Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10526 del 30/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 30/04/2010, (ud. 16/03/2010, dep. 30/04/2010), n.10526

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. D’AGOSATINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20429-2006 proposto da:

POSTE ITAL SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, viale EUROPA 175,

presso lo studio dell’avvocato URSINO ANNA MARIA, che la rappresenta

e difende per procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, via XX

SETTEMBRE 1, presso l’avvocato ANGLANI ANGELO (Studio UGHI-

NUNZIANTE), rappresentato e difeso dagli avvocati BALDUCCI PIERLUIGI,

MASTRORILLI ESTERINA per procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1837/2005 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 07/07/2005; rg. 724/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI MAMMONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al giudice del lavoro di Bari, C.G., premesso di essere un dipendente di Poste Italiane s.p.a. collocato a riposo dal 2.1.97 per raggiungimento della massima anzianità contributiva, chiedeva che fosse dichiarata la nullità della clausola del c.c.n.l. di categoria che aveva consentito la risoluzione del rapporto e il suo diritto alla prosecuzione fino al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, con riammissione al servizio e risarcimento del danno.

Rigettata la domanda in ragione dell’acquiescenza tacita da lui prestata alla cessazione del rapporto, il C. proponeva appello sostenendo che le circostanze di fatto emerse nel corso del giudizio escludevano che egli avesse prestato detta acquiescenza e, nel merito, ribadendo la domanda già proposta in primo grado.

La Corte d’appello di Bari, con sentenza 21.6-7.7.05, considerava non sufficiente a configurare l’acquiescenza la mera inerzia dell’avente diritto, non essendo tale atteggiamento (rimasto nei limiti del termine della prescrizione del diritto) idoneo a qualificare l’effetto cancellatorio, in difetto di un atto significativo dell’intenzione di rinunziare. Riteneva, pertanto, che il titolare del diritto potesse scegliere il momento in cui esercitarlo in ragione delle circostanze da lui considerate più opportune.

Nel merito la Corte territoriale, in accordo con consolidata giurisprudenza di legittimità, riteneva illegittima la clausola contenuta nell’accordo 26.11.94, integrativo del c.c.n.l. dei dipendenti delle Poste, e ne dichiarava la nullità interpartes, sancendo l’automatica prosecuzione del rapporto di lavoro, con permanenza degli obblighi reciproci delle parti. Avendo al momento della pronunzia già raggiunto il limite massimo dell’età lavorativa, avendo compiuto il sessantacinque si mo anno di età, il C. aveva diritto solo al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni omesse per il periodo intercorrente tra la costituzione in mora del datore (da individuare nel momento della richiesta del obbligatorio tentativo di conciliazione) e il giorno del compimento del sessantacinquesimo anno di età, oltre rivalutazione ed interessi.

Propone ricorso per cassazione Poste Italiane s.p.a., cui risponde C. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso non è fondato Con il primo motivo parte ricorrente deduce violazione degli artt. 1442 e 1444 c.c. sostenendo che, non avendo il C. esercitato l’opzione al prolungamento del rapporto oltre il raggiungimento dell’anzianità contributiva, nella specie l’atto di recesso sarebbe annullabile e non nullo, in quanto adottato non in difformità di norme imperative, ma in conformità di norma collettiva a sua volta dichiarata nulla. Ne deriverebbe che la nullità dell’atto negoziale collettivo produrrebbe solo l’annullabilità e non anche la nullità del recesso adottato in sua esecuzione. L’azione di annullamento avrebbe dovuto essere assoggettata al termine di prescrizione quinquennale ex art. 1442 c.c., nella specie non rispettato dall’attore, che propose la domanda dopo sei anni dalla risoluzione del rapporto.

Ne deriverebbe, a ulteriore corollario, la convalida tacita dell’atto dì recesso ai sensi dell’art. 1444 c.c., comma 2, atteso che il dipendente dalla data del collocamento a riposo fino alla notifica del ricorso (per oltre sei anni) non ha espresso alcuna volontà contraria alla cessazione del rapporto, ma ha percepito il trattamento pensionistico, ha ricevuto la buonuscita e non ha espresso riserve alla risoluzione del rapporto.

Con il secondo motivo è dedotta violazione dell’art. 1372 c.c. e carenza di motivazione su un punto prospettato dal datore di lavoro.

Il giudice di merito non avrebbe considerato che l’attore non ha tenuto alcun comportamento contrario alla cessazione del rapporto, di modo che correttamente era eccepita l’intervenuta acquiescenza e, sul piano giuridico, l’avvenuta rinunzia all’esercizio del diritto. In particolare non sarebbe stata presa in considerazione la circostanza che erano trascorsi più di quattro anni tra la cessazione del rapporto e la proposizione della domanda e che il lavoratore aveva chiesto il trattamento pensionistico e previdenziale, senza fare successivamente offerta della sua prestazione.

Il primo motivo è inammissibile in quanto solleva una questione irrilevante ai fini della decisione della presente controversia.

Infatti, Poste Italiane mira a qualificare come azione di annullamento la domanda esercitata dal dipendente collocato a riposo al fine di procurare l’applicabilità del termine prescrizionale quinquennale dell’azione di annullamento, secondo la previsione dell’art. 1442 c.c.. Tale accertamento è irrilevante sotto il duplice punto di vista che una eccezione di prescrizione non risulta proposta e che, in ogni caso, l’applicabilità di detto termine prescrizionale non risulterebbe decisiva, in quanto la stessa società ricorrente (v. pg. 2 del ricorso) da atto che l’azione fu esercitata entro il quinquennio dal recesso del rapporto (recesso del 2.1.97 – notifica del ricorso introduttivo del 28.9.01).

L’esercizio dell’azione entro il quinquennio toglie, inoltre, anche ogni fondamento alle obiezioni di carattere motivazionale che parte ricorrente vorrebbe trarre dall’esercizio ultra tempus dell’azione, sostenendo che il giudice di merito avrebbe dovuto trarre da tale atteggiamento il convincimento della volontà contraria alla prosecuzione del rapporto da parte dell’attore.

E’, invece, infondato il secondo motivo, con cui si sostiene che il giudice di merito non avrebbe correttamente considerato che dal comportamento del C. anteriore alla proposizione dell’azione, non emergeva elemento alcuno per individuare la sua volontà di contrastare il recesso del datore di lavoro.

Il rapporto di lavoro dei dipendenti dell’amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni, privatizzato fin dall’epoca della trasformazione in ente pubblico economico della amministrazione postale in virtù del D.L. 1 dicembre 1993, n. 487, art. 1 conv.

dalla L. 29 gennaio 1994, n. 71, è assoggettato alla disciplina contrattuale collettiva comune, per cui anche per tale categoria di personale il contratto collettivo non può derogare le norme dì legge imperative. E’, quindi, nulla la previsione contrattuale per cui il rapporto di lavoro si risolve automaticamente al raggiungimento della massima anzianità contributiva. In tal caso non è configurabile un vero e proprio licenziamento, in quanto il datore di lavoro si limita ad adeguarsi alla ritenuta avvenuta estinzione automatica del rapporto per il verificarsi dell’evento considerato, con la conseguenza che per la nullità della detta clausola contrattuale e in assenza di un valido recesso, il rapporto di lavoro continua inalterato senza altro onere per il lavoratore, se non quello di offrire la disponibilità della propria prestazione, mediante la relativa messa in mora ex art. 1217 c.c. (v. la consolidata giurisprudenza e, per tutte, Cass. 5.8.04 n. 15130 e 5.3.03 n. 3237).

Circa la valutazione del l’atteggiamento tenuto dal lavoratore in risposta all’iniziativa del datore che pone fine al rapporto in adempimento a clausola contrattuale la giurisprudenza di questa Corte di cassazione ritiene che per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione del rapporto, nonchè, alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.

La valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (giurisprudenza costante a proposito dell’analoga situazione che si crea nel giudizio instaurato deal lavoratore ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato per l’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto, v. per tutte Cass. 17.12.04 n. 23554 e, più di recente, 10.11.08 n. 26935).

Nel caso di specie la Corte di merito ha elaborato una congrua ed articolata motivazione al riguardo, pervenendo alla conclusione che la tacita risoluzione consensuale invocata da Poste Italiane s.p.a.

non è realizzata in quanto “gli elementi di prova di quest’ultima devono essere univoci e chiari, ciò che non si ravvisa nella vicenda dedotta in lite”.

La sentenza impugnata considera adeguatamente tutte le circostanze che la ricorrente assume omesse; in particolare considerando il lasso di tempo intercorso tra la comunicazione della cessazione del rapporto e la costituzione in mora del datore, rilevando che effettivamente tra detta comunicazione e la promozione del tentativo di conciliazione obbligatorio sono intercorsi circa quattro anni, ma che, tuttavia, rispetto alla mera inerzia è necessario un quid pluris per configurare l’effetto cancellatorio a seguito del decorso di un tempo inferiore a quello fissato per la prescrizione.

In conclusione, entrambi i motivi sono infondati ed il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in Euro 19,00 per esborsi ed in Euro 2.000 (duemila) per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2010

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