Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10597 del 30/04/2010

Cassazione civile sez. III, 30/04/2010, (ud. 19/01/2010, dep. 30/04/2010), n.10597

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15992/2008 proposto da:

A.P., (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA CICERONE 28, presso lo studio dell’avvocato ORLANDO

GUIDO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati SETTI

GIULIA, DESIDERIO LEJANITA giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

P.G., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CARLO POMA 4, presso lo studio dell’avvocato BALIVA Marco,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MORELLI ROBERTO

giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 148/2008 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

Sezione Prima Civile, emessa il 29/09/2007, depositata il 29/01/2008;

R.G.N. 2060/2005.

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

19/01/2010 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato ROBERTO CORSI per delega avv. GUIDO ORLANDO;

udito l’Avvocato RICCARDO GRANEVALI per delega avv. MARCO BALIVA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

NUNZIO Wladimiro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

IN FATTO

Il tribunale di Modena, accogliendo l’opposizione all’esecuzione di un pignoramento immobiliare proposta da A.L. nei confronti di P.G. e della Banca popolare dell’Emilia (esecuzione improseguibile, quanto all’istituto di credito, per intervenuta rinuncia agli atti), ritenne che il debito azionato in executiviis dall’altro creditore, fondato su di un assegno bancario dell’importo di L. 125 milioni, fosse stato estinto dall’opponente tramite versamento della somma di L. 200 milioni a tal M., così dichiarando estinta l’obbligazione sottostante, individuata nel 20% del valore delle quote sociali di una s.r.l., la Co.Ge.Par..

L’impugnazione proposta dal P. fu accolta dalla corte di appello di Bologna.

La sentenza è stata impugnata dall’appellante con ricorso per cassazione sorretto da 3 motivi.

Resiste con controricorso P.G..

Diritto

IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 742 del 1969, art. 3, art. 92 ord. giud.);

omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

Il motivo, che lamenta una erronea applicazione dei principi in tema di sospensione dei termini feriali, è privo di pregio.

E’ stato costantemente affermato, nella giurisprudenza di questa corte regolatrice, il principio secondo il quale la sospensione dei termini feriali non si applica ai procedimenti di opposizione all’esecuzione. In particolare, si è evidenziato come (Cass. 1331/06) la sospensione feriale dei termini processuali, prevista dalla L. n. 142 del 1969, art. 1, non si applica ai giudizi in materia di opposizione all’esecuzione forzata, nozione da intendere nel senso più ampio, come categoria (nella quale sono ricomprese anche le opposizioni relative alla distribuzione della somma ricavata), tale esclusione non essendo posta nell’interesse particolare del debitore esecutato, ma rispondendo alla finalità della pronta definizione della causa di opposizione, e, quindi, alla pronta realizzazione dei crediti, restando perciò irrilevante (ai fini dell’operatività di detta esclusione) che l’esecuzione sia stata o meno portata a compimento, perdurando le cause di opposizione che costituiscono fattori di ritardo nella definizione della procedura esecutiva (così Cass. 6103/06). Per il principio secondo il quale, nelle cause d’esecuzione, la sospensione dei termini nel periodo feriale non s’applica neppure ai termini per la proposizione del ricorso per cassazione, Cass. 23 maggio 2005, n. 10874).

Erra, pertanto, la difesa del ricorrente nel ritenere inapplicabile la regula iuris della sospensione dei termini nel caso de quo, mentre la giurisprudenza da lui richiamata appare del tutto inconferente al caso di specie, afferendo a controversie disciplinate dagli artt. 409 e 442 c.p.c., decise con rito ordinario (Cass. Ss.Uu. 10978/01; Cass. 7171/99).

All’infondatezza della doglianza così rappresentata consegue la irrilevanza delle ulteriori eccezioni sollevate dal ricorrente in ordine ad una pretesa nullità della sentenza resa dalla corte di appello di Bologna.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 1988 c.c.); motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Il motivo è infondato.

Con esso si sostiene, da un canto, che la corte felsinea avrebbe errato nel ritenere applicabile, nella specie, la presunzione di cui all’art. 1988 c.c, non potendosi ritenere il P. reale beneficiario del credito per la mancanza iniziale della relativa indicazione nel titolo; dall’altro, che la vendita delle proprie quote sociali da parte del M. sarebbe avvenuta in epoca precedente i fatti di causa.

Le argomentazioni in esso sviluppate si infrangono, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto, da un canto, che la tesi del riempimento abusivo del titolo, sì come sostenuta dal ricorrente, non risultava punto dimostrata; dall’altro, che il collegamento tra l’adempimento dell’obbligazione sottostante il titolo cartolare con l’acquisto delle quote sociali alienate dal M. fosse del tutto arbitrario, mentre il P. aveva puntualmente indicato la causale della consegna dell’assegno riferendola all’acquisto di una ulteriore quota del 20% della società, come confermato in sede testimoniale da due testi, ritenuti attendibili dalla corte territoriale a differenza del M., “stante il burrascoso rapporto di questi con il P., sfociato anche in denunce e processi penali”; dall’altro ancora che, pur nell’ipotesi in cui lo stesso A. avesse pagato le quote direttamente al M., non avrebbe potuto essere giustificato il collegamento, operato dal tribunale, con l’assegno azionato in executiviis, non avendo l’odierno ricorrente mai dedotto di aver consegnato il titolo al P. per tale acquisto, con la conseguenza di non poter ritenere che l’avvenuto pagamento al M. avesse determinato il venir meno del rapporto causale (avendo viceversa l’ A. affermato di aver consegnato l’assegno in vista del futuro sviluppo della società, deducendo di fatto che la sua utilizzazione fosse avvenuta senza titolo, e non già di aver altrimenti estinto l’obbligazione principale, senza peraltro fornire alcuna prova di tale allegazione).

A fronte di questo compiuto, logico e condivisibile iter motivazionale, il ricorrente oppone una congerie di fatti e di asserzioni che, pur lamentando formalmente una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. La difesa A., difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione (nella specie, le deposizioni testimoniali), postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5, non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove c.d. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

In particolare, poi, quanto all’interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto e alla “storia” del titolo cartolare per il quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va nuovamente riaffermato che, in tema di ermeneutica contrattuale, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni normativi di interpretazione (sì come dettati dal legislatore all’art. 1362 c.c., e segg.) e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, funditus, Cass. n. 2074/2002): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi entrambi impredicabili, con riguardo alla sentenza oggi impugnata), con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito – nella specie, del tutto correttamente quanto all’applicabilità della presunzione semplice derivante dall’art. 1988 c.c.) – che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione della norma di cui all’art. 345 c.p.c., sulla produzione di nuova documentazione.

Il motivo è fondato, ma il suo accoglimento non può condurre alla soluzione auspicata dal ricorrente, volta alla cassazione della sentenza oggi impugnata.

Correttamente la difesa A. richiama il dictum delle sezioni unite di questa corte (Cass. 8202 e 8203 del 2005) che equipara le prove costituite alle prove costituende, sì che, in parte qua, l’affermazione della corte territoriale appare non conforme a diritto. E’ peraltro incontestabile che la decisione adottata, sia pur espunta dall’argomentazione relativa all’utilizzabilità del verbale di interrogatorio dell’ A. reso in seno ad altro procedimento (verbale del quale non è alcun cenno, da parte del giudice territoriale, in ordine alla eventuale dimostrazione della impossibilità di tempestiva produzione ovvero alla sua ritenuta indispensabilità, contrariamente a quanto opinato dal controricorrente), trova solido fondamento e sicuro conforto nelle restanti argomentazioni svolte in sede di motivazione.

Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese segue, giusta il principio della soccombenza, come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 3700,00 di cui Euro 200,00 per spese generali.

Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2010

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