Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10538 del 28/04/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 28/04/2017, (ud. 29/03/2017, dep.28/04/2017),  n. 10538

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana M.T. – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12073-2014 proposto da:

B.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA FABIO

MASSIMO 107, presso lo studio dell’avvocato ELISABETTA DI NOIA, che

lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 443/2013 della COMM. TRIB. REG. di ROMA,

depositata il 15/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/03/2017 dal Consigliere Dott. STALLA GIACOMO MARIA.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

p. 1. B.M. propone sei motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 443/04/13 del 15 novembre 2013 con la quale la commissione tributaria regionale del Lazio, in accoglimento – quale giudice di rinvio a seguito di ord. Cass. 30367/11 di annullamento per vizio processuale – dell’appello dell’agenzia delle entrate, ha ritenuto da lui non provato il diritto al rimborso della maggiore imposizione Irpef operata sulla liquidazione del Fondo Pensione Dirigenti Enel (PIA-Fondenel) spettantegli alla cessazione del rapporto di lavoro.

In particolare, la commissione tributaria regionale ha rilevato che: – in base a quanto statuito da Cass. SSUU 13642/11, oggetto di imposizione con aliquota del 12,50% sul reddito di capitale, in luogo della tassazione separata applicabile sul TFR, era unicamente la quota di liquidazione ascrivibile a rendimento da investimento delle somme sul mercato finanziario; – la prova, nell’an e nel quantum, del rendimento così inteso gravava sul contribuente che aveva richiesto il rimborso; – tale prova non era stata fornita dal B. mediante idonea documentazione di provenienza Enel.

Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c., anche con allegazione di ulteriore giurisprudenza di legittimità in materia. Il B. ha altresì richiesto una nuova rimessione della questione alle SSUU.

p. 2.1 Con il primo motivo di ricorso il B. lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – violazione e falsa applicazione della L. n. 482 del 1985, art. 6; posto che tale norma, così come interpretata dalle SSUU nella citata sentenza 13642/11, stabiliva l’imposizione del capitale rinveniente da contratti di assicurazione sulla vita con aliquota del 12,50%; e ciò sulla base del mero importo differenziale tra somma dei contributi accantonati e somma liquidata al dipendente. Là dove la CTR, in sede di rinvio, aveva invece ritenuto necessaria la prova di un elemento non previsto dalla legge, insito nel rendimento finanziario netto delle somme accantonate.

Con il secondo motivo di ricorso il B. deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – nullità della sentenza per difetto di motivazione; posto che la commissione tributaria regionale aveva accollato ad esso contribuente l’onere di provare un elemento – il rendimento finanziario netto nella suddetta nozione – che non era stato richiesto dalle SSUU nella decisione che la CTR, pure, aveva dichiaratamente posto a fondamento del proprio decisum.

p. 2.2 Questi due motivi di ricorso, suscettibili di trattazione unitaria, sono infondati.

La questione è stata già devoluta alle SSUU le quali, con la citata sentenza n. 13642 del 22 giugno 2011, hanno stabilito il principio secondo cui: “in tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma di capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ad un fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, la prestazione è assoggettata al regime di tassazione separata di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17, solo per quanto riguarda la “sorte capitale”, corrispondente all’attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del cd. rendimento si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dalla L. 26 settembre 1985, n. 482, art. 6; b) per gli importi maturati a decorrere dall’i gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui al D.P.R. n. 917 cit., art. 16, comma 1, lett. a) e art. 17″.

Tale indirizzo ha trovato successive plurime applicazioni anche in ordine alla nozione di “rendimento” qui rilevante: Cass. 287/12; 14498/12; 23520/12; 3130/14; 17365/14, ord.; 5614/15 ed altre.

In particolare, Cass. 17365/14 ord., cit., ha ripreso i vari profili nei quali si è articolato il ragionamento delle SSUU osservando, per quanto qui rileva, che: – sulla nozione di “rendimento” (tassabile al 12.50% fino al 31 dicembre 2000), viene richiamato che: “…per rendimento del capitale deve intendersi, come espressamente precisato nella parte motiva della citata sentenza delle Sezioni Unite (ultima parte del penultimo periodo del paragrafo 6.1), il “rendimento netto imputabile alla gestione sul mercato, da parte del Fondo, del capitale accantonato, la cui quantificazione deve essere compiuta dal giudice di merito, come questa corte ha avuto modo di ulteriormente specificare nella successiva sentenza 29583/11 – sulla base di “una congruente analisi giuridica della fattispecie concreta, che operi l’accertamento della “natura e quantità del rendimento che sarebbe stato erogato a favore del contribuente, verificando se vi sia stato (e quale sia stato) l’impiego da parte del Fondo sul mercato del capitale accantonato e quale (e quanto) sia stato il rendimento conseguito in relazione a tale impiego”; – risulta pertanto necessario, da parte del giudice del merito, svolgere un esame degli investimenti effettuati dal Fondo sul mercato finanziario (alla stregua delle norme contrattuali via via applicabili) e delle plusvalenze con essi realizzati, così da accertare “…se in concreto sussistesse un rendimento imputabile alla gestione sul mercato, da parte del Fondo, del capitale accantonato (ossia, in termini più espliciti, se la differenza tra le somme erogate al beneficiario e l’ammontare dei contributi versati da lui e dal datore di lavoro derivasse in tutto o in parte dalla gestione di tali contributi sul mercato finanziario)”:

Sempre sul problema della natura ed individuazione della quota di rendimento tassabile, per i “vecchi iscritti”, al 12,50% (sulla differenza tra ammontare del capitale corrisposto e quello dei premi riscossi, ridotta del 2% per ogni anno successivo al decimo), Cass. n. 3130/14 ha esplicitato nello stesso senso – la necessità dell’ accertamento di merito sulla sussistenza ed entità del rendimento (effettivo investimento sul mercato del capitale degli accantonamenti imputabili ai contributi versati al Fondo dal datore di lavoro e dal lavoratore; risultati dell’investimento; modalità dell’assegnazione delle eventuali plusvalenze così ottenute alle singole posizioni individuali). Posto che è sulla scorta di tale indagine che il giudice di merito “quantificherà la parte della somma complessivamente erogata al contribuente che corrisponda al rendimento netto derivante dalla gestione sul mercato finanziario del capitale accantonato mediante la contribuzione del lavoratore e del datore di lavoro e, quindi, calcolerà l’imposta dovuta dal contribuente (e, conseguentemente, l’ammontare del suo effettivo credito restitutorio) applicando solo a tale parte l’aliquota del 12,5%, (come sopra decrementata) secondo la disciplina dettata dalla L. n. 482 del 1985, art. 6, fermo restando, per il residuo, il regime di tassazione separata di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 16, comma 1, lett. a) e art. 17”. Sicchè non può dirsi pienamente rispettato il principio di diritto espresso dalle SSUU ove non sia stato dal giudice di merito compiuto un “accertamento approfondito ed analitico sulla natura e quantità del rendimento che sarebbe stato liquidato a favore del contribuente, verificando se vi sia stato (e quale sia stato) l’impiego sul mercato del capitale accantonato e quale (e quanto) sia stato il rendimento conseguito in relazione a tale impiego”.

Sulla base di ciò, vanno esclusi entrambi i vizi lamentati; posto che la commissione tributaria regionale – nel richiedere al B. la prova del rendimento finanziario netto – altro non ha fatto che porsi doverosamente il problema di verificare, in concreto, il concorso di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di rimborso.

p. 3.1 Con il terzo motivo di ricorso si lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, costituito dalla verifica dell’ammontare dei rendimenti conseguiti ai fini della applicazione della corretta tassazione. In particolare, la CTR non aveva preso in esame il prospetto analitico di liquidazione Fondenel prodotto in giudizio nonchè due certificazioni, ritualmente prodotte, rilasciate da Enel il 18 e 22 maggio 2006; documentazione probante dell’ammontare dei rendimenti inclusi nella capitalizzazione PIA, ed assoggettato ad aliquota del 12,50%.

Con il quarto motivo di ricorso il B. deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio; per non avere la CTR rilevato che dal prospetto di liquidazione Fondenel risultava come la quota ascrivibile ad esso contribuente fosse stata in effetti investita sul mercato finanziario (comparto obbligazionario), con conseguente applicazione dell’aliquota del 12,50%, come anche riconosciuto dall’agenzia delle entrate nel giudizio di riassunzione.

Con il quinto motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, posto che, qualora il giudice di merito non avesse ritenuto probante la documentazione versata in atti (prospetto Fondenel e certificazioni Enel), avrebbe dovuto fare ricorso ai poteri istruttori integrativi demandatigli dalla legge.

Con il sesto motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 2697 c.c.; per avere il giudice di rinvio specificamente individuato (certificazione Enel attestante le modalità e l’esito delle forme di investimento finanziario effettivamente ascrivibili alla quota di spettanza del contribuente) il tipo di prova che il contribuente avrebbe dovuto fornire per dimostrare il rendimento qui rilevante. Ciò si poneva in contrasto con il principio di libertà della prova e di terzietà del giudice.

p. 3.2 Questi quattro motivi di ricorso, tutti incentrati sulla prova del rendimento finanziario nella suddetta nozione, sono infondati.

Dopo aver correttamente inquadrato il principio di diritto disciplinante la vicenda, la commissione tributaria regionale si è posta l’obiettivo di “verificare se vi sia stato (e quale sia stato) l’impiego da parte del fondo, sul mercato, del capitale accantonato, e quale (e quanto) sia stato il rendimento conseguito in relazione a tale impiego”; e, pertanto, “se i capitali rinvenienti dalla contribuzione siano stati effettivamente investiti sul mercato finanziario; quali siano stati i risultati dell’investimento ed in qual modo sia stata determinata l’assegnazione delle eventuali plusvalenze alle singole posizioni individuali” (sent. pag. 5).

Nel fare ciò, la commissione tributaria regionale ha poi esaminato la documentazione prodotta dal B., ritenendola inadeguata allo scopo; in proposito essa ha dato anche conto del formarsi del proprio convincimento, posto che il rendimento preso in considerazione da tale documentazione “è l’asserito rendimento di polizza, ossia la differenza tra i contributi versati dal contribuente e dall’Enel ed il capitale erogato dallo stesso Enel, e non già il rendimento derivante dall’impiego sul mercato delle somme via via accantonate”. Una diversa soluzione, nel senso della fondatezza dell’istanza di rimborso, sarebbe derivata da una diversa documentazione probatoria; in ipotesi attestante: “1. che i contributi sono stati imputati a conti individuali dei singoli dipendenti per essere investiti sul mercato; 2. i risultati dell’investimento” (sent. pag. 6).

Non può dunque dirsi che la commissione tributaria regionale sia incorsa in “omesso esame” del fatto decisivo costituito dal rendimento; tanto che la documentazione Enel in oggetto è stata in effetti presa in esame, ma ritenuta inidonea alla prova, in quanto tutta incentrata su una nozione di rendimento puramente differenziale tra capitale accantonato e capitale erogato. Vanno dunque escluse le censure ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ciò anche con riguardo alle risultanze del prospetto analitico Fondenel, dovendosi ritenere che la commissione tributaria regionale abbia espresso il proprio giudizio di inadeguatezza probatoria con riguardo all’intero compendio documentale fornito dal contribuente; trattandosi, anche in tal caso, di fornire la prova (che il giudice di merito ha ritenuto non raggiunta) delle specifiche operazioni di investimento sul mercato finanziario realizzate con il portafoglio ascritto alla persona del B..

Va considerato che con la nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360 cit. così come interpretata sentenza delle SSUU 8053/14 – il legislatore è intervenuto, anche in funzione deflattiva, per ridurre ulteriormente, e drasticamente, l’ambito di rilevanza del vizio di motivazione.

E ciò è stato fatto secondo le seguenti direttrici: – riconduzione di tale vizio, ex art. 12 prel., al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso che è rilevante solo quel vizio che si concreti nella violazione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali ex art. 111 Cost., come attuato in via ordinaria dall’art. 132 c.p.c., n. 4); – conseguente riferibilità del vizio non più alle ipotesi di “insufficienza” della motivazione, ma soltanto a quelle di “inesistenza”della medesima, in quanto appunto rivelatrice dell’omesso esame” circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; in maniera tale che, nella nuova formulazione, il vizio motivazionale si restringe in quello di violazione di legge, quest’ultima individuata proprio nel suddetto art. 32 c.p.c., che impone al giudice di redigere la sentenza indicando “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”; – l’individuazione delle ipotesi di “nesistenza” della motivazione, considerate a tal punto radicali da determinare la nullità della sentenza, non soltanto in senso “fisico” o “documentale” (“mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”), ma anche logico-funzionale; nel senso di doversi reputare “inesistente”, ai fini in oggetto, anche la motivazione materialmente esistente, e però connotata da “mera apparenza”, dal “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, da un ragionamento “perplesso ed obiettivamente incomprensibile”; poichè in tutte queste ipotesi la motivazione offerta viene svolta in modo talmente carente o incoerente da non poterla individuare come giustificazione o ragione del decisum e, per ciò soltanto, da risolversi in una “non – motivazione” su una quaestio facti decisiva, il cui esame viene pertanto omesso; – l’imputazione dell’omissione ad un fatto storico (principale o secondario) la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ciò posto in linea generale, va precisato che – sulla base dei principi interpretativi testè riportati – l’omesso esame di elementi istruttori non rileva, nella specie, in sè; quanto come elemento meramente sintomatico e confermativo della “inesistenza” (nel senso, su indicato, della non emersione di una comprensibile e sicura ragione decisoria) della motivazione su un fatto decisivo del giudizio.

Il che, per le indicate ragioni, nella specie non è.

Per quanto concerne, infine, il governo da parte del giudice di merito delle regole sulla prova (oggetto specifico delle ultime due censure), basterà rilevare, in primo luogo, come il mancato esercizio dei poteri istruttori integrativi spettanti al giudice non può trovare sindacato in sede di legittimità; vertendosi di tipica materia discrezionale.

Sul piano della disciplina giuridica, vale qui ribadire come la consulenza tecnica d’ufficio non possa venire disposta in funzione puramente esplorativa e di esonero della parte dall’onere probatorio suo proprio; e la valutazione circa la sua ammissione non può essere sindacata in sede di legittimità (Cass. n. 88 dell’8.1.2004; Cass. n. 10784 del 7.6.2004; Cass. ord. n. 3130 dell’8.2.2011 ed altre). Non vi è ragione per non fare applicazione di questi principi anche al rito tributario; in ordine al quale si è infatti affermato che “il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, attribuisce al giudice tributario il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova non per sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma soltanto in funzione integrativa degli elementi di giudizio, il cui esercizio è consentito ove sussista una situazione obiettiva di incertezza, e laddove la parte non possa provvedere per essere i documenti nella disponibilità della controparte o di terzi” (Cass. n. 955 del 20/01/2016).

Nel caso di specie, pur ammettendosi in via di principio la possibilità per il giudice di merito di ricorrere ad integrazione istruttoria mediante acquisizione di informativa ovvero consulenza tecnica d’ufficio, è dirimente osservare come il giudice di merito abbia esaminato il quadro istruttorio fornito dalla parte, in maniera tale da escluderne la suscettibilità di integrazione ufficiosa.

Quanto poi alla indicazione di specifici mezzi di prova ritenuti idonei allo scopo, va considerato come nemmeno questa censura possa trovare accoglimento, posto che il giudice di merito – diversamente da quanto si sostiene – non si è “sostituito” alla parte nella selezione dei mezzi istruttori più opportuni al fine di dimostrare il fatto costitutivo della pretesa; limitandosi a dare conto del proprio convincimento in ordine alla inidoneità probatoria della documentazione offerta in atti.

La doglianza è dunque inconferente perchè, da un lato, non coglie l’effettiva ratio decisoria del giudice di rinvio e, dall’altro, configura una violazione di legge con riguardo a quello che altro non rappresenta se non l’esito di una determinata delibazione di merito ex art. 116 c.p.c., del compendio probatorio che il giudice ha ritenuto acquisito al giudizio.

Ne segue il rigetto del ricorso. La controvertibilità della materia, in una con il consolidarsi soltanto in corso di causa del su riportato indirizzo interpretativo, depongono per la compensazione delle spese.

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– compensa le spese;

– v.to il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;

– dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della quinta sezione civile, il 29 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2017

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