Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10542 del 03/05/2018


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Cassazione civile, sez. VI, 03/05/2018, (ud. 08/02/2018, dep.03/05/2018),  n. 10542

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che, con ricorso affidato a due motivi, l’avvocato P.S. ha impugnato la sentenza della Corte di appello di Catania, in data 26 luglio 2016, che, in accoglimento del gravame interposto da N.A. avverso la decisione del Tribunale della medesima Città, rigettava la domanda di risarcimento danni avanzata dal P. a seguito delle espressioni diffamatorie contenute in un esposto inviato dal N. al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Catania;

che resiste con controricorso N.A.;

che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale hanno depositato memoria sia il ricorrente, che il controricorrente;

che il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione in forma semplificata.

Considerato che:

a) con il primo mezzo è denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “ribaltamento del principio dell’onere della prova in relazione alla domanda attorea. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.”, avendo la Corte territoriale erroneamente addossato ad esso attore “la prova di avere spiegato al N. le finalità che si intendevano perseguire attraverso l’attività successiva alla definizione del procedimento penale”;

a.1) il motivo è inammissibile, prima ancora che manifestamente infondato.

Esso, infatti, non coglie appieno la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha anzitutto fatto applicazione del principio (comune alla giurisprudenza penale e civile di questa Corte: Cass. pen. 28081/2011 e Cass. civ. n. 20891/2013, in motivazione) per cui l’esposto o segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense, che contenga accuse di condotte deontologicamente e penalmente rilevanti tenute da un professionista nei confronti del cliente denunciante, costituisce esercizio di legittima tutela degli interessi di quest’ultimo, attraverso il diritto di critica (art. 51 c.p.), per il quale valgono i limiti ad esso connaturati, occorrendo, in primo luogo, che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (ancorchè erroneamente) convinto di quanto afferma.

In base a tale premessa la Corte territoriale ha ritenuto provata e fondata, in base alle risultanze di causa (e, dunque, in applicazione del c.d. principio di acquisizione del materiale probatorio, rispetto al quale va contemperato il principio generale di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c.: Cass. n. 21909/2013), “la lagnanza del N. circa l’inutilità dell’attività successiva all’archiviazione, ai fini della riattivazione del processo, e circa la mancanza di informazioni sulle finalità di tale attività”.

Dunque, il giudice di appello, soltanto a fronte della prova così raggiunta, ha ritenuto – in armonia con il riparto dell’onere probatorio – che l’avvocato P. non avesse dato dimostrazione contraria (e in primo grado neppure dedotto) di aver specificamente informato il N. sugli obiettivi effettivi dell’attività svolta successivamente all’archiviazione del processo penale, la cui inutilità era stata denunciata con l’esposto del cliente;

b) con il secondo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “erronea, illogica e contraddittoria motivazione nella valutazione delle prove in atti. Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.”, per aver la Corte territoriale valutato erroneamente e illogicamente le prove acquisite, le quali erano tali da dimostrare che il N. era stato chiaramente edotto di tutta l’attività svolta da esso legale;

b.1) il motivo è inammissibile, giacchè propone delle critiche alla sentenza impugnata secondo il paradigma del vizio motivazionale di cui alla formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 non più vigente e inapplicabile ratione temporis alla presente impugnazione (senza evidenziare, alla stregua della vigente norma processuale, alcun omesso esame di “fatto storico” decisivo e discusso), là dove in tal senso si collocano anche le doglianze di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (in quanto deducenti, inammissibilmente, un vizio motivazionale), non attingendo esse ad effettiva denuncia di violazione delle rispettive norme processuali (cfr. Cass. n. 11892/2016);

che la memoria del ricorrente non fornisce argomenti idonei a superare i rilievi che precedono;

che il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo in conformità ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, in favore del controricorrente, in Euro 7.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6-3 Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 8 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2018

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