Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10601 del 30/04/2010

Cassazione civile sez. III, 30/04/2010, (ud. 22/01/2010, dep. 30/04/2010), n.10601

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. PETTI Giovanni Battista – Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 31635/2005 proposto da:

DITTA CIBO ARREDA Di B.G., (OMISSIS)

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE MAZZINI 114 A, presso

lo studio dell’avvocato PASCUCCI Franco, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato BERTOLDI CORRADO con delega in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

DITTA CARLINI & PREVIERO DI CARLINI RENATO & PREVIERO

FRANCO SNC,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo

studio dell’avvocato PANARITI Benito, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato CERUTTI GIUSEPPE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1389/2005 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

Sezione Terza Civile, emessa il 39/05/2005; depositata il 11/08/2005;

R.G.N. 153/2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

22/01/2010 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAV/VGLINO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MARINELLI Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

IN FATTO

La società in nome collettivo Carlini & Previero convenne in giudizio, dinanzi al tribunale di Verona, la Gibo Arreda di B.G., chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 4 milioni 500 mila a titolo di corrispettivo di un manufatto commissionatole dalla convenuta, ma mai ritirato nè pagato.

Nella contumacia della Carlini & Previero, il giudice di primo grado accolse la domanda.

L’impugnazione proposta dalla Gibo fu rigettata dalla corte di appello di Venezia.

La sentenza è stata impugnata dall’appellante con ricorso per cassazione sorretto da 3 motivi.

Resiste con controricorso la Carlini.

Diritto

IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 145 e 160 c.p.c.); insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., in conseguenza delle quali si invoca la rimessione al giudice di primo grado ex art. 354 c.p.c..

Il motivo (che ripete pedissequamente argomentazioni già svolte dinanzi al giudice di appello) è privo di pregio.

Esso si infrange, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dalla corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto (ff.

4-5 della sentenza impugnata) che, alla luce dei documenti in atti, la notifica dell’atto introduttivo di primo grado era stata ritualmente eseguita presso la sede legale della società, legittimamente ricevuta da un soggetto preposto a tale incarico, conseguentemente portata a conoscenza certa dell’appellante B..

Trattasi di accertamenti di fatto sorretti da condivisibile ricostruzione del materiale documentale versato in atti rilevante in parte qua, corroborati da logica e congrua motivazione, come tale sottratta al vaglio di questa corte regolatrice.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’ art. 2697 c.c.; insufficiente e contraddittoria motivazione.

Lamenta la ricorrente (riproponendo nuovamente censure già svolte in sede di appello) che, dalle risultanze istruttorie, non sarebbero emerse nè l’esistenza di un incarico di commissione del manufatto alla ditta oggi resistente, nè l’effettiva realizzazione del manufatto stesso.

Preliminare all’esame del motivo risulta la declaratoria di inammissibilità delle due missive allegate al ricorso, qualificate dalla difesa della ricorrente come “documentazione integrativa fatta pervenire dalla ditta Gibo Arreda”, delle quali non è traccia nei precedenti gradi di giudizio e che, in spregio al disposto dell’art. 372 c.p.c., non rientrano nella previsione della fattispecie legale disciplinata da tale norma (documenti funzionali alla dimostrazione della nullità della sentenza o della ammissibilità del ricorso).

Nel merito, la doglianza è destituita di ogni fondamento.

La motivazione della corte territoriale, che esamina, ricostruisce e valuta le risultanze di fatto del processo, si sottrae, difatti, ad ogni censura, scevra come appare dai vizi logico-giuridici lamentati.

Vero è che, nel suo complessivo argomentare, la difesa della Gibo, pur lamentando formalmente una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e un (apparentemente decisivo) difetto di motivazione, si risolve, nella sostanza, ad auspicare una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze così come definitivamente accertati in sede di merito.

La ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5, non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove c.d. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1514 c.c.; insufficiente e contraddittoria motivazione.

Il motivo non ha giuridico fondamento.

Come correttamente ritenuto dalla corte territoriale, difatti, la clausola “franco officina” convenuta tra le parti esonerava in venditore dall’onere di provare la perdurante disponibilità presso di sè del bene oggetto di controversia, senza che il mancato trasferimento della res alienata in un locale di pubblico deposito potesse spiegare influenza sul diritto del venditore stesso di pretendere il corrispettivo dal compratore, essendo la procedura prevista dall’art. 1514 c.c., meramente facoltativa e dunque irrilevante in parte qua.

Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese segue, giusta il principio della soccombenza, come da dispositivo.

PQM

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 900,00 di cui Euro 200,00 per spese generali.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2010

 

 

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