Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10590 del 14/05/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 10590 Anno 2014
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: CARRATO ALDO

SENTENZA
sul ricorso 19035-2013 proposto da:
b Hifr-V0
SPANO tDOMENIC01 MANGIA PIETRINA, CRETI’ ANTONIO,
CONTALDO MARIA, MERICO ANTONIO, RIZZELLO
NICOLA, CODAZZO GIUSEPPA, CARDELLI LUCIA
quest’ultime entrambe nella qualità di eredi (rispettivamente moglie e
figlia) di Cardelli Alfredo, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA
ODERISI DA GUBBIO 214, presso REMO COLACI, rappresentati
e difesi dall’avvocato LUPERTO COSIMO, giusta delega a margine
del ricorso;

– ricorrenti contro

Data pubblicazione: 14/05/2014

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (8018440587 ) in persona del
Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

avverso il decreto n. 150/2013 della CORTE D’APPELLO di
POTENZA del 15.1.2013, depositato il 14/02/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
21/02/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ALDO CARRATO.

Ric. 2013 n. 19035 sez. M2 – ud. 21-02-2014
-2-

– con troricorrente –

Ritenuto in fatto
I ricorrenti di cui in epigrafe (nelle specifiche qualità dedotte) chiedevano alla Corte
d’appello di Potenza, con ricorso depositato il 12 luglio 2011, il riconoscimento
dell’equa riparazione, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, per la irragionevole

suddetto ricorso) instauratasi dinanzi al Tribunale di Lecce in conseguenza della
dichiarazione di fallimento in data 11 ottobre 1993 nei confronti della s.p.a. Venturi
Investimenti, nella quale essi ricorrenti (ad eccezione di Codazzo Giuseppe e
Cardelli Lucia, per i quali aveva agito il loro dante causa Cardelli Alfredo) si erano
insinuati con ammissione allo stato passivo, invocando, la condanna del Ministero
della Giustizia al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti per la irragionevole
durata complessiva della indicata procedura.
Nella costituzione del resistente Ministero della Giustizia, l’adita Corte di appello, con
decreto n. 150 del 2013, depositato il 14 febbraio 2013, accertava l’irragionevole
ritardo della suddetta procedura nella durata di anni 11 e condannava
l’Amministrazione convenuta al pagamento — a titolo di indennizzo per i dedotti danni
non patrimoniali — di distinte somme per ognuno dei ricorrenti, oltre interessi dalla
domanda, con compensazione, per la metà, delle spese giudiziali, la cui residua
metà veniva posta a carico del suddetto Ministero.
Avverso il suddetto decreto (non notificato) hanno proposto ricorso per cassazione
tutti i soggetti indicati in intestazione, con atto notificato il 23 luglio 2013, sulla base di
tre motivi. L’intimato Ministero si è costituito con controricorso.

Considerato in diritto

durata di una procedura fallimentare (ancora pendente all’atto della proposizione del

1. – In via preliminare, il Collegio rileva che non è di ostacolo alla trattazione del
ricorso la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della
Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’art. 70, secondo comma, c.p.c., quale risultante dalle modifiche introdotte

nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico ministero «deve intervenire
nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge». A sua volta

l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall’art. 81 del citato decretolegge n 69, al primo comma dispone che «Il pubblico ministero presso la Corte di
cassazione interviene e conclude: a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze
dinanzi alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici
della Corte di cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla
sezione di cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura
civile». L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita
sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di
consiglio».

Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante dalla legge
di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo comma, la sostituzione
dell’ad. 70, secondo comma, del codice di rito, e la modificazione degli artt. 380-bis,
secondo comma, e 390, primo comma, del medesimo codice, per adeguare la
disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della partecipazione del pubblico
ministero alle udienze che si tengono dinnanzi alla sezione di cui all’ad. 376, primo
comma, al secondo comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente
articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di

dall’ad. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni,

fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire
dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.
Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto nell’art. 75, comma 2,

376, primo comma, c.p.c.), consenta di ritenere, non solo, che la detta sezione è
abilitata a tenere pubbliche udienze e non solo adunanze camerali, ma anche che
alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la
partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facoltà
dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70, terzo comma,
c.p.c., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato adottato in
data 2 dicembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza pubblica è stata
ritualmente celebrata senza la partecipazione del rappresentante della Procura
generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia
integrale del ruolo di udienza era stata trasmessa, ravvisato un interesse pubblico
che giustificasse la propria partecipazione ai sensi del citato art. 70, terzo comma,
c.p.c. (sul punto v., di recente, Cass., VI sez., n. 1089 del 2014).
2.- Ciò posto, con il primo motivo, i ricorrenti — nella prospettata qualità — hanno
dedotto la violazione degli artt. 2 della legge n. 89 del 2001 e 2056 c.c., nonché il
vizio di omessa e contraddittoria motivazione sul fatto decisivo della controversia
riguardante la corretta determinazione della durata irragionevole della procedura
fallimentare presupposta, il cui svolgimento fisiologico non avrebbe potuto superare il
limite dei setti anni (qualora fosse stata qualificata come complessa).

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citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art.

3.- Con il secondo motivo i ricorrenti hanno denunciato l’ulteriore violazione dell’art. 2
della legge n. 89 del 2001, dell’art. 2056 c.c. nonché dell’ad. 1 della legge cost. n. 2
del 1999 e dell’art. 6— par. 1 della C.ED.U., congiuntamente al vizio di contraddittoria
od omessa motivazione sul fatto decisivo della controversia attinente alla illegittima

suddetta procedura fallimentare.
4. — Con il terzo motivo i ricorrenti hanno prospettato la violazione ulteriore dell’ad. 2
della legge n. 89 del 2001, degli artt. 2056, 1223 e 1226 c.c., nonché dell’ad. 1 della
legge cost. n. 2 del 1999 e dell’art. 6 — par. 1 della C.ED.U., oltre che dell’ad. 11 delle
cc.dd. preleggi, congiuntamente al vizio di contraddittoria od omessa motivazione sul
fatto decisivo della controversia di cui alla seconda censura, sotto il profilo
dell’assunta inapplicabilità, nel caso di specie, “ratione ternporis”, del novellato
disposto dell’ad. 2- bis della citata legge n. 89 del 2001, per effetto dell’ad. 55 del d.l.
n. 83 del 2012, conv., con modif., nella legge n. 134 del 2012.
5. — Rileva il collegio che la prima censura è infondata per le ragioni e nei termini che
seguono.
Pacifica l’applicabilità della disciplina di cui alla legge n. 89 del 2001 anche con
riferimento alle procedure fallimentari (cfr., da ultimo, Cass. n. 13605 del 2013, con la
quale è stato riconosciuto il diritto all’ottenimento dell’indennizzo anche da parte del
fallito), osserva il collegio che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Code
(cfr., ad es., Cass. n. 8468 del 2012 e Cass. n. 9254 del 2012), in tema di equa
riparazione per la violazione del termine di durata ragionevole del processo, a norma
dell’ad. 2, comma secondo, della legge n. 89 del 2001, la durata delle procedure
fallimentari, secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Code europea dei
diritti dell’uomo, è di cinque anni nel caso di media complessità e, in ogni caso, per

determinazione dell’indennizzo conseguente alla effettiva durata irragionevole della

quelle notevolmente complesse – a causa del numero dei creditori, la particolare
natura o situazione giuridica dei beni da liquidare, la proliferazione di giudizi connessi
o la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti – non può superare la durata
complessiva di sette anni.

difensore dei ricorrenti — il periodo da valutare, ai fini del conseguente computo
dell’irragionevole durata del giudizio in funzione del correlato riconoscimento
dell’equa riparazione, va fatto decorrere (cfr. Cass. n. 2207 del 2010), in relazione
alle procedure fallimentari e con riferimento alla pretesa dei creditori interventori, dal
momento in cui è stata formulata la domanda di insinuazione al passivo (e solo per il
fallito e per il creditore richiedente dal momento della pregressa dichiarazione di
fallimento). Pertanto, correttamente, nella fattispecie, la Corte territoriale ha preso in
considerazione, quale termine di decorrenza funzionale al computo della durata
complessiva della procedura fallimentare, l’anno (il 1994) in cui erano intervenute le
istanze di ammissione al passivo e, sulla scorta della valutazione complessiva dello
svolgimento della procedura, ha giustificatamente determinato il periodo ragionevole
entro il quale la procedura si sarebbe dovuta definire nel congruo termine di sei anni
(comunque ricompreso tra il minimo corrispondente a 5 anni ed il massimo
equivalente a 7 anni), così giungendo alla quantificazione del residuo intervallo
temporale qualificabile come irragionevole nella misura di anni undici (in virtù della
circostanza che, essendo ancora pendente la procedura al momento del deposito del
ricorso intervenuto nel 2011, è a quest’ultimo momento che la Corte di merito ha
esattamente riferito il termine finale del correlativo computo).

Chiarito ciò, deve, tuttavia rilevarsi che — diversamente da quanto sostenuto dal

6. Il secondo ed il terzo motivo — esaminabili congiuntamente perché strettamente
connessi, in quanto inerenti al criterio di liquidazione dell’indennizzo — sono, invece,
fondati e vanno, quindi, accolti nei sensi di cui in appresso.
In effetti, la Corte territoriale ha rilevato che il comportamento processuale della

della procedura fallimentare anche in relazione al modesto importo del credito
insinuato, ragion per cui l’equo indennizzo spettante ai ricorrenti sarebbe stato
liquidabile in una misura — ritenuta congrua — oscillante tra i 790 euro e i 6900,00
euro, in relazione all’entità della posta in gioco fatta valere nella procedura
fallimentare presupposta.
Senonché, la Corte di merito non ha dato una logica ed adeguata giustificazione sia
dell’ascrivibilità ai ricorrenti di comportamenti eventualmente ostativi ad una più
rapida definizione della procedura fallimentare (la protrazione irragionevole della cui
durata era, invece, addebitabile agli altri fattori precedentemente evidenziati che ne
avevano determinato uno sviluppo particolarmente complesso) né ha offerto una
motivazione sufficiente circa l’individuazione dei criteri oggettivamente considerati ai
fini del riconoscimento di un equo indennizzo effettivamente satisfattivo e
rispondente ai parametri indicati dalla giurisprudenza della C.E.D.U. e da quella di
questa Corte di legittimità.
Quanto ai criteri di liquidazione dell’indennizzo in questione, deve, infatti,
rilevarsi che la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 21840 del 2009 e,
da ultimo, Cass. n. 8471 del 2012) ha statuito (con riferimento alla formulazione
anteriore dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, rispetto alle modifiche apportate
dal di. n. 83 del 2012, convertito nella legge n. 134 del 2012 e all’introduzione
dei parametri individuati con il nuovo art. 2 bis della stessa “legge Pinto”,

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dante causa dei ricorrenti era stato sostanzialmente passivo in relazione alla durata

inapplicabili nel caso di specie “ratione temporis”, poiché il ricorso per equa
riparazione era stato depositato il 12 luglio 2011), che, in tema di equa
riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, i
criteri di liquidazione applicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non

le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purché
motivate e non irragionevoli.
Orbene, il giudice territoriale è pervenuto, con un percorso argomentativo illogico e
contraddittorio oltre che in violazione del dedotto art. 2 della legge n. 89 del 2001
(nella versione “ratione temporis” applicabile), ad un ingiustificato ridimensionamento
della quantificazione dell’indennizzo, computandolo nella illegittima misura variabile
come indicata, ragion per cui, sotto questo profilo del “quantum”, si impone
l’annullamento dell’impugnato decreto.
7. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente svolte, deve pervenirsi al
rigetto del primo motivo ed all’accoglimento degli altri due, con la conseguente
cassazione, sul punto, del decreto impugnato ed il rinvio della causa alla Corte di
appello di Potenza, in diversa composizione, che, oltre a conformarsi ai principi di
diritto precedentemente enunciati, provvederà anche a regolare le spese della
presente fase di legittimità.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso ed accoglie il secondo ed il terzo; cassa il
decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per le spese
del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Potenza, in diversa
composizione.

possono essere ignorati dal giudice nazionale, il quale può tuttavia apportare

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte

suprema di Cassazione, in data 21 febbraio 2014.

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