Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10524 del 30/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 30/04/2010, (ud. 10/03/2010, dep. 30/04/2010), n.10524

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23858-2006 proposto da:

R.R., P.R., A.R., C.

G., elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 76

SC. 6^ INT 2, presso lo studio dell’avvocato ANDREOZZI CLAUDIO, che

le rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

FIBA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MERULANA 141, presso lo studio

dell’avvocato ALVITI MAURIZIO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato VENTURINI ANTONFRANCESCO, giusta mandato a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4918/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/08/2005 r.g.n. 6364/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/03/2010 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato ANDREOZZI CLAUDIO;

udito l’Avvocato ALVITI MAURIZIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.G., P.R., A.R. e R. R. convennero in giudizio la Fiba srl per sentir accertare che i rapporti instaurati con la convenuta, formalmente qualificati come di associazione in partecipazione, erano in effetti di natura subordinata, con conseguente condanna della parte datoriale al pagamento delle differenze retributive, nonchè per sentir dichiarare l’illegittimità degli operati licenziamenti, con applicazione della tutela reale.

Il primo Giudice ritenne la natura subordinata dei rapporti de quibus e condannò la convenuta al pagamento di quanto rispettivamente dovuto alle lavoratrici.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 23.9.2004 – 26.8.2005, accogliendo l’impugnazione proposta dalla Società e avendo ritenuto che i rapporti dedotti in giudizio non potevano ritenersi di natura subordinata, respinse le domande attoree.

A fondamento del decisum la Corte territoriale osservò, sulla scorta delle acquisite risultanze istruttorie, che le lavoratrici:

– erano responsabili di un reparto, curando il rifornimento della merce ed i rapporti con i fornitori, cosicchè alle medesime erano demandati compiti non propriamente elementari, di per se non facilmente conciliabili con un rapporto di natura subordinata (così dovendo intendersi il senso dell’affermazione, risultando frutto di evidente errore materiale l’utilizzo dell’aggettivo “autonoma” anzichè “subordinata”);

– non erano sottoposte al potere direttivo e disciplinare dei titolari della società o di loro delegati, non avendo alcun obbligo di produrre certificazione medica in caso di malattia e potendo sostituirsi a vicenda in caso di necessità;

– avevano il controllo degli, incassi giornalieri, nel rispetto, quindi, dell’obbligo di rendiconto previsto dall’art. 4 del contratto e che, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza di primo grado, doveva ritenersi ammettere equipollenti, essendo necessario unicamente che l’associato sia posto in grado di effettuare comunque un controllo sull’andamento economico dell’impresa;

– erano retribuite con una percentuale sugli incassi;

– la loro effettiva partecipazione al rischio di impresa era ulteriormente confermata dalla circostanza che erano state loro stesse a proporre l’apertura “non stop” dell’esercizio, per verificare come avrebbe risposto la clientela, all’evidente fine di incrementare gli incassi e, quindi, in definitiva, i propri introiti.

Avverso tale sentenza della Corte territoriale C. G., P.R., A.R. e R.R. hanno proposto ricorso per cassazione fondato su un unico motivo.

L’intimata Fiba srl ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo le ricorrenti denunciano vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in relazione alle disposizioni di cui agli artt. 2548 e 2094 c.c., dolendosi che la Corte territoriale abbia erroneamente valutato le risultanze istruttorie, dalla cui disamina doveva trarsi la conclusione della natura subordinata dei rapporti.

2. Osserva il Collegio che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato, la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’assodante, mentre il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio de generico potere dell’assodante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 8578/1999; 290/2000;

24871/2008).

E’ stato altresì precisato che nel contratto di associazione in partecipazione, non ostandovi alcuna incompatibilità con tale tipo negoziale, la partecipazione agli utili da parte dell’associato può tradursi nella partecipazione al ricavo dell’impresa anzichè agli utili netti e che non costituisce elemento caratterizzante del contratto la partecipazione alle perdite, atteso che l’associato che lavori in un’impresa con risultati negativi comunque è soggetto in senso lato ad un rischio economico (cfr, Cass., nn. 9264/2007;

24871/2008; 3894/2009).

Deve inoltre ribadirsi che, in tema di distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, in sede di legittimità è censurabile soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto – come tale incensurabile in tale sede se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici – la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice di merito ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (cfr, ex plurimis, Cass., n. 4036/2000) e che il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza – nonchè di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti – spetta in via esclusiva al giudice del merito, cosicchè la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico- formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, restando escluso che le censure concernenti il difetto di motivazione possano risolversi nella richiesta alla Corte di legittimità di una interpretazione delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 3994/2005; 27464/2006).

Nel caso che ne occupa la Corte territoriale ha fatto corretto riferimento ai surricordati criteri generali ed astratti per l’individuazione dei parametri distintivi tra associazione in partecipazione e lavoro subordinato, motivando il proprio convincimento in termini (quali esposti nello storico di lite) coerenti con le risultanze istruttorie esaminate ed immuni da vizi logici, cosicchè la decisione non viene scalfita dalle censure svolte, le quali si risolvono nella richiesta, inammissibile in questa sede, di un riesame delle emergenze probatorie, nessuna delle quali, per quanto esposto in ricorso, risulta peraltro relativa a circostanze che, ove non espressamente richiamate dalla Corte territoriale, appaiano di per sè caratterizzate da decisività in senso contrario a quanto ritenuto nella sentenza impugnata.

3. Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti alla rifusione delle spese di lite, che liquida in Euro 12,00, oltre ad Euro 3.000,00 (tremila) per onorari, spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2010

 

 

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