Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10505 del 03/06/2020

Cassazione civile sez. I, 03/06/2020, (ud. 28/02/2020, dep. 03/06/2020), n.10505

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3225/2014 proposto da:

R.F., elettivamente domiciliato in Roma, Corso Trieste

87, presso lo studio dell’avvocato Arturo Antonucci, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Roberto Vassalle, in

forza di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Banca Monti dei Paschi di Siena s.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, quale società incorporante

dell’intimata Banca Antoniana Veneta s.p.a., elettivamente

domiciliata in Roma, largo Giuseppe Toniolo 6, presso lo studio

dell’avvocato Umberto Morera, che la rappresenta e difende in forza

di procura speciale in cale alla memoria di costituzione 6/2/2020;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1290/2013 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 21/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28/02/2020 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato il 23/6/2006 R.F. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Mantova la Banca Antoniana Popolare Veneta, incorporante la Banca Nazionale dell’Agricoltura, chiedendo la declaratoria della nullità di due contratti d’investimento in (OMISSIS) stipulati il (OMISSIS) e il (OMISSIS), per difetto di forma scritta del contratto quadro stipulato tra le parti, lamentando plurimi inadempimenti della Banca intermediaria agli obblighi di informazione e segnalazione di operazioni non adeguate e chiedendo, previa dichiarazione di nullità o risoluzione dei contratti di investimento, la condanna della Banca alla restituzione o al risarcimento della somma investita e della mancata rendita, mediante pagamento della somma di Euro 145.052,13, o somma veriore, con interessi e rivalutazione.

Si è costituita la Banca convenuta, chiedendo il rigetto della domanda dell’attore ed eccependo il difetto di legittimazione di R.F., quanto all’ordine del (OMISSIS), disposto da sua madre B.R., cointestataria del conto corrente collegato al conto deposito titoli, intestato al solo R..

Con sentenza dell’11/10/2007 il Tribunale di Mantova ha dichiarato il difetto di legittimazione attiva di R.F. con riferimento all’ordine di acquisto del (OMISSIS), impartito dalla sig.ra B.R.; ha dichiarato la nullità dei contratti quadro stipulati fra le parti per difetto di forma scritta; ha dichiarato la nullità dell’ordine di acquisto di (OMISSIS) del (OMISSIS), impartito dal R.; ha condannato la Banca convenuta a versare a R.F. la somma di Euro 100.802,03, oltre interessi e il R., per contro, a restituire alla Banca 255.000 (OMISSIS); ha condannato R.F. a pagare alla Banca la somma di Euro 284.830,82, oltre interessi legali dal 4/10/2006 al saldo, quale restituzione di cedole riscosse in forza di operazioni eseguite in forza in esecuzione dei contratti quadro ritenuti affetti da radicale nullità; ha compensato fra loro gli importi rispettivamente dovuti, condannando il R. al pagamento della differenza a suo debito; ha compensato le spese di lite.

2. La Corte d’Appello di Brescia, investita dell’impugnazione proposta da R.F., con sentenza del 21/11/2013 ha parzialmente riformato la pronuncia di primo grado.

La Corte di appello ha confermato il difetto di legittimazione dell’appellante in relazione all’ordine del (OMISSIS) disposto dalla madre, relativo a 35.000 obbligazioni del controvalore di Euro 35.840.668, sul presupposto che la sig.ra B. avesse agito in nome proprio e non in rappresentanza del figlio, ancorchè su suo mandato. Al riguardo la Corte di appello ha escluso la prova della contemplatio domini; ne ha tratto la conseguenza che unica obbligata verso l’intermediaria doveva ritenersi la mandataria senza rappresentanza, perchè il mandante non aveva il potere di esercitare le azioni contrattuali, come quella di risoluzione del contratto, che rimangono in capo al mandatario; ha escluso anche che vi fosse stata una ratifica valida desumibile dall'”attestato di eseguito” proveniente dalla Banca, che trovava giustificazione nell’esclusiva titolarità del conto corrente in capo all’appellante.

La Corte di appello ha poi affermato che la nullità D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 23, comma 3, poteva essere fatta valere soltanto dal cliente, ma ha aggiunto che, una volta dichiarata, si ripercuoteva su tutte le operazioni eseguite in attuazione dell’atto negoziale viziato; che la nullità di protezione non attribuiva all’investitore il potere di limitare gli effetti della nullità soltanto ad alcuni degli ordini, secondo la sua scelta; che l’invalidità si espandeva sull’intero rapporto ed investiva tutti gli ordini di acquisto; che, pertanto, in forza della normativa in materia d’indebito, il cliente era tenuto a restituire alla Banca i titoli acquistati, le cedole riscosse ed ogni altra utilità, così come la intermediaria era tenuta a restituire alla Banca l’importo erogato per l’acquisto dei titoli.

Tuttavia, nella fattispecie la Corte ha escluso che fosse stata proposta dalla Banca una domanda riconvenzionale di restituzione e ha ritenuto che fosse stata validamente introdotta in giudizio solo un’eccezione di compensazione, idonea, di conseguenza, solo a paralizzare la domanda restitutoria dell’attore.

La Corte di appello ha inoltre precisato che non era di ostacolo il fatto che la Banca avesse acquistato titoli da un collocatore terzo, perchè il venire meno del mandato conferitole dall’investitore aveva mantenuto in capo all’intermediario la proprietà dei titoli acquistati sul mercato e la nullità del contratto di negoziazione non incide sull’acquisto tra la Banca ed il terzo ma solo sull’effetto di cui all’art. 1706 c.c. del ritrasferimento automatico al mandante. Le cedole, sebbene erogate da un soggetto terzo (nella specie lo Stato emittente), in virtù della nullità del contratto quadro originario, rimanevano quindi di proprietà della Banca, non essendosi perfezionato l’acquisto dei titoli nella sfera giuridica del cliente.

La Corte di appello ha dichiarato inammissibile, perchè proposta per la prima volta in appello, la domanda del sig. R., volta ad ottenere il danno da mancata rendita riguardante gli utili e i dividendi maturati sulle cedole la cui restituzione era stata disposta dal Tribunale e ulteriormente maturandi nel periodo successivo all’incasso dell’ultima cedola.

La Corte territoriale ha infine confermato la statuizione del Tribunale riguardante la decorrenza degli interessi dovuti all’investitore dalla domanda giudiziale, non essendovi prova della malafede della Banca intermediaria. L’indebito sorgeva infatti dalla mancata sottoscrizione del contratto quadro da parte della Banca, nella copia prodotta in causa (questione non oggetto d’impugnazione) e tale mancanza non poteva che ritenersi frutto di mero errore.

3. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione R.F. affidato a sei motivi.

3.1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 1292,1388, 1704 e 1705 c.c. e dell’art. 61 Reg. Consob n. 11522 del 1998 in relazione alla ritenuta carenza di legittimazione attiva del ricorrente quanto all’operazione di acquisto del (OMISSIS).

Il ricorrente ha osservato che il contratto d’intermediazione e quello di conto corrente erano cointestati a lui ed a sua madre; ciascuno di essi, secondo quanto stabilito nel contratto, poteva impartire ordini di acquisto titoli; di conseguenza essi, anche singolarmente, agivano anche in rappresentanza dell’altro cointestatario ed erano entrambi legittimati ad agire in giudizio a tutela dei propri investimenti.

Inoltre l’attestato di “eseguito” recava l’espressa informazione “Vi informiamo di avere eseguito (…) la seguente operazione da voi disposta”, che, secondo quanto stabilito nell’art. 61 Reg. Consob viene fornita all’investitore e non ad altri.

Doveva pertanto trovare applicazione l’art. 1704 c.c. in relazione alla ratifica e non l’art. 1705 c.c. oltre che l’art. 1399 c.c. Infine, anche applicando l’art. 1705 c.c., il credito derivante dall’azione di nullità poteva essere esercitato dal mandante.

3.2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23 in relazione all’accoglimento dell’eccezione riconvenzionale di compensazione formulata dalla intermediaria.

In primo luogo, il ricorrente ha rilevato che l’accertamento della nullità dell’intero contratto quadro era stata richiesta in via meramente incidentale e strumentale alla declaratoria di nullità dei due ordini sopra identificati.

Tale limitazione era legittima in quanto gli ordini hanno una propria autonoma valenza negoziale che postula la formazione di un consenso ad hoc per la loro esecuzione mediante la prestazione dell’intermediario. Al riguardo non poteva pretendersi, in violazione dell’art. 100 c.p.c., che l’investitore debba denunziare la nullità di operazioni, eseguite in perfetta buona fede e che hanno comportato un utile, con ciò aggravando il danno già subito. Ove l’investitore dovesse scegliere tra il far valere la nullità dell’intero rapporto o subire, per evitare un maggior danno, la violazione dell’intermediario, ciò farebbe venire meno il carattere protettivo della nullità ed anche la funzione di tutelare l’integrità e la correttezza del mercato.

3.3. Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto il vizio di ultra-petizione della sentenza impugnata, per essere stata accertata con valore di giudicato la nullità del contratto quadro laddove ne era stato chiesto l’accertamento soltanto incidenter tantum.

3.4. Con il quarto motivo il ricorrente ha lamentato la violazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 10, comma 2 bis, per l’erronea affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, riguardante l’asserita non contestazione dell’entità delle cedole incassate dalla intermediaria in relazione agli ordini di acquisti scaturenti dal contratto quadro nullo.

I documenti da cui era stato desunto il fatto non contestato erano gli estratti conto prodotti dalla Banca che riportavano genericamente accrediti ed addebiti, senza alcuna distinzione tra le operazioni disposte dai singoli cointestatari e cedole o dividendi provenienti da operazioni diverse.

Il ricorrente, riportando ampi stralci del quarto motivo d’appello da lui proposto, ha precisato di aver contestato anche in relazione alla legittimazione attiva della Banca la riconduzione dell’importo complessivo a titolo di cedole nel rapporto giustificato dal contratto quadro.

L’effetto probante della non contestazione non poteva prodursi se era necessario che i fatti accertati fossero integrati da ulteriori prove e se aveva ad oggetto solo fatti secondari.

L’applicazione illegittima del principio di non contestazione avrebbe quindi determinato nella specie l’alterazione della regola di giudizio fissata nell’art. 2697 c.c.

3.5. Con il quinto motivo il ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 820, 1148 e 2033 c.c. in relazione all’obbligo dell’investitore di restituire le cedole riscosse in buona fede nel corso del rapporto. Il ricorrente aveva già prospettato il rilievo in questione precisando che le cedole nella specie erano state pagate dagli emittenti dei titoli e non dalla Banca con la conseguenza che la stessa difettava di legittimazione.

L’affermazione, secondo la quale in seguito alla declaratoria di nullità i titoli restavano di proprietà della Banca, non faceva venire meno la conseguenza che il pagamento delle cedole era stato effettuato in buona fede al soggetto che in virtù del possesso del titolo figurava esserne il proprietario.

Il ricorrente ha invocato pertanto il principio, scaturente dalle norme richiamate, secondo il quale il possesso di buona fede fa sì che i frutti riscossi siano dovuti solo dal giorno della domanda e non dal momento della loro materializzazione.

Secondo il ricorrente, il giudice d’appello aveva errato nel dare rilievo invece che al possesso di buona fede alla titolarità delle obbligazioni: essendo stata esclusa la malafede della Banca doveva a maggior ragione essere esclusa la malafede del cliente.

La Corte d’Appello aveva pertanto erroneamente ritenuto la Banca legittimata alla ripetizione di indebito oggettivo.

3.6. Con il sesto motivo il ricorrente ha lamentato la violazione degli artt. 1147, 1338 e 2033 c.c. nonchè del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23 in relazione al rigetto della domanda attorea di pagamento degli interessi sulla somma investita dalla data degli investimenti anzichè dalla domanda.

Il difetto di sottoscrizione del contratto quadro da parte della Banca portava a ritenere accertato che la stessa fosse a conoscenza della sua invalidità e della invalidità degli ordini relativi ai (OMISSIS) con la conseguenza dell’indebito originario in relazione ai pagamenti per i loro acquisti.

L’obbligo di forma era infatti posto ad esclusiva tutela del cliente e costituiva il primo livello di tutela dell’asimmetria informativa; ne conseguiva la presunzione di consapevolezza della Banca, tenuta a colmare tale squilibrio.

3.7. La Banca intimata non si è costituita nel giudizio di legittimità.

La parte ricorrente ha depositato memoria.

4. La causa è stata rinviata a nuovo ruolo con ordinanza del 5/12/2017, in attesa di una pronuncia delle Sezioni Unite sulla questione sollevata con il secondo motivo. Tale questione è rimasta tuttavia assorbita nelle successive sentenze n. 898 e 1200 del 2018 emesse dalle Sezioni Unite.

Quindi la Prima Sezione civile con ordinanza n. 23397 del 2/10/2018 ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, con riferimento alla questione sollevata nel secondo motivo di ricorso relativa all’esatta determinazione degli effetti e delle conseguenze giuridiche dell’azione di nullità proposta dal cliente in relazione a specifici ordini di acquisto di titoli che derivi, tuttavia, dall’accertamento del difetto di forma del contratto quadro.

Il punto controverso riguardava in particolare l’estensione degli effetti della dichiarazione di nullità anche alle operazioni che non hanno formato oggetto della domanda proposta dal cliente ed eventualmente i limiti di tale estensione.

5. Con sentenza n. 28314 del 4/11/2019 le Sezioni Unite, investite dell’esame della questione di massima di particolare importanza hanno enunciato il seguente principio di diritto: “La nullità per difetto di forma scritta, contenuta nel D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 3, può essere fatta valere esclusivamente dall’investitore con la conseguenza che gli effetti processuali e sostanziali dell’accertamento operano soltanto a suo vantaggio. L’intermediario, tuttavia, ove la domanda sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, può opporre l’eccezione di buona fede, se la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini, conseguiti alla conclusione del contratto quadro”.

In conseguenza le Sezioni Unite, in relazione al secondo motivo di ricorso, hanno confermato, con correzione della motivazione ex art. 384 c.p.c., u.c. la statuizione contenuta nella pronuncia impugnata, alla luce del principio di diritto così enunciato, conseguentemente rigettando il secondo e il terzo motivo di ricorso, e rimettendo all’esame della Prima Sezione civile l’esame dei rimanenti e la statuizione sulle spese processuali del procedimento.

Successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite si è costituita in giudizio con apposita memoria per la parte intimata la Banca Monte dei Paschi di Siena, già Banca Antonveneta.

Sia il ricorrente, sia la Banca Monte dei Paschi di Siena hanno depositato memoria difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La Corte ritiene opportuno, come sarà meglio chiarito infra, esaminare il primo motivo, che riguarda la questione della legittimazione relativa all’ordine di acquisto del (OMISSIS), dopo gli altri, e in particolare dopo quelli attinenti all’entità delle somme opposte in compensazione dalla Banca intermediaria.

2. Con il quarto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 10, comma 2 bis, con riferimento all’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata e ritenuta erronea, circa l’asserita non contestazione dell’entità delle cedole incassate dalla intermediaria in relazione agli ordini di acquisti scaturenti dal contratto quadro nullo.

2.1. Il ricorrente precisa che i documenti da cui era stato desunto il fatto non contestato erano gli estratti conto prodotti dalla Banca, che riportavano genericamente accrediti ed addebiti, senza alcuna distinzione tra le operazioni disposte dai singoli cointestatari e cedole o dividendi provenienti da operazioni diverse.

Il ricorrente, riportando ampi stralci del quarto motivo d’appello da lui proposto, precisa di aver contestato anche in relazione alla legittimazione attiva della Banca la riconduzione dell’importo complessivo a titolo di cedole nel rapporto giustificato dal contratto quadro.

L’effetto probante della non contestazione non poteva prodursi se era necessario che i fatti accertati fossero integrati da ulteriori prove e se ha ad oggetto solo fatti secondari.

L’applicazione illegittima del principio di non contestazione avrebbe quindi determinato nella specie l’alterazione della regola di giudizio fissata nell’art. 2697 c.c.

2.2. Nella specie l’applicazione del principio di non contestazione è scaturita dalla norma del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 1, comma 2 bis, poichè la causa era stata trattata in primo grado con il rito c.d. “societario”.

Il comma 2 bis dell’art. 10, aggiunto dal D.Lgs. 28 dicembre 2004, n. 310, art. 4, comma 1, disponeva che la notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza rendesse “pacifici i fatti allegati dalle parti ed in precedenza non specificamente contestati”.

2.3. La Corte territoriale ha ritenuto che la richiesta di fissazione dell’udienza avesse reso inesorabilmente pacifici i fatti allegati e nel caso l’entità delle cedole riscosse dal R., allegata dalla Banca, mentre la contestazione sollevata nell’istanza di fissazione di udienza da parte del R. relativamente a “tutto quanto da controparte dedotto” fosse tardiva e comunque ineludibilmente generica.

2.4. L’allegazione della Banca era contenuta alla pagina 16 della memoria D.Lgs. n. 5 del 2003, ex art. 7 in cui era stato affermato che “quanto alle cedole e dividendi il sig. R. ha sino ad oggi percepito, salva maggior diversa quantificazione all’esito della c. t. u., la complessiva somma di Euro 314.336,822, già allo stato documentata in atti (all. 9)”; il predetto allegato 9 era costituito dagli estratti del conto corrente cointestato.

2.5. Secondo il ricorrente, l’allegazione in questione, a causa del rinvio al documento n. 9, era relativa ad un fatto secondario, ossia che sul conto cointestato fossero state accreditate cedole per un certo importo, e non al fatto primario e cioè che tali cedole fossero fruttate dagli investimenti posti in essere esclusivamente dal R. e tramite la stessa Banca, da cui derivava l’obbligo di restituzione.

2.6. L’argomentazione non può essere condivisa: l’allegazione formulata dalla Banca convenuta era inequivoca e si reggeva indipendentemente dal richiamo esplicativo e probatorio al contenuto degli estratti conto prodotti.

2.7. Nella memoria del 27/1/2020, a pagina 4, il ricorrente torna sull’argomento e sostiene che l’allegazione della Banca era di per sè insufficiente perchè sarebbe stata necessaria anche l’ulteriore prova (a) che le cedole erano di spettanza del R. (e non dell’altra cointestataria del conto corrente) e (b) che le cedole provenivano da investimenti effettuati nel corso del medesimo rapporto e tramite la stessa Banca.

Non appare revocabile in dubbio che l’allegazione di cui si discute si riferisse agli investimenti del R. e all’intermediazione della stessa Banca; non serviva quindi alcuna ulteriore prova perchè l’allegazione della Banca riguardava oggettivamente proprio entrambi i profili, a fronte dei quali il ricorrente non aveva sollevato la tempestiva debita contestazione.

3. Con il quinto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 820, 1148 e 2033 c.c. in relazione all’obbligo dell’investitore di restituire le cedole riscosse in buona fede nel corso del rapporto.

3.1. Il ricorrente ricorda di aver già prospettato il rilievo in questione, precisando che le cedole nella specie erano state pagate dagli emittenti dei titoli e non dalla Banca con la conseguenza che la stessa difettava di legittimazione.

L’affermazione secondo la quale con la declaratoria di nullità i titoli restavano di proprietà della Banca non faceva venire meno la conseguenza che il pagamento delle cedole era stato effettuato in buona fede al soggetto che in virtù del possesso del titolo figurava esserne il proprietario.

Il ricorrente invoca pertanto il principio, scaturente dalle norme richiamate, secondo il quale il possesso di buona fede fa sì che i frutti riscossi siano dovuti solo dal giorno della domanda e non dal momento della loro maturazione.

Pertanto il giudice d’appello aveva errato nel dare rilievo invece che al possesso di buona fede alla titolarità delle obbligazioni. Essendo stata esclusa la malafede della Banca, a maggior ragione doveva essere esclusa la malafede del cliente.

La Corte d’Appello aveva pertanto erroneamente ritenuto la Banca legittimata alla ripetizione di indebito oggettivo.

3.2. Il motivo appare infondato alla luce della impostazione accolta dalle Sezioni Unite, in sede di esame del secondo motivo di ricorso, del tema dell’opposizione selettiva delle nullità di protezione da parte del cliente investitore e della spettanza all’intermediario della cosiddetta eccezione di buona fede, ove la selezione della nullità ex adverso operata determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini, conseguiti alla conclusione del contratto quadro.

A tale impostazione infatti rimane estraneo il tema della condictio indebiti (nella specie: ob causam finitam) e della restituzione dell’indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., a cui si ispira la censura del ricorrente, che in relazione a tale istituto invoca la disciplina che collega l’obbligo dell’accipiens in buona fede di restituire i “frutti civili”, quali sono le cedole dei titoli di credito obbligazionari pagate periodicamente dal soggetto emittente, solo dal giorno della domanda e non già dal giorno della loro percezione, come è invece previsto per il caso di malafede dell’accipiens.

3.3. Per comprendere la correttezza del rilievo è necessario ripercorrere brevemente il percorso seguito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 28314/2019 relativa a questo stesso ricorso.

Secondo le Sezioni Unite il regime giuridico della legittimazione a far valere le nullità di protezione contrasta con il disposto dell’art. 1421 c.c.; le nullità di protezione, sia che investano singole clausole, sia che riguardino l’intero contratto, non possono essere fatte valere che da una sola parte, salvo il rilievo d’ufficio del giudice nei limiti indicati nella pronuncia n. 26442 del 2014 delle Sezioni Unite, in applicazione del principio solidaristico e costituzionalmente fondato, della buona fede; la legittimazione dell’altra parte è radicalmente esclusa, trattandosi di nullità che operano al fine di ricomporre un equilibrio quanto meno formale tra le parti; tale esclusione è il frutto della predeterminazione legislativa della posizione di squilibrio contrattuale tra le parti in relazione ad alcune tipologie contrattuali; il principio di buona fede e correttezza contrattuale, così come sostenuto dai principi solidaristici di matrice costituzionale, opera, in relazione agli interessi dell’investitore, mediante la predeterminazione legislativa delle nullità di protezione predisposte a suo esclusivo vantaggio, in funzione di riequilibrio generale ed astratto delle condizioni negoziali garantite dalla conoscenza del testo del contratto quadro, nonchè in concreto mediante la previsione di un rigido sistema di obblighi informativi a carico dell’intermediario; non può tuttavia escludersi la configurabilità di un obbligo di lealtà dell’investitore in funzione di garanzia per l’intermediario che abbia correttamente assunto le informazioni necessarie a determinare il profilo soggettivo del cliente al fine di conformare gli investimenti alle sue caratteristiche, alle sue capacità economiche e alla sua propensione al rischio; il principio di buona fede può quindi avere un ambito di operatività trasversale, non limitata soltanto alla definizione del sistema di protezione del cliente, e può quindi valere ad escludere un ingiustificato pregiudizio alla controparte del soggetto “debole”, pur se applicate conformemente al paradigma legale; la questione della legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione nei contratti aventi ad oggetto servizi d’investimento deve essere affrontata assumendo come criterio ordinante l’applicazione del principio di buona fede, al fine di accertare se sia necessario alterare il regime giuridico peculiare di tale tipologia di nullità, sotto il profilo della legittimazione e degli effetti, per evitare che l’esercizio dell’azione in sede giurisdizionale possa produrre effetti distorsivi ed estranei alla ratio riequilibratrice in funzione della quale lo strumento di tutela è stato introdotto e impedire gli effetti di azioni esercitate in modo arbitrario o caratterizzate dall’abuso dello strumento di protezione ad esclusivo detrimento dell’altra parte.

Nello scrutinare le varie declinazioni dei possibili strumenti di correzione degli abusi, le Sezioni Unite hanno preliminarmente escluso le opzioni che prescindevano del tutto dalla considerazione del principio di buona fede, o perchè negavano la legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione fino al riconoscimento del diritto a richiedere la ripetizione dell’indebito in relazione agli investimenti non selezionati dall’investitore ma travolti dalla nullità del contratto quadro, o perchè ne consideravano legittima l’azione senza alcun limitazione, ritenendo tale soluzione l’unica coerente con l’operatività ad esclusivo vantaggio del cliente delle nullità di protezione.

Secondo le Sezioni Unite il principio di buona fede deve essere considerato, tuttavia, in modo non del tutto coincidente con le figure dell’exceptio doli generalis e dell’abuso del diritto.

Nel contesto del congegno di riequilibrio effettivo delle parti contrattuali di fronte all’uso selettivo delle nullità di protezione non può mancare un esame degli investimenti complessivamente eseguiti, ponendo in comparazione quelli oggetto dell’azione di nullità, derivata dal vizio di forma del contratto quadro, con quelli che ne sono esclusi, al fine di verificare se permanga un pregiudizio per l’investitore corrispondente al petitum azionato. In questa ultima ipotesi deve ritenersi che l’investitore abbia agito coerentemente con la funzione tipica delle nullità protettive, ovvero quella di operare a vantaggio di chi le fa valere. Pertanto, per accertare se l’uso selettivo della nullità di protezione sia stato oggettivamente finalizzato ad arrecare un pregiudizio all’intermediario, si deve verificare l’esito degli ordini non colpiti dall’azione di nullità e, ove sia stato vantaggioso per l’investitore, porlo in correlazione con il petitum azionato in conseguenza della proposta azione di nullità. Può accertarsi che gli ordini non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto un rendimento economico superiore al pregiudizio confluito nel petitum. In tale ipotesi, può essere opposta, ed al solo effetto di paralizzare gli effetti della dichiarazione di nullità degli ordini selezionati, l’eccezione di buona fede, al fine di non determinare un ingiustificato sacrificio economico in capo all’intermediario stesso. Può, tuttavia, accertarsi che un danno per l’investitore, anche al netto dei rendimenti degli investimenti relativi agli ordini non colpiti dall’azione di nullità, si sia comunque determinato.

Entro il limite del pregiudizio per l’investitore accertato in giudizio, l’azione di nullità non contrasta con il principio di buona fede; oltre tale limite, opera, ove sia oggetto di allegazione, l’effetto paralizzante dell’eccezione di buona fede.

Di conseguenza, se i rendimenti degli investimenti non colpiti dall’azione di nullità superano il pregiudizio accertato per l’investitore, l’effetto impeditivo è integrale; ove invece si determina un danno per l’investitore, anche all’esito della comparazione con gli altri investimenti non colpiti dalla nullità selettiva, l’effetto paralizzante dell’eccezione opera nei limiti del vantaggio conseguito con detti investimenti.

3.4. Così ricostruiti i lineamenti dell’eccezione di buona fede opponibile dall’intermediario all’uso selettivo delle nullità di protezione da parte dell’investitore, appare evidente che nel suo ambito non residuano spazi per l’applicazione delle regole in tema di indebito oggettivo in relazione alle prestazioni effettuate dall’intermediario.

L’intermediario oppone l’eccezione in questione per evitare un uso oggettivamente distorsivo delle regole di legittimazione in tema di nullità protettive e al solo fine di paralizzare, in tutto o in parte, come sopra illustrato, gli effetti restitutori dell’azione selettiva governata dal cliente investitore, effetti in tal modo suscettibili di essere neutralizzati nei limiti dell’utilitas economica ritratta dall’investitore in conseguenza del contratto quadro affetto dalla nullità da lui fatta valere e solo da lui invocabile.

Nella cornice dell’eccezione di buona fede così tratteggiata le cedole medio tempore riscosse dall’investitore, tanto in relazione alla stessa operazione di investimento aggredita con l’azione di nullità, quanto in relazione alle altre operazioni di investimento poste in essere in forza dello stesso contratto quadro dichiarato nullo, non vengono in considerazione nè come oggetto dell’indebito, nè quali frutti civili ex art. 820 e 2033 c.c., ma rilevano solo come limite quantitativo all’efficace esperimento della domanda di indebito esperita dall’investitore a valle della sua attivazione selettiva delle nullità protettive.

Tale conclusione è confermata e resa evidente dalla riflessione che nel sistema disegnato dalla sentenza n. 28314/2019 l’intermediario, privo di legittimazione in tal senso, non può chiedere la restituzione, a titolo di indebito oggettivo, delle utilità ritratte dal cliente grazie alle operazioni di investimento non interessate dalla domanda di nullità, se queste eccedono la somma da restituire a costui, nè in via riconvenzionale nello stesso giudizio caratterizzato dall’uso selettivo delle nullità di protezione, nè, successivamente o separatamente, in altro giudizio.

3.5. Il quinto motivo deve pertanto essere rigettato, alla stregua del seguente principio di diritto ex art. 384 c.p.c. che la Corte reputa opportuno enucleare ad ulteriore specificazione del principio enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 28314/2019: “Nel caso in cui l’intermediario opponga l’eccezione di buona fede per evitare un uso oggettivamente distorsivo delle regole di legittimazione in tema di nullità protettive, al solo fine di paralizzare, in tutto o in parte, gli effetti restitutori conseguenti all’esperimento selettivo dell’azione di nullità da parte del cliente investitore, nei limiti della complessiva utilitas economica ritratta da quest’ultimo grazie all’esecuzione del contratto quadro affetto dalla nullità dal medesimo fatta valere, le cedole medio tempore riscosse dall’investitore non vengono in considerazione nè come oggetto dell’indebito, nè quali frutti civili ex art. 820 e 2033 c.c., ma rilevano solo come limite quantitativo all’efficace esperimento della domanda di indebito esperita dall’investitore”.

4. Con il sesto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1147, 1338 e 2033 c.c. nonchè del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23 in relazione al rigetto della domanda attorea volta ad ottenere il pagamento degli interessi sulla somma investita dalla data degli investimenti anzichè da quella successiva della domanda.

4.1. Secondo il ricorrente, il difetto di sottoscrizione del contratto quadro da parte della Banca comportava che la stessa fosse a conoscenza della sua invalidità, come pure della invalidità degli ordini relativi ai (OMISSIS), con la conseguenza dell’indebito originario in relazione ai pagamenti effettuato per i loro acquisti. Da qui il ricorrente desume la malafede della Banca accipiens e la debenza degli interessi dalla data degli investimenti e non da quella della domanda.

4.2. La censura così svolta è affetta da vizi che ne determinano l’inammissibilità per due diverse ragioni.

4.3. In primo luogo, tenuto conto di quanto statuito dalle Sezioni Unite con la sentenza 28314/2019 in sede di esame del secondo motivo di ricorso e di quanto osservato nel precedente p. 3 in sede di esame del quinto motivo, il motivo difetta di specificità.

Il ricorrente, infatti, non allega e non dimostra, con idonea argomentazione, come sarebbe stato necessario, che la rivendicata attribuzione degli interessi legali dalla diversa e anticipata data di decorrenza (ossia dall’agosto 1999 e non dal giugno 2006) avrebbe aumentato il montante complessivo della sua pretesa (Euro 100.802,03, come riconosciuto in linea capitale dalla sentenza impugnata, o Euro 145.052,13, come da lui richiesto in linea capitale) superando la barriera frapposta dall’eccezione di buona fede della Banca (Euro 284.830,82).

4.4. In secondo luogo, il ricorrente, sotto l’egida della violazione di legge, mira in realtà a criticare, nel merito e perciò inammissibilmente, la valutazione espressa dalla Corte territoriale circa la buona fede della Banca, peraltro presunta ex art. 1147 c.c.

Secondo la Corte di appello, non vi era prova della malafede perchè l’indebito traeva origine, in forza di statuizione passata in giudicato interno, come rilevato puntualmente dalle Sezioni Unite (pag.10, p. 14 della sentenza 28314/2019) dalla dichiarazione di nullità del contratto quadro per mancanza della sottoscrizione della sola Banca nella copia prodotta in causa, firmata invece dai clienti, ritenuta verosimilmente frutto di un mero errore.

Il ricorrente contesta tale valutazione in modo del tutto apodittico, pretendendo in modo pressochè automatico di ritrarre la prova della mala fede dalla competenza professionale dell’intermediario, per aver omesso di sottoscrivere debitamente la copia del contratto in suo possesso.

Inoltre in materia di indebito oggettivo, la buona fede dell’accipiens, rilevante ai fini della decorrenza degli interessi dai giorno della domanda, va intesa in senso soggettivo, quale ignoranza dell’effettiva situazione giuridica, derivante da un errore di fatto o di diritto, sicchè, essendo essa presunta per principio generale, grava sul solvens, che intenda conseguire gli interessi dal giorno del pagamento, l’onere di dimostrare la malafede dell’accipiens all’atto della ricezione della somma non dovuta, quale consapevolezza della insussistenza di un suo diritto a conseguirla (Sez. 6 – 3, n. 23543 del 18/11/2016, Rv. 643003 – 01; Sez. L, n. 10815 del 08/05/2013, Rv. 626436 – 01; Sez.3, 10/3/2005, n. 5330; Sez. 3, n. 1293 del 06/02/1998, Rv. 512365 – 01; Sez.lav. 17/9/1991 n. 9689).

In giurisprudenza è stato anche aggiunto che in materia di indebito oggettivo, ai fini della decorrenza degli interessi ai sensi dell’art. 2033 c.c. e della rilevanza dell’eventuale maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, rileva una nozione di buona fede in senso soggettivo, coincidente con l’ignoranza dell’effettiva situazione giuridica in conseguenza di un errore di fatto o di diritto, anche dipendente da colpa grave, non essendo applicabile la disposizione dettata dall’art. 1147, comma 2, in riferimento alla buona fede nel possesso (Sez. lav., 25/05/2007, n. 12211; Sez. lav. 5/5/2004 n. 8587; Sez. lav. 13/6/1996 n. 5419).

Infine l’indagine relativa alla malafede si risolve in un accertamento in fatto demandato al giudice di merito, sottratto al sindacato del giudice di legittimità ove congruamente e logicamente motivato (Sez. 1, n. 21050 del 02/11/2004, Rv. 577916 – 01; Sez. L, n. 8723 del 07/05/2004, Rv. 572729 – 01; Sez. 2, n. 2210 del 05/02/2004, Rv. 569914 – 01).

5. Resta da esaminare, come riservato nel p. 1., il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3.

5.1. Con esso il ricorrente censura la decisione quanto alla sua ritenuta carenza di legittimazione attiva relativamente all’operazione di acquisto del (OMISSIS), deducendo la violazione degli artt. 1292,1388, 1704 e 1705 c.c. e dell’art. 61 Reg. Consob n. 11522 del 1998, argomentando come più ampiamente riferito supra nel p. 3.1. della parte “I fatti di causa”.

5.2. Le censure così formulate restano assorbite alla luce della decisione assunta sugli altri motivi di ricorso.

5.3. Infatti l’accoglimento del motivo, con il riconoscimento della legittimazione attiva e l’attribuzione dell’operazione di investimento al sig. R., non potrebbe comunque modificare l’esito finale della lite, per lui sfavorevole.

Anche aumentando l’entità del credito restitutorio rivendicabile da R.F. da Euro 100.802,03 a Euro 145.052,13, in relazione all’ordine del (OMISSIS), l’eccezione di buona fede opposta dalla Banca per la somma complessiva di Euro 284.830,82, accertata dalla sentenza impugnata e confermata in questa sede con il rigetto del quarto motivo di ricorso, sarebbe comunque capiente ed efficace, come del resto osservato anche dalle Sezioni Unite, a pagina 26, ultimo periodo, della sentenza 28314/2019, ove con riferimento al “caso di specie” è stato osservato che “i rendimenti degli investimenti non colpiti dall’azione di nullità” superavano “il petitum”.

6. Il ricorso deve quindi essere complessivamente rigettato.

Non è certamente accoglibile la tesi proposta dal ricorrente a pag. 1, ultimo capoverso, della memoria 27/1/2020, secondo cui l’applicazione del principio affermato dalle Sezioni Unite dovrebbe comportare la cassazione della sentenza impugnata per aver condannato l’investitore a restituire alla Banca la somma di Euro 284.830,82, eccedente il petitum dell’investitore (Euro 100.802,03).

La condanna restitutoria in capo al R., peraltro solo per l’eccedenza della somma a credito della Banca rispetto a quella a suo credito, all’esito della compensazione, era stata disposta solo dal Giudice di primo grado ed è stata revocata dalla Corte di appello, in accoglimento del quarto motivo di gravame, sia pure per ragioni diverse (mancata proposizione di rituale domanda riconvenzionale restitutoria e opposizione di mera eccezione di compensazione) da quelle indicate dalle Sezioni Unite in sede di rigetto del secondo motivo di ricorso, con conferma, previa correzione della motivazione, della decisione impugnata.

7. Anche a prescindere dalla costituzione in giudizio della Banca intimata, senza il tempestivo deposito del controricorso, sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, per la rilevanza ai fini della decisione della causa della sentenza delle Sezioni Unite che ha risolto le incertezze giurisprudenziali su di un punto determinante.

P.Q.M.

LA CORTE

rigetta il ricorso e compensa le spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2020

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