Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10576 del 07/05/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 10576 Anno 2013
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: ARIENZO ROSA

SENTENZA

sul ricorso 16482-2008 proposto da:
POSTE

ITALIANE

S.P.A.,

in persona del

legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato
PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende giusta
delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

1072

SGANAPPA MARIA TERESA, elettivamente domiciliata in
ROMA,

PIAZZA TARQUINIA 5/D,

presso lo studio

dell’avvocato FALLA TRELLA, rappresentata e difesa

Data pubblicazione: 07/05/2013

dagli avvocati RIOMMI MAURIZIO, MICHEL’ CARLO, giusta
delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 304/2007 della CORTE D’APPELLO
di PERUGIA, depositata il 22/06/2007 R.G.N. 1097/2005;

udienza del 21/03/2013 dal Consigliere Dott. ROSA
ARIENZO;
udito l’Avvocato DE MARINIS NICOLA per delega ROBERTO
PESSI;
udito l’Avvocato RIOMMI MAURIZIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. IGNAZIO PATRONE, che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

FATTO E DIRITTO
Con sentenza del 22.6.2007, la Corte di Appello di Perugia, su appello delle s.p.a. Poste
Italiane, confermava la sentenza del Tribunale di Orvieto con la quale era stata accolta la
domanda proposta da Sganappa Maria Teresa nel senso delta declaratoria di nullità del
termine apposto al contratto stipulato da Poste risalente al 1.3.2000, della riammissione in
servizio della ricorrente e della condanna di Poste al risarcimento delle danno come dalle

periodo di tempo successivo a quello in cui l’apposizione del termine, per effetto della
pattuizione collettiva del 25.9.1997, dei successivi accordi integrativi e di quanto disposto
dall’art. 23 comma 1 I. 56/87, poteva considerarsi legittima, essendo venuta meno la
validità della clausola autorizzatoria. Riteneva, quanto al risarcimento del danno
conseguente, che la prova dell’aliunde perceptum gravasse sul datore di lavoro.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la s.p.a. Poste Italiane con tre motivi, illustrati
con memoria, con i quali deduce :
1) Violazione o falsa applicazione dell’art. 23 della I. 56/87 e dell’art. 1362 e ss. c. c.,
nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della
controversia, ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.., sostenendo che alcun limite temporale poteva
essere fissato per la validità del patto collettivo del 1997 e che, in base ai criteri
ermeneutici, che privilegiano criteri ulteriori rispetto a quello letterale, la volontà delle parti
era quella di introdurre un’ipotesi valida fino alla scadenza del c.c.n.l. 1994, per cui, non
contenendo in sé l’accordo del 25.9.1997 alcuna limitazione temporale in quanto
integrativo della disciplina del c.c.n.l., la relativa efficacia temporale doveva estendersi
all’intera durata di esso. Afferma che gli accordi posteriori a quello del 25.9.1997 hanno
valenza meramente ricognitiva della sussistenza delle condizioni in fatto legittimanti il
ricorso alla fattispecie di apposizione del termine e che non risulta in alcun modo
circoscritta temporalmente la relativa facoltà.
2) Violazione o falsa applicazione dell’art. 1372, comma 1 e 2, c. c. nonché omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il
giudizio, ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. Con quesito domanda se, al pari dell’esecuzione,
anche il suo contrario assuma valore dichiarativo, per cui il comportamento protratto nel
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parti quantificato. Rilevava che doveva ritenersi che il contratto del 1.3.2000 ricadeva in un

tempo che si risolva nella totale mancanza di operatività di un rapporto, deve essere
valutato in modo socialmente tipico quale dichiarazione risolutoria.
3) Violazione o falsa applicazione di norme di diritto, nonché omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione, ex art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c. relativamente alla identificazione
dell’offerta della prestazione lavorativa nella richiesta del tentativo obbligatorio di
conciliazione ed all’automatica equivalenza del risarcimento del danno ai compensi

risarcimento dei danni a seguito di intervenuto scioglimento del rapporto, determinatosi per
effetto dell’iniziativa del datore fondata su clausola risolutiva contrattuale nulla, rimanga a
carico dello stesso lavoratore, in qualità di attore, l’onere di allegare e provare il danno da
scioglimento del rapporto e se tale danno possa equivalere alle retribuzioni perdute —
detratto l’aliunde — a causa della mancata esecuzione delle prestazioni lavorative, ma
presupponga che queste siano state offerte dal lavoratore e che il datore le abbia
illegittimamente rifiutate; se il risarcimento sia da escludersi ove si accerti che il danno del
lavoratore si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti per prestazioni
lavorative svolte presso altri datori di lavoro.
Resiste la Sganappa, con controricorso. La Corte ha autorizzato la redazione della
motivazione in forma semplificata.
Va, preliminarmente, rilevato che non sussistono i profili di inammissibilità del ricorso
dedotti dalla controricorrente.
Con riguardo al primo motivo, va ribadito in fatto che il contratto a termine di cui si discute
risulta stipulato per il periodo dal 1.3.2000 al 30.6.2000, ex art. 8 del ccnI 26.11.94, come
integrato dall’accordo 26.9.97, per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di
ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per
la trasformazione della natura giuridica dell’Ente ed in ragione della graduale introduzione
di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione
del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.
In relazione ai vizi denunziati di violazione di legge e delle norme della contrattazione
collettiva intercorse a regolazione delle assunzioni a termine dei dipendenti di Poste
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retributivi perduti. Con quesito, la ricorrente domanda se, in caso di domanda di

Italiane s.p.a., deve darsi continuità al consolidato orientamento assunto in materia da
questa Corte. La giurisprudenza della Corte di cassazione ritiene che la L. 28 febbraio
1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare
– oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 nonché
dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis conv. dalla L. 15 marzo 1983. n. 79 – nuove
ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e

all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe
a quelle previste per legge (v. S.U. 2.3.06 n. 4588). Dato che in forza di tale delega le
parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui
all’accordo integrativo del 25.9.97, la giurisprudenza ritiene corretta l’interpretazione dei
giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed
al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16.1.98, ha ritenuto che con tali accordi
le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31.1.98 (e poi in base al
secondo accordo attuativo, fino al 30.4.98), della situazione di fatto integrante le esigenze
eccezionali menzionate dal detto accordo integrativo. Con la conseguenza che, per far
fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti
limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato;
da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30
aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. In altre parole, dato che le parti
collettive avevano raggiunto originariamente un’intesa priva di termine ed avevano
successivamente stipulato accordi attuativi che avevano posto un limite temporale alla
possibilità di procedere con assunzioni a termine, fissato inizialmente al 31.1.98 e
successivamente al 30.4.98, l’indicazione di tale causale nel contratto a termine legittima
l’assunzione solo ove il contratto scada in data non successiva al 30.4.98 (v., ex plurimis,
Cass.23.8.06 n.18378). Conseguentemente i contratti stipulati al di fuori di tale limite
sono illegittimi, in quanto non rientrano nel complesso legislativo-collettivo costituito dalla
L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 e dalla successiva legislazione collettiva che consente la
deroga alla L. n. 230 del 1962.
Quanto alla rilevanza del successivo ccril 18.1.01, la giurisprudenza di questa Corte (v., ex
plurimis, Cass. 23.8.06 n. 18378) ritiene corretta la ricostruzione della volontà delle parti
operata dai giudici di merito che hanno assegnato irrilevanza all’accordo in quanto
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propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati

stipulato dopo circa due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del
soggetto si era già perfezionato. Ammesso che le parti avessero espresso l’intento di
interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle
assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997
(scaduto in forza degli accordi attuativi), la giurisprudenza ritiene che suddetta conclusione
deve comunque ritenersi conforme alla regola dell’indisponíbilità dei diritti dei lavoratori già

mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore
del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D. Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare
retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della
durata in precedenza stabilita (v. per tutte Cass. 12.3.04 n. 5141).
All’esito di questa disamina,

ribadito che

il contratto a termine de

quo non rientrava tra quelli di cui la contrattazione collettiva consentiva la stipulazione per
periodo successivo al 30.4.98, deve rigettarsi il motivo esaminato.
Quanto al secondo motivo di ricorso, deve rilevarsi come questa Corte abbia più volte
affermato che “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un
unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione
al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del lasso di
tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del
comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative — una chiara e
certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto
lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di
fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di
legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935,
Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11-12-2001 n. 15621).
Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è
stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo
consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e
certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 212-2002 n. 17070).
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perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche

Nella specie la Corte d’Appello, confermando sul punto la sentenza del Tribunale di
Orvieto, ha osservato, con motivazione immune da vizi logico giuridici, che non vi era
stato alcun comportamento della lavoratrice che potesse far presumere una sua
acquiescenza alla risoluzione del rapporto e che il solo decorrere del tempo tra la
cessazione di quest’ultimo ed il tentativo di conciliazione non poteva essere in alcun modo
interpretato come volontà abdicativa.

l’inidoneità della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione a configurare valido
atto di messa in mora, non ne riporta il contenuto, al fine di consentire alla Corte di
valutare la fondatezza del rilievo. Peraltro, il motivo è ancor prima inconferente, posto
che nella decisione impugnata non si affronta specificamente la questione della messa in
mora, ma unicamente quella dell’aliunde perceptum. Sotto altro versante, nella parte in
cui prospetta violazione di norme in relazione alla ritenuta automatica equivalenza del
risarcimento ai compensi retributivi perduti, esso si presenta astratto e generico, oltre che
inconferente, atteso che con lo stesso non viene specificamente censurata la decisione
nella parte in cui nega che gravino sul lavoratore l’allegazione e la prova dell’aliunde
perceptum ed afferma che, cedendo il relativo onere, invece, a carico del datore di lavoro,
nulla quest’ultimo avesse allegato al riguardo. La censura è da ritenersi, pertanto,
complessivamente inammissibile.
Infine, osserva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società
ricorrente invoca, in via subordinata, ma in modo inconferente, l’applicazione dello ius
superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5 0 , 6° e 7° della legge 4 novembre 2010
n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010.
Va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare
nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva,
una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo
pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del
controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8
maggio 2006 n. 10547, Cass. 27.2.2004 n. 4070). Tale condizione non sussiste nella
fattispecie, benché, con sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011 siano state
dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e 7,
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Il terzo motivo per un verso si rivela privo di autosufficienza, in quanto, pur evidenziando

della legge 4 novembre 2010, n. 183, sollevate, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101,
102, 111 e 117, primo comma, della Costituzione.
Il ricorso va, in conclusione, respinto.
Le spese del presente giudizio vanno poste, per il principio delta soccombenza, a carico

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento delle spese di lite del
presente giudizio, liquidate in euro 50,00 per esborsi ed in euro 3500,00 per compensi
professionali, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 21.3.2013

della società, nella misura liquidata in dispositivo.

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