazione o falsa applicazione degli artt. 1655 e 1668 c.c. e dell’art. 2049 c.c. Ancora omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia: con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Si tratta di motivo infondato, in quanto non ci si preoccupa di dire perchè sarebbe infondata la valutazione della Corte di merito, là dove sostanzialmente ha detto che la rimozione dei tramezzi è stata eseguita dall’impresa appaltatrice sulla base di quanto disposto dal M. e senza alcun inadempimento o alcuna cattiva esecuzione da parte dell’impresa stessa. Che questa, nell’esecuzione, agisse in autonomia implicava che avesse la custodia del cantiere, ma non toglie che la rimozione è stata eseguita da essa come nudus minister del M..

In proposito possono essere richiamati i seguenti principi di diritto:

“L’autonomia dell’appaltatore il quale esplica la sua attività nell’esecuzione dell’opera assunta con propria organizzazione apprestandone i mezzi, nonchè curandone le modalità ed obbligandosi verso il committente a prestargli il risultato della sua opera, comporta che, di regola, l’appaltatore deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall’esecuzione dell’opera (nella specie i danni derivanti dall’esecuzione di lavori di riparazione del tetto di un edificio in condominio). Una corresponsabilità del committente può configurarsi in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti ex art. 2043 c.c., ovvero in caso di riferibilità dell’evento al committente stesso per “culpa in eligendo” per essere stata affidata l’opera ad un’impresa assolutamente inidonea ovvero quando l’appaltatore in base a patti contrattuali sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente ed abbia agito quale “nudus minister” attuandone specifiche direttive” (Cass. n. 8686 del 2000);

“In tema di appalto, il principio secondo cui l’appaltatore esplica l’attività contrattualmente prevista in piena autonomia, con propria organizzazione ed a proprio rischio, apprestando i mezzi adatti e curando le modalità esecutive per il raggiungimento del risultato, implica anche che, di regola, egli solo debba ritenersi responsabile dei danni cagionati a terzi dall’esecuzione dell’opera. Il committente, tuttavia, può essere corresponsabile eccezionalmente dei suddetti danni quando si ravvisino, a suo carico, specifiche violazioni del principio del “neminem laedere” riconducibili all’art. 2043 cod. civ. (e tale potrebbe essere il tralasciare ogni sorveglianza nella fase esecutiva nell’esercizio del potere di cui all’art. 1662 cod. civ.), ovvero quando l’evento dannoso gli sia addebitabile a titolo di “culpa in eligendo” per essere stata affidata l’opera ad impresa che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche ed organizzative per eseguirla correttamente, o ancora quando l’appaltatore, in base ai patti contrattuali o nel concreto svolgimento del contratto, sia stato un semplice esecutore di ordine del committente e privato della sua autonomia a tal punto da aver agito come “nudus minister” di questi, o infine quando il committente si sia di fatto ingerito con singole e specifiche direttive nella esecuzione del contratto o abbia concordato con l’appaltatore singole fasi o modalità esecutive dell’appalto. (Nella specie la S.C. ha confermato l’impugnata sentenza che aveva ritenuto il committente corresponsabile dei danni cagionati a terzi dall’opera appaltata, a causa del suo omesso controllo sui tempi di realizzazione e dell’accordo tra le parti nelle scelte tecniche ed operative nell’esecuzione dei lavori)” (Cass. n. 7273 del 2003).

“L’autonomia dell’appaltatore il quale esplica la sua attività nell’esecuzione dell’opera assunta con propria organizzazione apprestandone i mezzi, nonchè curandone le modalità ed obbligandosi verso il committente a prestargli il risultato della sua opera, comporta che, di regola, l’appaltatore deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall’esecuzione dell’opera (nella specie i danni subiti da un ufficiale di macchina addetto a un pontone marittimo, a causa del difettoso funzionamento di un verricello nel corso di lavori appaltati dall’Agip all’azienda proprietaria dei macchinari). Una corresponsabilità del committente può configurarsi in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti ex art. 2043 cod. civ., ovvero in caso di riferibilità dell’evento al committente stesso per “culpa in eligendo” per essere stata affidata l’opera ad un’impresa assolutamente inidonea ovvero quando l’appaltatore i base a patti contrattuali sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente ed abbia agito quale “nudus minister” attuandone specifiche direttive” (Cass. n. 7499 del 2004; n. 11478 del 2004).

p. 7. Conclusivamente il ricorso è, dunque, rigettato.

p. 8. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione ai resistenti C. e Ce. ed alla Mongardi Elio di Mongardi Paolo & c. s.a.s., delle spese del giudizio di cassazione, liquidate sia a favore dei primi che della seconda, in Euro duemila, di cui duecento per esborsi, oltre spese generai ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 5 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2010

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