Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10527 del 30/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 30/04/2010, (ud. 16/03/2010, dep. 30/04/2010), n.10527

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. D’AGOSATINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9958-2006 proposto da:

B.P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, viale

DELLE MILIZIE n. 1, presso lo studio dell’avvocato SPINOSO ANTONINO,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GRATTAROLA

MASSIMO;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.p.a., elettivamente domiciliata in ROMA, viale

EUROPA n. 175, presso la propria Direzione Affari Legali,

rappresentata e difesa dall’avvocato URSINO MARIA ROSARIA

dell’Ufficio legale interno, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

nonchè

sul ricorso 13374-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.p.a., come sopra domiciliata, rappresentata e

difesa;

– ricorrente incidentale –

contro

B.P.G., come sopra domiciliato, rappresentato e

difeso;

– controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 546/2005 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 23/03/2005; rgn. 2430//03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI MAMMONE;

udito l’Avvocato SPINOSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e

l’assorbimento di quello incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso al giudice del lavoro di Alessandria, B. P.G., premesso di essere un dipendente di Poste Italiane s.p.a. collocato a riposo dall’1.1.95 per raggiungimento della massima anzianità contributiva, chiedeva che fosse dichiarata la nullità della clausola del c.c.n.l. di categoria che aveva consentito la risoluzione del rapporto con conseguente risarcimento del danno.

2. Accolta la domanda e condannato il datore a risarcire il danno in misura pari alla differenza tra il trattamento pensionistico in godimento e lo stipendio di cui l’attore avrebbe goduto ove fosse rimasto in servizio fino al collocamento a riposo, proponeva appello Poste Italiane s.p.a. chiedendo la riforma della prima sentenza ed il rigetto della domanda.

La Corte d’appello di Torino, con sentenza 18-23.3.05, accoglieva parzialmente l’impugnazione riducendo la misura del risarcimento del danno alle differenze tra trattamento pensionistico e stipendio solo per il periodo 24.4-1.10.02.

Ritenuto applicabile il termine di prescrizione decennale e rigettata la tesi secondo cui il negozio risolutorio sarebbe stato tacitamente validato dal dipendente ex art. 1444 c.c., comma 2 la Corte territoriale, conformemente a consolidata giurisprudenza di legittimità, riteneva illegittima la clausola contenuta nell’accordo 26.11.94, integrativo del c.c.n.l. dei dipendenti delle Poste, e ne dichiarava la nullità inter partes. Liquidava il risarcimento nella misura delle retribuzioni omesse per il periodo intercorrente tra la costituzione in mora del datore (da individuare nel momento della notifica del ricorso introduttivo, avvenuta il 24.4.02) e il giorno in cui l’attore aveva compiuto il sessantacinquesimo anno di età ((OMISSIS)).

3. Propone ricorso per cassazione B.. Poste Italiane s.p.a.

risponde con controricorso e ricorso incidentale, a sua volta contrastato con controricorso dal ricorrente principale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. Preliminarmente i due ricorsi debbono essere riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c. per essere trattati in unico contesto.

5. Il ricorso principale può essere sintetizzato come segue.

5.1. Con il primo motivo B. deduce violazione degli artt. 1206 e 1218 e segg. c.c. e contraddittoria motivazione a proposito del ridimensionamento del risarcimento del danno per mancanza della mora accipiendi. Sostiene, infatti, parte ricorrente di essere stato indebitamente estromesso dal rapporto di lavoro, sorto originariamente a tempo indeterminato e suscettibile di estinzione solo per l’esistenza delle cause risolutive tipiche, di modo che a seguito della declaratoria di nullità era stata ripristinata la continuità del rapporto di lavoro. In questo caso il risarcimento del danno non avrebbe dovuto limitarsi al periodo successivo alla notifica del ricorso (da considerare momento di costituzione in mora del datore), atteso che il datore stesso si trovava già in una situazione di mora credendo avendo comunicato per iscritto la cessazione del rapporto e avendo implicitamente dichiarato di rifiutare le future prestazioni, cui il lavoratore si era sempre tenuto disponibile.

5.2. Con il secondo motivo deduce violazione dell’art. 1206 e segg.

c.c. sotto diverso profilo, ritenendo che nel caso di specie non fosse comunque necessaria l’offerta formale della prestazione.

Avrebbe errato la Corte di appello ad assimilare la fattispecie risarcitoria in esame al caso del risarcimento del danno spettante al lavoratore per la declaratoria di nullità del termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro a tempo determinato.

In quest’ultimo caso il termine è frutto della volontà comune dei contraenti, mentre nel caso in esame il termine risulta apposto unilateralmente nel corso del rapporto da parte del datore, seppure a seguito di pattuizione sindacale, di modo che l’offerta formale sarebbe stata del tutto ultronea, di fronte alla dichiarazione del datore di non voler ricevere la prestazione e di non voler corrispondere la prestazione, così determinando il proprio inadempimento.

5.3. Con il terzo motivo deduce violazione dell’art. 1219 c.c., n. 2 ed omessa motivazione, sostenendo che, trattandosi di contratto a prestazioni corrispettive, ai sensi dell’articolo in questione, la messa in mora del datore non sarebbe stata necessaria, avendo questi dichiarato per iscritto di non voler adempiere.

6. Il ricorso incidentale di Poste Italiane s.p.a. può essere a sua volta sintetizzato come segue.

6.1. Con il primo motivo (indicato con il numero 1) la ricorrente deduce violazione degli artt. 1442 e 1444 c.c. sostenendo che nella specie l’atto di recesso sarebbe annullabile e non nullo, in quanto fu adottato non in difformità di norme imperative, ma in conformità di una norma collettiva a sua volta dichiarata nulla, il che comporterebbe che la nullità del primo atto negoziale produce solo l’annullabilità e non la nullità del recesso adottato in sua esecuzione.

Inoltre, a ulteriore corollario dell’annullabilità dell’atto di recesso, sostiene che sarebbe intervenuta convalida tacita dell’atto stesso ai sensi dell’art. 1444. c.c., comma 2, atteso che il dipendente dalla data del collocamento a riposo fino alla notifica del ricorso (per oltre sette anni) non aveva espresso alcuna volontà contraria alla cessazione del rapporto, ma aveva percepito il trattamento pensionistico ed aveva ricevuto la buonuscita, senza esprimere riserve alla risoluzione del rapporto.

6.2. Con il secondo motivo (indicato con i nn. 2-3) deduce violazione dell’art. 1372 c.c. e carenza di motivazione su un punto prospettato dal datore di lavoro. Il giudice di merito non ha considerato che l’attore non ha tenuto alcun comportamento contrario alla cessazione del rapporto di lavoro, di modo che correttamente era eccepita l’intervenuta acquiescenza e, sul piano giuridico, l’avvenuta rinunzia all’esercizio del diritto. In particolare non sarebbe stata presa in considerazione la circostanza che erano trascorsi oltre sette anni tra la cessazione del rapporto e la proposizione della domanda e che il lavoratore aveva chiesto il trattamento pensionistico e previdenziale, senza fare successivamente offerta della sua prestazione.

6.3. Con il terzo motivo (indicato con i nn. 4-5-6) deduce violazione degli artt. 1223, 1225, 1362 e 1363 c.c. in relazione all’art. 79 del c.c.n.l. di categoria, nonchè carenza di motivazione, sostenendo sotto diverso profilo che il dipendente avesse fatto acquiescenza alla cessazione del rapporto, non avendo egli mai offerto al datore la sua prestazione ed avendo, quindi, per fatta concludentia dimostrato il proprio disinteresse al ripristino del rapporto.

6.4. Con il quarto motivo (indicato con il n. 7) è dedotta violazione degli artt. 2947 e 2948 c.c., in relazione all’art. 1442 c.c., a proposito della affermazione che il diritto invocato dal dipendente sarebbe sottoposto a prescrizione decennale, invece che quinquennale. Tale tesi è supportata da due argomentazioni: a) le pretese vantate dalla controparte sono comunque riferite alla prestazione periodica retributiva; b) nel caso in esame, trattandosi di nullità della clausola contrattuale collettiva, cui consegue l’annullabilità del recesso, l’azione di annullamento soggiace al termine prescrizionale quinquennale di cui all’art. 1442 c.c..

7. Per ragioni di conseguenzialità logica debbono essere esaminati per primi i motivi dedotti con il ricorso incidentale.

7.1. I motivi primo e quarto partono da uno stesso presupposto: nel caso di specie l’atto di recesso sarebbe annullabile e non nullo, in quanto adottato in difformità non di norme imperative, ma di una norma collettiva dichiarata successivamente nulla; la nullità di quest’ultima (primo atto negoziale) produrrebbe l’annullabilità e non la nullità del recesso (secondo atto negoziale) adottato in esecuzione della clausola negoziale. Da questa impostazione la ricorrente incidentale fa discendere due conclusioni: a) la convalida tacita del recesso, atteso che l’interessato, per lungo periodo e fino alla notifica del ricorso, pur conoscendo il motivo di annullabilità non ha espresso volontà contraria alla cessazione del rapporto (art. 1444 c.c., comma 2) (primo motivo); b) la prescrizione dell’azione relativa, essendosi l’attore proposto la domanda solo dopo sette anni, ben dopo la scadenza del termine quinquennale di prescrizione dell’azione di annullamento (art. 1442 c.c., comma 1) (secondo motivo).

A fondamento della sua tesi Poste Italiane richiama un precedente giurisprudenziale (Cass. 29.1.99 n. 14697). Tale pronunzia afferma la nullità della disposizione del CCNL dei dipendenti postali che consente la cessazione automatica del rapporto di lavoro al raggiungimento dell’età contributiva, senza necessità di recesso del datore di lavoro e, di conseguenza, l’invalidità dell’atto di recesso, che non può trovare giustificazione nell’atto collettivo.

La pronunzia, tuttavia, non prende posizione circa la natura di tale invalidità.

Va, invece, richiamata la giurisprudenza di questa Corte per la quale, ove l’azienda abbia comunicato la risoluzione del rapporto, in relazione alla clausola contenuta nel contratto collettivo che prevede la risoluzione automatica al raggiungimento della massima anzianità contributiva, non è configurabile un vero e proprio licenziamento, in quanto il datore di lavoro si limita ad adeguare il suo comportamento alla ritenuta avvenuta estinzione automatica del rapporto al verificarsi dell’evento considerato, e quindi il rapporto continua inalterato a causa della nullità della clausola collettiva che contempla tale estinzione. In questo caso, in conseguenza della nullità di detta clausola e in assenza di un valido recesso, il rapporto di lavoro continua inalterato, senza altro onere per il lavoratore, se non quello di offrire la disponibilità della propria prestazione, mediante messa in mora (v. Cass. 5.8.04 n. 15130 e 5.3.03 n. 3237, nonchè quanto sarà detto a proposito del ricorso principale).

Così ricondotta la questione negli esatti termini giuridici, considerato che l’azione promossa non attiene l’annullabilità del contratto (non facendosi questione di atto negoziale viziato da errore, violenza o dolo), la questione sollevata dalla ricorrente incidentale si prospetta inconferente.

E’, invece, esatto il rilievo della Corte d’appello che non essendo richiesto l’adempimento dell’obbligo retributivo ma solo il risarcimento del danno, la retribuzione assume esclusivamente la funzione di parametro, il che rende applicabile il termine di prescrizione decennale e non anche quello breve.

7.2. Inammissibili sono i motivi di ricorso incidentale secondo e terzo a proposito della mancata considerazione dell’atteggiamento tenuto dal dipendente dopo la cessazione del rapporto e prima di promuovere l’azione giudiziaria.

Non risulta (nè sono stati evidenziati la sede della relativa deduzione ed il conseguente vizio di omesso esame) che Poste Italiane s.p.a. abbia dedotto il comportamento tenuto dal lavoratore prima della proposizione della domanda sotto aspetto diverso di quello del suo rilievo ai fini dell’accertamento dell’intervenuta prescrizione ex art. 1442 c.c., su cui si è già detto. Solo in sede di legittimità si sostiene che il giudice di merito avrebbe omesso la valutazione del detto atteggiamento come fatto concludente, diretto ad accettare l’iniziativa del datore di porre fine al rapporto in adempimento alla clausola contrattuale collettiva.

I due motivi deducono, quindi, la questione per la prima volta in questo giudizio e si risolvono nella sottoposizione al giudice di legittimità di un inammissibile quesito di fatto, così rivelandosi inammissibili.

8. Procedendo ad esaminare in unico contesto i tre motivi del ricorso principale, deve rilevarsi che la giurisprudenza della Corte di cassazione è consolidata nel ritenere che in caso di domanda di risarcimento danni proposta dal lavoratore a seguito dell’intervenuto scioglimento del rapporto di lavoro determinatosi per effetto dell’iniziativa del datore fondata su clausola risolutiva contrattuale nulla, rimane a carico dello stesso lavoratore, in qualità di attore, l’onere di allegare e di provare il danno conseguito all’atto nullo produttivo dell’interruzione del rapporto, e tale danno può equivalere alle retribuzioni perdute a causa della mancata esecuzione delle prestazioni lavorative, ma presuppone che queste siano state offerte dal lavoratore e che il datore le abbia illegittimamente rifiutate (tra le tante v. Cass. 18.10.06 n. 22342, 7.6.07 n. 13292 e 5.12.08 n. 28847, specificamente riferite alla fattispecie ora in esame della nullità della clausola del CCNL Poste).

Parte ricorrente sostiene che non sarebbe necessaria la costituzione in mora del datore per due ragioni: in quanto a seguito dell’intervenuta nullità della clausola contrattuale sul piano giuridico è ripristinata la naturale continuità del rapporto di lavoro e perchè la costituzione in mora sarebbe ultronea, avendo il datore rifiutato la prestazione per iscritto recedendo dal rapporto.

Nella sostanza, dunque, il lavoratore avrebbe diritto al risarcimento del danno (e, quindi, alla corresponsione delle retribuzioni maturate) dal giorno del recesso, dal momento che, ricostituito nella sua integrità il rapporto, esso riprenderebbe il suo normale corso.

Deve, tuttavia, rilevarsi che, vertendosi in materia di contratto a prestazioni corrispettive ed essendo il diritto al risarcimento del danno regolato dalle regole generali sull’inadempimento delle obbligazioni contrattuali, non operando deroghe legali o contrattuali, la retribuzione spetta solo se la prestazione viene eseguita, salvo che il datore non versi in situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente.

Tale principio non è contraddetto dalla giurisprudenza richiamata dal ricorrente, la quale è riferita alla diversa questione delle conseguenze risarcitore dell’inesistenza del licenziamento per carenza dei requisiti formali previsti dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 2. In presenza di tale vizio (ad es. per la mancanza dell’atto scritto) il recesso non è idoneo a far venir meno la continuità giuridica del rapporto di lavoro, di modo che deve assegnarsi alla responsabilità esclusiva del datore di lavoro la mancata, effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente (v. per tutte Cass. 5.6.00 n. 7495).

Il giudice di appello, uniformandosi a tali principi, ha accertato che B., dopo la cessazione del rapporto, non offrì la propria prestazione a Poste Italiane prima della notifica del ricorso introduttivo (avvenuta il 24.4.02) e, pertanto, ha correttamente individuato il momento di decorrenza del risarcimento.

Il giudice, pertanto, non ha proceduto ad alcun indebito automatismo nell’equiparazione delle conseguenze risarcitorie della presente fattispecie a quelle presenti nel caso della scadenza del contratto a termine illegittimamente stipulato, essendosi limitato ad applicare un consolidato principio di diritto operante in entrambi i casi e calzante al caso di specie.

9. In conclusione, entrambi i ricorsi sono infondati e debbono essere rigettati.

La reciproca soccombenza comporta la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta, compensando le spese del giudizio di legittimità tra le parti.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2010

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