Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10550 del 30/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 30/04/2010, (ud. 06/04/2010, dep. 30/04/2010), n.10550

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.V.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PETRONIO LUCIANO

GIORGIO, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CASSA DI RISPARMIO DI PARMA E PIACENZA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G.

FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato MARESCA ARTURO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato SILVAGNA LUCIA, giusta

mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 293/2005 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 24/10/2005 r.g.n. 561/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/04/2010 dal Consigliere Dott. NAPOLETANO Giuseppe;

udito l’Avvocato PETRONIO LUCIANO GIORGIO;

udito l’Avvocato ROBERTO ROMEI per delega ARTURO MARESCA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Bologna, riformando la sentenza di primo grado, respingeva la domanda proposta da D.V.E. nei confronti della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza S.p.A., di cui era dipendente, avente ad oggetto l’accertamento del suo diritto, ai sensi dell’art. 2103 c.c., all’inquadramento nella qualifica di dirigente per effetto dell’espletamento delle relative mansioni.

I giudici di appello,premessa l’inesistenza nel nostro ordinamento giuridico di un principio di parita’ di trattamento e richiamata la regola secondo la quale e’ dirigente il dipendente che svolge le relative mansioni, rilevavano che difettando, nella specie, qualsiasi norma etronoma ovvero autonoma, prevedente, nell’ambito della qualifica dirigenziale, una graduazione gerarchica, era da considerarsi dirigente solo colui che poteva essere identificato come “il piu’ valido sostituto dell’imprenditore”. Ritenevano, poi, detti giudici che l’istruttoria espletata non dimostrava che “l’imprenditore avesse affidato alle cure del D.V. le sorti, intese come responsabilita’ radicale di nascita ed estinzione, di un importante articolazione della Banca. Ne’, aggiungevano i giudici di secondo grado, poteva assumersi l’esistenza di un uso aziendale di nominare dirigenti al posto di direttore della sede di (OMISSIS), non rivestendo il precedente preposto la qualifica di dirigente.

Meramente esplorativa era, infine, da valutarsi, secondo i predetti giudici, la richiesta del diritto di ottenere il rilascio dalla Banca di copia di tutte le delibere riguardanti la promozione a dirigente di funzionari in servizio presso la Cassa intervenute dal 1990 al 1996.

Avverso questa sentenza il D.V. ricorre in Cassazione sulla base di sei censure, illustrate da memoria.

La societa’ intimata resiste con controricorso, precisato da memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con la prima censura il D.V., deducendo violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. nonche’ difetto di motivazione, denuncia che la Corte territoriale ha omesso di valutare, quale prova presuntiva, la circostanza che i precedenti dipendenti avevano svolto, rivestendo la qualifica di dirigente, le medesime mansioni a lui attribuite.

La censura e’ infondata.

Va innanzitutto ribadito un principio di diritto vivente agli effetti della tutela apprestata dall’art. 2103 c.c., la quale attribuisce al lavoratore utilizzato per un certo tempo dal datore di lavoro in compiti diversi e maggiormente qualificanti rispetto a quelli propri della categoria di appartenenza il diritto non solo al trattamento economico previsto per l’attivita’ in concreto svolta ma anche all’assegnazione definitiva a tale attivita’ ed alla relativa qualifica: in mancanza di un principio generale di parita’ di trattamento in materia di lavoro, non assume alcun rilievo giuridico l’eventuale identita’ fra le mansioni svolte e quelle proprie di altri lavoratori della stessa azienda che abbiano gia’ ottenuto la stessa qualifica, ma solo la riconducibilita’ delle mansioni svolte nella qualifica invocata (per tutte Cass. 8 novembre 2007 n. 23273).

E’ pertanto irrilevante. sotto qualsiasi prospettazione, che le mansioni svolte dal D.V. siano state in precedenza eserciate da dipendenti con qualifica di dirigente, essendo necessario, ai fini di cui trattasi, dimostrare “la riconducibilita’ delle mansioni svolte alla qualifica invocata”.

Ne’ puo’ assumere, ai fini del conseguimento della qualifica superiore ex art. 2103 c.c. da parte dell’attore, alcun valore presuntivo di per se’ la circostanza dell’affidamento, da parte del datore di lavoro, di determinate mansioni di altro dipendente gia’ investito della qualifica rivendicata in giudizio (V. in tal senso Cass. 19 luglio 2007 n. 16015).

Con il secondo motivo il ricorrente, allegando violazione e falsa applicazione degli artt. 2095 e 2103 c.c., sostiene che i giudici di appello non hanno considerato che, secondo la evoluzione giurisprudenziale, non e’ dirigente solo l’alter ego dell’imprenditore, ma anche colui che abbia una responsabilita’ di una struttura meno importante di un ramo autonomo dell’azienda caratterizzata da ampia autonomia decisionale.

Il motivo e’ infondato.

Invero, salvo che la contrattazione collettiva non disponga diversamente, ed il giudice del merito lo ha escluso, la qualifica di dirigente spetta soltanto ex art. 2095 c.c. al prestatore di lavoro che, come”alter ego” dell’imprenditore, sia preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa, e sia investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalita’ che comportano, gli consentono, sia pure nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo ed un orientamento al governo complessivo dell’azienda, assumendo la corrispondente responsabilita’ ad alto livello (Cass. 22 dicembre 2006 n. 27464).

Pertanto, anche se si vuole ipotizzare la qualifica di dirigente rispetto ad un settore dell’azienda, non necessariamente autonomo, e’ pur sempre indispensabile, per il riconoscimento della relativa qualifica, in carenza di specifica norma contrattuale collettiva, l’esplicazione di autonomia e discrezionalita’ nelle scelte decisionali tale da influire sugli obiettivi complessivi dell’imprenditore (Cass. 19 settembre 2005 n. 18482), che, nella specie, e’ stata esclusa dal giudice del merito con accertamento di fatto adeguatamente motivato che, come tale, e’ sottratto al sindacato di questa Corte.

Con il terzo motivo il D.V., assumendo la violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. afferma che la Corte di Appello non ha preso in esame la interpretazione da lui proposta della contrattazione collettiva la quale prevede una differenziazione dei dirigenti per gradi di responsabilita’ diversamente retribuiti.

Il motivo e’ infondato.

Mette conto evidenziare come la Corte territoriale escluda che la contrattazione collettiva, nella specie, stabilisca una articolazione della qualifica di dirigente su diversi livelli “prevedendo – detta contrattazione – una sola figura di dirigente”.

Avverso tale interpretazione il ricorrente si limita a “proporre” una diversa esegesi delle norme contrattuali, senza, pero’, dedurre alcuna violazione dei criteri di ermeneutica contrattale, ovvero vizi di motivazione.

Infatti e’ giurisprudenza di questa Corte relativa ai ricorsi anteriori al 2 marzo 2006 (D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6) che l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attivita’ riservata al giudice di merito, ed e’ censurabile in sede di legittimita’ soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioe’ tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non e’ peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma e’ necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne e’ discostato, nonche’, in ossequio al principio di specificita’ ed autosufficienza del ricorso, con la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, ancorche’ la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora cio’ non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire. La denuncia del vizio di motivazione dev’essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicita’ consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioe’ connotati da un’assoluta incompatibilita’ razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimita’, non e’ necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicche’, quando di una clausola siano possibili due o piu’ interpretazioni, non e’ consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimita’ del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (V. per tutte Cass. 22 febbraio 2007 n. 4178). Ne’, all’uopo, e’ sufficiente una semplice critica della decisione sfavorevole, formulata attraverso la mera prospettazione di una diversa (e piu’ favorevole) interpretazione rispetto a quella adottata dal giudicante. (Cfr. per tutte Cass. 25 febbraio 2004 n. 3772).

Con il quarto motivo il ricorrente, deducendo violazione degli artt. 1340, 2077 e 2078 c.c. nonche’ difetto di motivazione, lamenta che la Corte territoriale nel ritenere interrotto l’uso aziendale di nominare, quale preposto presso la sede di Parma, un dirigente non ha indagato sul reale intento della Cassa.

Il motivo e’ infondato.

Si tratta, infatti, di domanda fondata su nuova causa pretendi formulata per la prima volta solo nel secondo grado del giudizio, che, per il divieto di ius novorum in appello, non poteva essere proposta. Cio’ puo’ essere d’ufficio rilevato anche in sede di legittimita’ (V. per tutte Cass. 22 luglio 2004 n. 13618).

Con la quinta censura il D.V., prospettando violazione degli artt. 2095 e 2013 c.c. nonche’ degli artt. 112 e 132 c.p.c. e difetto di motivazione, deduce che la Corte di merito ha omesso di esaminare la domanda subordinata volta ad ottenere la qualifica dirigenziale a far tempo dall’11 aprile 1994 in conseguenza della nomina a preposto dell’area (OMISSIS) circondariale.

La censura e’ infondata.

Lo e’ perche’, come lo stesso ricorrente riconosce, la sentenza della Corte di Appello e’ riferibile, per quanto attiene al conseguimento della qualifica di dirigente, anche alle mansioni svolte quale preposto all’area (OMISSIS) circondariale.

Lo e’ altresi’, perche’ la lamentata omessa considerazione del regolamento interno, almeno per la parte trascritta nel ricorso, non e’ decisiva, atteso che da tale normativa non si evince l’attribuzione di poteri di autonomia e discrezionalita’ nelle scelte decisionali tale da influire sugli obiettivi complessivi dell’imprenditore, risultando i compiti affidati sempre sulla base d’indirizzi ricevuti o concordati con i superiori o con il Consiglio di Amministrazione o il Comitato esecutivo.

Con il sesto, ed ultimo motivo, il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1175, 1374 e 1375 c.c. nonche’ dell’art. 112 c.p.c. e difetto di motivazione, lamenta che la Corte territoriale ha erroneamente qualificato la domanda, “fatta valere a mezzo di appello incidentale” diretta ad ottenere la condanna della Cassa al rilascio di copia di tutte le delibere riguardanti promozione a dirigente di funzionari in servizio presso la Cassa intervenute dal 1990 al 1996, quale “forma sui generis di procacciamento di un mezzo di prova”.

Il motivo e’ infondato.

Infatti, oltre alla considerazione che l’interpretazione della domanda e l’apprezzamento della sua ampiezza costituiscono, anche nel giudizio di appello, ai fini della individuazione del “devolutum”, un tipico apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, e, pertanto, insindacabile in sede di legittimita’, se non sotto il profilo dell’esistenza, sufficienza e logicita’ della motivazione, nella specie adeguata, (Cfr. per tutte V. Cass. 6 ottobre 2005 n. 19475), vi e’ il rilievo che la domanda e’ nuova, come riconosciuto dallo stesso ricorrente che precisa di. averla svolta in grado di appello.

Valgono, quindi a tal ultimo riguardo, le osservazioni svolte in ordine al divieto di ius novorum in appello.

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimita’ seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’ liquidate in Euro 54,00 oltre Euro 2.000,00 per onorario ed oltre spese, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 6 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2010

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