Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10546 del 03/06/2020

Cassazione civile sez. VI, 03/06/2020, (ud. 13/12/2019, dep. 03/06/2020), n.10546

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2822-2019 proposto da:

V.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

GERARDO CORALLUZZO;

– ricorrente –

contro

G.R., P.S., P.L., nella qualità di eredi di

P.D., P.C., P.A., elettivamente domiciliati in

ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e

difesi dagli avvocati ENRICO GIOVINE, LAURA GIOVINE;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 8/2019 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 07/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 13/12/2019 dal Consigliere Relatore Dott. TEDESCO

GIUSEPPE.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

La Corte d’appello di Salerno ha confermato la decisione del Tribunale della stessa città, la quale, nella lite fra proprietari limitrofi, aveva riconosciuto che V.A., chiamata in causa da P.C., P.D. e P.A., aveva realizzato un interrato difforme dal progetto, il quale, fuoriuscente dal suolo per metri 1,33, era posto a distanza rispetto al fabbricato dei vicini inferiore a quella minima prescritta dalle norme tecniche di attuazione, che stabilivano la distanza in rapporto all’altezza; conseguentemente il primo giudice aveva ordinato la demolizione della parte del locale seminterrato fuoriuscente dal suolo.

Per la cassazione della sentenza la V. ha proposto ricorso affidato a tre motivi.

G.R., P.S., P.L., nella qualità di eredi di P.D., P.C. e P.A. hanno resistito con controricorso.

Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 873 c.c.

Le norme tecniche di attuazioni nella specie imponevano distacchi fra i fabbricati e non dai confini. Ciò rendeva quindi applicabile il principio della prevenzione.

Si sostiene che la porzione oggetto della sentenza di demolizione è compresa all’interno di un muro di cinta di altezza non superiore a tre metri, quindi escluso dal computo delle distanze.

Il motivo è infondato.

La corte d’appello ha considerato il distacco fra la parte di seminterrato della V. fuoriuscente dal suolo e il fabbricato degli attori, ravvisando rispetto a questo la violazione della distanza minima prescritta nel regolamento locale nel rapporto di 4/1 rispetto all’altezza.

La decisione è in linea con la giurisprudenza di questa corte:

a) in tema di distanze legali, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo (Cass. n. 23856/2018; n. 15972/2011); è stato chiarito che la sporgenza del manufatto dal suolo, quale requisito necessario perchè lo stesso sia soggetto alle disposizioni sulle distanze legali nei rapporti di vicinato, va riscontrata con riferimento al piano di campagna, cioè al livello naturale del terreno, non quindi al livello eventualmente inferiore cui si trovi un finitimo edificio realizzato con abbassamento di quel piano (Cass. n. 5450/1998; n. 4372/2000);

b) il muro di cinta, che ha le caratteristiche previste dall’art. 878 c.c., non è considerato costruzione ai fini delle distanze legali tra edifici; perciò esse vanno calcolate come se tale muro non esistesse (Cass. n. 342/1997; n. 922/1063).

In quanto al principio della prevenzione la ricorrente ritiene che ne sia stata esclusa l’applicazione in proprio favore in ossequio a un principio di giurisprudenza non applicabile nel caso in esame, in assenza di una norma regolamentare che imponesse un distacco minimo dal confine (si intende alludere al principio secondo cui in tema di distanze legali, il criterio della prevenzione non opera quando il regolamento locale preveda una distanza minima delle costruzioni dai confini, a meno che il regolamento consenta di costruire in aderenza o in appoggio: Cass. n. 14705/2019). La censura, però, non coglie la ratio decidendi: la corte ha negato che la convenuta potesse giovarsi della prevenzione non in considerazione di una norma regolamentare che imponesse una distanza dal confine, ma perchè, nel momento in cui essa edificò, era presente sul confine la costruzione dei convenuti. Quindi, secondo la valutazione della corte, “prevenienti” erano i convenuti e non l’attrice. Insomma i distacchi sono stati misurati dal confine non in relazione a questo considerato in modo ideale quale demarcazione fra i fondi, ma perchè su di esso era collocata la costruzione dei convenuti.

Il secondo motivo denuncia difetto di motivazione o motivazione apparente.

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte di merito ha condiviso e fatto proprie le repliche del consulente tecnico d’ufficio ai rilievi del consulente di parte attrice, che aveva contestato il calcolo dei distacchi invocando l’applicazione del regolamento comunale, art. 31.

Il motivo è infondato.

Il giudice del merito non è tenuto a fornire un’argomentata e dettagliata motivazione là dove aderisca alle elaborazioni del consulente ed esse non siano state contestate in modo specifico dalle parti, mentre, ove siano state sollevate censure dettagliate e non generiche, ha l’obbligo di fornire una precisa risposta argomentativa correlata alle specifiche critiche sollevate, corredando con una più puntuale motivazione la propria scelta di aderire alle conclusioni del consulente d’ufficio (Cass. n. 15147/2018; n. 23637/2016).

Nella specie il ricorrente censura la decisione, ma non indica quali dettagliate critiche avesse svolto contro l’operato del consulente.

Si deve ancora aggiungere che risulta dal medesimo ricorso che la norma regolamentare dell’art. 31 si occupa del criterio di misurazione delle distanze. Dalla previsione non è pertanto consentito trarre argomento per sostenere che le norme regolamentari non imponessero distacchi fra costruzione maggiori rispetto a quelle previste dal codice civile. E’ altrettanto arbitraria la lettura proposta dal ricorrente delle norme tecniche di attuazione, le quali, secondo il ricorrente, nel prevedere la distanza fra fabbricati in rapporto all’altezza, non costituivano “norma sulla distanza”, integrativa del codice civile.

E’ stato infatti chiarito che “in tema di distanze legali, sono da ritenere integrative del codice civile le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino, con qualsiasi criterio o modalità, la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d’interessi generali urbanistici, disciplinano solo l’altezza in sè degli edifici, senza nessuna relazione con le distanze intercorrenti tra gli stessi, proteggono, nell’ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini. Ne consegue che, nel primo caso, sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo, invece, è ammessa unicamente la tutela risarcitoria” (Cass. n. 5142/2019; n. 1073/2009).

Il ricorso, pertanto, va rigettato, con addebito di spese.

Ci sono le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti dell’obbligo del versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; dichiara ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 13 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2020

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