Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10530 del 30/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 30/04/2010, (ud. 16/03/2010, dep. 30/04/2010), n.10530

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

BIMOTA S.P.A. IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ASIACO 8, presso

lo studio dell’avvocato AURELI STANISLAO, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato TENTONI GIORGIO, giusta mandato in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

L.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 50,

presso lo studio dell’avvocato COSSU BRUNO, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CARIOLI IVAN, giusta mandato a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 731/2005 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 02/02/2006 r.g.n. 304/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2010 dal Consigliere Dott. CURZIO Pietro;

udito l’Avvocato AURELI STANISLAO; udito l’Avvocato BOMBOI SAVINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Bimota spa in liquidazione chiede l’annullamento della sentenza, pubblicata il 2 febbraio 2006, che, riformando la decisione di primo grado del Tribunale di Rimini, ha dichiarato che tra la societa’ e il lavoratore L.A. intercorre un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 2 settembre 1996 e ha condannato la societa’ al pagamento delle relative retribuzioni dal momento della costituzione in mora (2 settembre 1996). Il ricorso consta di sette motivi.

Il L. si difende con controricorso, formulando una eccezione preliminare: la sentenza sarebbe passata in giudicato “in ordine alla sussistenza di un rapporto unitario di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dal 2 settembre 1996” per un profilo diverso da quello oggetto dei motivi di ricorso per Cassazione. Tuttavia, il brano delle decisione richiamato nel controricorso a sostegno di questa tesi, non compie una affermazione netta e non consente di individuare una ragione diversa e chiara di fondamento della decisione. Il brano in questione, si propone come aggiuntivo alla ragione di fondo della decisione, e, piu’ che una affermazione, formula una ipotesi problematica, utilizzando una forma verbale (“evidenzierebbe”) che non consente di individuare una statuizione e, quindi, il fondamento di un giudicato. Quanto ai motivi di ricorso, valgono le seguenti osservazioni.

Con il primo motivo si censura la decisione perche’ sarebbe andata ultra petita, in quanto il lavoratore con l’appello aveva impugnato la decisione per una ragione di nullita’ della apposizione del termine (richiamo dell’accordo interconfederale e non del contratto collettivo di categoria) diversa da quella per la quale la Corte ha invece ritenuto nulla la clausola, costituita dalla genericita’ del richiamo contenuto nel contratto individuale di lavoro all’art. 10 dell’accordo interconfederale, senza precisare a quel delle ipotesi da questo previste alle lettere a), b) e c) facesse riferimento.

Con il secondo motivo, si ritorna sul punto, ritenendo che in tal modo la Corte ha anche rilevato d’ufficio la nullita’ del contratto per un motivo non dedotto dall’appellante.

Il terzo motivo concerne sempre il problema della mancata indicazione nel contratto individuale di quale tra le ipotesi previste dall’art. 10 dell’accordo interconfederale si intendesse richiamare. La scelta della Corte di ritenere nulla la clausola per tale mancata indicazione, viene qualificata falsa applicazione dell’art. 10 del citato accordo, nonche’ dei criteri di interpretazione dei contratti.

Il richiamo generico sarebbe, a parere della societa’, sufficiente, con conseguente facolta’ di provare aliunde la ricorrenza dei presupposti stabiliti da detta disposizione per la valida stipulazione del contratto a termine. I tre motivi devono essere valutati congiuntamente.

Deve premettersi che la falsa applicazione di una norma posta da un contratto collettivo nazionale di lavoro, in base alla disciplina processuale applicabile alla controversia in esame (la sentenza impugnata e’ stata pubblicata prima del 2 marzo 2006), non era motivo di ricorso per Cassazione.

La violazione dei criteri di interpretazione dei contratti, d’altro canto, e’ stata denunciata in modo aspecifico, senza indicare quale criterio ermeneutico sarebbe stato violato e perche’. In ogni caso la sentenza sul punto e’ motivata in maniera adeguata e priva di contraddizioni. La tesi argomentata dalla sentenza e’ che, avendo il contratto individuale fatto riferimento indistintamente all’art. 10 dell’accordo interconfederale senza precisare a quale delle tre diverse ipotesi ivi previste ricorresse nella specie, la clausola di apposizione del termine e’ nulla perche’ non specifica, come invece avrebbe dovuto fare, le ragioni della apposizione del termine. Questa tesi e’ corretta ed e’ adeguatamente motivata. Non puo’ ritenersi che il giudice sia andato ultra petita, ne’ che la Corte abbia sollevato la questione d’ufficio in quanto, sebbene in via subordinata, la questione era stata posta dal lavoratore.

Con il quarto motivo si denunzia la violazione dei canoni ermeneutici legali per omessa ricerca della volonta’ comune delle parti con riferimento alla durata trimestrale o semestrale del contratto a termine.

Il quinto motivo denunzia un vizio di “insufficiente motivazione in ordine del ritenuto termine trimestrale del contratto, in presenza di elementi istruttori scritti ed orali decisivi nel senso opposto”.

Entrambi i motivi sono infondati perche’ la questione e’ di merito e la motivazione fornita dalla Corte e’ adeguata e sufficiente. Quella che viene proposta non e’ una censura inquadrabile negli schemi dell’art. 360 c.p.c., ma una diversa valutazione del materiale probatorio.

Il sesto motivo denunzia violazione di legge perche’ la Corte avrebbe condannato al pagamento delle retribuzioni senza un termine finale, mentre il L. aveva chiesto che tale condanna avesse come termine finale quello della emissione della sentenza. Il motivo e’ infondato perche’, come riconosce anche la controparte nel controricorso, quel termine finale e’ implicito nella decisione emessa in conformita’ a quanto specificato nella domanda.

Il settimo motivo ritorna sul punto del termine finale, sottolineando che in memoria di costituzione in appello si era spiegato che la Bimota era stata messa in liquidazione e che pertanto la condanna non poteva andare oltre la data di scioglimento e messa in liquidazione ((OMISSIS)). Il ricorso sul punto e’ carente del requisito di autosufficienza, mentre la documentazione prodotta in sede di legittimita’ non rientra nei ristretti limiti tracciati dall’art. 372 c.p.c..

Il ricorso pertanto deve essere rigettato, con le relative conseguenze in ordine alle spese.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione alla controparte delle spese del giudizio di legittimita’, che liquida in Euro 33,00, nonche’ 3.000,00 Euro per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Cosi’ deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2010

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