Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10524 del 13/05/2011

Cassazione civile sez. III, 13/05/2011, (ud. 20/01/2011, dep. 13/05/2011), n.10524

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8009/2006 proposto da:

A.C., (OMISSIS), I.C.

(OMISSIS), R.C. (OMISSIS), A.

A. (OMISSIS), R.S.

(OMISSIS), P.L. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEI GALLA E SIDAMA 49, presso lo studio

dell’avvocato TRIBULATO ALESSANDRO, rappresentati e difesi

dall’avvocato TRIBULATO Antonino con procura speciale del Dott.

ROBERTO CANNAVO’ Notaio in Lentini, del 19/05/2010, rep. n. 3692;

– ricorrenti –

contro

P.S., (OMISSIS), nella qualità di titolare

della ditta individuale ” P.S.”, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI 130-10, presso lo studio

dell’avvocato ZAPPULLA GIOVANNI, rappresentato e difeso dall’avvocato

D’AMICO Angelo giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 556/2005 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

Sezione Seconda Civile, emessa il 18/05/2005, depositata il

31/05/2005; R.G.N. 1915/2002.

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

20/01/2011 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato ANTONINO TRIBULATO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE Umberto, che ha concluso per la inammissibilità o il rigetto

del ricorso.

Fatto

IN FATTO

P.S. convenne in giudizio, dinanzi al pretore di Catania, i genitori dei minori A.A., R. S., Ar.Ci., R.C., B. S. e Ra.Ca. e, premesso di aver realizzato, in qualità di titolare dell’omonima impresa edile, per conto della società cooperativa La Maddalena, nove alloggi con annessi garages, espose che, alle 12.30 del 3 marzo 1996, uno dei soci assegnatari aveva visionato gli immobili, trovandoli in perfetto ordine, ma che, alle 17 del medesimo giorno, tale B.F. – informato della presenza di alcuni ragazzi che si aggiravano con fare sospetto intorno all’edificio e della provenienza dall’interno di questo di un rumore di vetri infranti e di mattoni rotti – aveva avvertito il presidente della cooperativa, P.L., il quale, recatosi sul posto, aveva notato la presenza di alcuni ragazzi intenti a scavalcare la recinzione per poi darsi alla fuga:

intervenuti in loco due agenti di polizia, era stato accertata l’esistenza di considerevoli danni alle strutture dell’edificio, e conseguentemente identificatine alcuni degli autori.

Il giudice di primo grado respinse la domanda.

La corte di appello di Catania, investita del gravame proposto dall’attore in prime cure, lo accolse osservando, per quanto ancora di rilievo nel presente giudizio di legittimità:

1) che era versata in atti prova certa della incursione vandalica di cui, nel pomeriggio del 3 marzo 1996, l’edificio costruito dall’appellante venne fatto oggetto;

2) che il teste B.F. aveva riferito di avere personalmente udito rumori di vetri infranti e di mattoni rotti, e di avere scorto una sagoma che, dall’interno di un appartamento sito all’ultimo piano, alzava la serranda e spaccava il vetro dell’infisso con una sbarra, onde l’immediato avviso dell’accaduto al presidente della cooperativa;

3) che il presidente della cooperativa, recatosi in loco, aveva notato 7-8 ragazzi all’interno del cortile dello stabile che, alla sua vista, si erano dati alla fuga;

4) che gli agenti di P.S. avevano riferito, con rapporto di P.G., del fermo operato nei confronti di 3 ragazzi – uno dei quali, A. A., alla loro vista si era liberato di un martello, mentre Ra.Ca., a sua volta fermato insieme con B.S., aveva loro spontaneamente consegnato due cacciaviti – e del successivo sopralluogo eseguito all’interno dell’edificio, ove avevano avuto modo di constatare la rilevanza dei danni riportati dalle infrastrutture interne ed esterne (tipiche conseguenze di atti vandalici);

5) che A.A., presentatosi il giorno seguente presso il commissariato di P.S. in compagnia del padre, aveva spontaneamente riferito che, con lui e con i due giovani fermati, erano presenti Ar.Ci., R.S. e R.C., oltre a tale Ri.St.;

6) che il coinvolgimento dei minori nei fatti di danneggiamento lamentati dall’appellante poteva dirsi evidente alla luce: delle ammissioni dell’ A. nel corso del giudizio penale celebratosi a carico degli ultraquattordicenni B. e Ra. circa la presenza del R.S., delle ammissioni dell’ Ar. in seno al medesimo giudizio circa la presenza del R., delle dichiarazioni del Ri., che aveva confermato la presenza in loco del R., come già riferito dall’ Ar., mentre nessun credito poteva annettersi alla deposizione di C. N., amico del padre dell’ A., attesa la determinante incertezza sulla data e sull’ora dei fatti da lui riferiti (presenza dell’ A. e del R.S. nel cortile di casa A.);

7) che inequivoca doveva per l’effetto ritenersi la comune e consapevole volontà dei 4 giovani di penetrare abusivamente nell’edificio al fine di consumare le descritte violenze sulle cose;

8) che l’ammontare dei danni risultava dall’approfondita ricognizione sullo stato dell’edificio compiuta dalla polizia scientifica, cosi come emergente dall’accurato verbale redatto con a corredo ben 115 fotografie;

9) che la possibilità della verificazione dell’evento di danneggiamento in epoca precedente a quella individuata dalle forze dell’ordine (come infondatamente ipotizzato dagli appellati) era del tutto esclusa alla luce della deposizione del teste I., che, in qualità di socio assegnatario di uno degli alloggi, aveva trovato l’edificio in perfetto ordine alle 12.30 del giorno del fatto;

10) che la corresponsabilità dei genitori degli autori del danneggiamento era confermata dalla mancata prova liberatoria su di essi incombente, non restando, in particolare, esclusa, sotto nessun profilo, la culpa in educando, consustanziata nella stessa, intrinseca consistenza dell’illecito commesso dai minori, sintomatico di gravi carenze dell’insegnamento delle più elementari regole di rispetto dei beni altrui. La sentenza è stata impugnata dagli appellati con ricorso per cassazione sorretto da 5 motivi (rubricati con lettere che vanno dalla A alla D, ma con erronea duplicazione di quest’ultima lettera, riferita a due differenti censure), oltre ad un sesto (indicato sub E) relativo alla disciplina delle spese del giudizio di merito. Resiste con controricorso P.S..

Le parti ricorrenti hanno tempestivamente depositato ampia memoria illustrativa.

Diritto

IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia Errata applicazione della legge (art. 2697 c.c.).

Con il secondo motivo, si denuncia Errata applicazione della legge (art. 115 e 116 c.p.c.); Errata applicazione della legge penale nel giudizio civile.

Con il terzo motivo, si denuncia, della sentenza impugnata, una asserita illegittimità per carenza di motivazione.

Con il quarto motivo, si denuncia, sotto altro profilo, una sua illegittimità per eccessiva onerosità.

Con il quinto motivo, si denuncia, infime, una errata valutazione delle risultanze istruttorie.

I motivi (ai limiti della inammissibilità quanto alla loro assai incompleta formulazione) possono essere congiuntamente esaminati attesane la intrinseca connessione.

Essi sono del tutto privi di pregio giuridico.

Valutati nel loro complesso, essi mostrano come la difesa dei ricorrenti aneli, pur sotto veste e sotto forma di (inesistenti) violazioni di legge, ad una vera e propria rivisitazione dei fatti di causa sotto il profilo del merito, auspicio, peraltro, destinato ad infrangersi sui noti e riconosciuti limiti del giudizio di legittimità che, come più volte affermato da questa corte regolatrice, consente di incidere sul decisum del giudice dell’appello esclusivamente sotto il profilo della violazione di legge o del decisivo vizio motivazionale.

Nella specie i ricorrenti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza impugnata in qualche misura rilevante sotto i profili di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si volgono piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata pronuncia censure del tutto inaccoglibili, da un canto, per la mancata trascrizione degli atti di causa, rilevanti in parte qua, la cui erronea interpretazione essi assumono quale fondamento del (preteso) error iuris in cui sarebbe incorso il giudice etneo (in particolare, la CTP, il verbale di P.S., le fotografie allegate, con conseguente violazione del noto principio di autosufficienza del ricorso per cassazione), dall’altro, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5, non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove c.d.

legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) si come del tutto legittimamente emerse, senza vizi logico-giuridici, nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Tutte le doglianze degli odierni ricorrenti si infrangono, pertanto, sul corretto e condivisibile impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello, che ha legittimamente valutato, sul piano indiziario, e secondo il proprio libero convincimento, la rilevanza delle prove, ivi comprese quelle emerse in sede penale (in applicazione del costante insegnamento di questo giudice di legittimità: ex multis, Cass. 1747/03; Cass. 20335/04, nonchè Cass. 11483/04, pur non conferentemente citata dai ricorrenti, a mente della quale la possibilità per il giudice civile, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all’esito del processo penale, non comporta alcuna preclusione per detto giudice nella possibilità di utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito con sentenza passata in giudicato e di fondare il proprio giudizio su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine a diretto esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla sentenza penale o, se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da individuare esattamente i fatti materiali accertati per poi sottoporli a proprio vaglio critico svincolato dalla interpretazione e dalla valutazione che ne abbia dato il giudice penale).

Del tutto infondata si appalesa, infine, la doglianza in ordine alla pretesa lesione dei principi dettati in tema di litisconsorzio necessario, del tutto impredicabile nella specie vertendosi in materia di obbligazioni solidali.

Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese segue – giusta il principio della soccombenza – come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per spese generali.

Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2011

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