Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10492 del 03/06/2020

Cassazione civile sez. I, 03/06/2020, (ud. 31/10/2019, dep. 03/06/2020), n.10492

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. SCOTTI Giuseppe Umberto L.C. – Consigliere –

Dott. LIBERATI Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29180/2018 proposto da:

T.F., elettivamente domiciliato in Isernia, via XXIV Maggio

33, presso l’avvocato Paolo Sassi del Foro di Napoli;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CAMPOBASSO, depositato il

21/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

31/10/2019 da Dott. LIBERATI GIOVANNI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Campobasso ha respinto la domanda del ricorrente, T.F., nato in (OMISSIS), di riconoscimento dello status di rifugiato, in subordine della protezione sussidiaria e in ulteriore subordine della protezione umanitaria, confermando le conclusioni della Commissione territoriale di Salerno, Sezione di Campobasso.

Il Tribunale ha ritenuto inverosimile quanto narrato genericamente dal richiedente a sostegno della propria domanda di asilo (circa il timore di essere di essere coinvolto nelle pratiche di cannibalismo della propria famiglia, timore che lo aveva indotto a fuggire dal (OMISSIS)).

E’ stata poi esclusa la sussistenza in (OMISSIS), e in particolare nella regione di provenienza del ricorrente ((OMISSIS)), di una situazione generalizzata di pericolo o di violenza derivante da conflitto armato, come confermato anche dal rapporto di Amnesty International 2017 – 2018.

Il Tribunale ha escluso anche la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, non essendo emersi stati patologici o specifici caratteri di vulnerabilità del ricorrente tali da far concludere che il ritorno nel Paese di origine lo avrebbe esposto a situazioni umanitarie di particolare complessità.

Infine, stante la manifesta infondatezza del ricorso, è stata revocata l’ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato.

2. Il ricorrente chiede la cassazione del decreto del Tribunale di Campobasso sulla base di tre motivi.

2.1. Con il primo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 14 e art. 27, comma 1 bis e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 1, lett. e) et g), artt. 3, 5, 7, 14, art. 16, comma 1, lett. b) e art. 19 e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, a causa della mancata valutazione della vicenda personale del richiedente e della situazione esistente in (OMISSIS), quale emergente dalla documentazione allegata, e anche l’omissione di attività istruttoria e la mancanza assoluta di motivazione.

Si lamenta, in particolare, la mancata rinnovazione della audizione del ricorrente e l’erronea valutazione delle sue dichiarazioni. Si censura anche l’omessa considerazione dei motivi di ricorso e la violazione dell’obbligo di cooperazione istruttoria e anche l’omessa considerazione di quanto dichiarato dal ricorrente, che aveva fornito ogni utile dettaglio in suo possesso, mentre l’attività di indagine compiuta all’atto della sua audizione era risultata sommaria, cosicchè i margini di incertezza e di dubbio in ordine alla veridicità della sua narrazione e alla gravità della situazione soggettiva allegata avrebbero dovuto essere colmati mediante l’esercizio del potere – dovere istruttorio di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8.

Censura anche l’affermazione del Tribunale in ordine alla insussistenza in (OMISSIS) di una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato tale da determinare un pericolo per il ricorrente in caso di ritorno in tale paese, sottolineando l’errore contenuto nel provvedimento impugnato, nel quale era stato fatto riferimento alla situazione esistente nella regione (OMISSIS), che, notoriamente, si trova in Senegal e non in (OMISSIS), evidenziando le recenti violazioni dei diritti umani verificatesi in tale paese.

2.2. In secondo luogo, lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e l’omesso esame di un fatto decisivo, per la mancata valutazione della situazione esistente in (OMISSIS) sulla base della documentazione allegata e la omessa attività istruttoria, non essendo stata considerata la situazione di insicurezza e instabilità del (OMISSIS), dovuta alla situazione di instabilità politica ivi esistente anche dopo la deposizione del dittatore J..

2.3. Con il terzo motivo ha denunciato la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 74, comma 2 e art. 136, comma 2 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 28 bis, comma 2, lett. a), in relazione alla revoca disposta dal Tribunale della ammissione al patrocinio a spese dello Stato, fondata sulla manifesta infondatezza del ricorso, non essendo state illustrate le ragioni di tale manifesta infondatezza, che non potevano dirsi manifestamente infondati, nè caratterizzati da mala fede o colpa grave del ricorrente, cosicchè la decisione del Tribunale risultava ingiustamente limitativa di un diritto fondamentale del ricorrente, cioè quello di agire in giudizio allo scopo di ottenere il riconoscimento di una forma di protezione internazionale, tenendo anche conto delle percentuali di accoglimento delle richieste di riconoscimento di protezione internazionale.

3. Il Ministero dell’Interno non si è costituito.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Osserva il Collegio che i motivi proposti sono manifestamente infondati, perchè si risolvono in generiche deduzioni di fatto volte a sollecitare un inammissibile riesame del merito della vicenda.

5. Quanto al primo motivo, il Tribunale, sia pure succintamente, ha indicato le ragioni per le quali la prospettazione del ricorrente, sia in ordine al pericolo per la sua incolumità in caso di ritorno in patria, sia a proposito dei conflitti armati ivi esistenti, è stata ritenuta infondata, evidenziando, in particolare, la assoluta genericità e la inverosimiglianza delle ragioni (costituite dal timore di essere coinvolto in pratiche di cannibalismo) che, secondo la stessa prospettazione del ricorrente, lo avevano indotto ad allontanarsi dal (OMISSIS), e l’insussistenza di una situazione di conflitto armato nell’area (pur se erroneamente indicata come (OMISSIS)) dalla quale lo stesso proviene.

Giova al riguardo ricordare che il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e) (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonchè norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta) definisce rifugiato il cittadino straniero che, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trovi fuori del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole, avvalersi della protezione di tale Paese, oppure, se apolide, che si trovi fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni suindicate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione dell’art. 10.

Analoga definizione si rinviene nel D.Lgs. n. 25 del 2008, che contiene l’attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato.

Il rifugiato politico, poi, ai sensi della Convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951, ratificata in Italia con la L. 24 luglio 1954, n. 722, ed ai sensi della direttiva 2005/85/CE, attuata con il D.Lgs. n. 25 del 2008, è colui che non può o non vuole far ritorno nel Paese in cui aveva in precedenza la dimora abituale per il fondato timore di una persecuzione personale e diretta.

Pertanto, la situazione socio-politica e normativa del Paese di provenienza rileva solo se si correla alla specifica posizione del richiedente e, più nello specifico, al fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, identifica il danno grave nelle ipotesi a) di condanna a morte o esecuzione della pena di morte, b) di tortura o altra forma di pena o trattamento umano o degradante ai danni del richiedente nel Paese d’origine, c) di minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto interno o internazionale secondo cui non sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato (Cass., Sez. 1, n. 11103/2019, Rv. 653465-01, con ampi riferimenti alla giurisprudenza Eurounitaria).

Nel caso in esame il Tribunale, sia pure con motivazione succinta, ha ritenuto che il timore di persecuzione sia stato prospettato dal ricorrente in modo insufficiente, a causa della genericità e della inverosimiglianza del racconto del ricorrente medesimo, non verificabile neppure mediante acquisizione di informazioni, proprio a causa della sua genericità e della scarsa plausibilità dello stesso (evidenziando l’assoluta genericità e l’inverosimiglianza del racconto, oltre che la possibilità di sottrarsi alle pratiche di cannibalismo temute allontanandosi dal luogo di residenza o rivolgendosi alle forze di polizia), concludendo, pertanto, per la non configurabilità di alcuno dei casi che consentono il riconoscimento dello status di rifugiato al ricorrente; quest’ultimo ha censurato tale valutazione in modo generico, richiamando gli orientamenti della giurisprudenza di merito e di legittimità, ed esclusivamente sul piano del merito, sia quanto alla verosimiglianza del proprio racconto (che è stata esclusa in modo logico), sia quanto al pericolo di persecuzione (giudicato insussistente sulla base delle ragioni allegate dallo stesso ricorrente e della genericità e inverosimiglianza del suo racconto), sia quanto alla possibilità di cooperazione istruttoria (esclusa anch’essa a causa della genericità e della inverosimiglianza del racconto e della sua scarsa plausibilità quale emergente dallo stesso racconto del ricorrente), con la conseguente manifesta infondatezza della censura.

La deduzione della esistenza di una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato è stata ritenuta infondata dal Tribunale sulla base di quanto emergente dall’ultimo rapporto Amnesty International (2017 – 2018), e tale rilievo, idoneo a giustificare la decisione di rigetto nonostante l’erroneità della indicazione della regione del (OMISSIS), attribuibile a un errore materiale, è stato censurato in modo generico e sul piano della valutazione della situazione di fatto, proponendo una censura priva di specificità e non consentita in sede di legittimità.

6. Il secondo motivo è anch’esso inammissibile a causa della sua genericità, perchè consiste nel richiamo a disposizioni di legge e a precedenti giurisprudenziali di merito e di legittimità e nella mera asserzione di una situazione di instabilità in (OMISSIS), disgiunta dalla analisi di tale situazione e, soprattutto, della condizione personale del ricorrente e della regione dalla quale lo stesso proviene.

Va al riguardo ricordato che la protezione umanitaria, prevista in generale dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, richiesta al questore o all’autorità giudiziaria, in entrambi i casi al di fuori del sistema della protezione internazionale, è un istituto di salvaguardia introdotto dalla L. n. 40 del 1998 e poi trasfuso nel predetto D.Lgs.. La successiva entrata in vigore della protezione sussidiaria ad opera del D.Lgs. n. 251 del 2007, in parte ne ha assorbito l’ambito operativo, ma l’istituto mantiene una sua autonomia come misura atipica di protezione umanitaria, il cui fondamento risiede nel principio di non refoulement del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, per ragioni umanitarie nuove o diverse da quelle già oggetto del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale. Il D.L. n. 113 del 2018 ha eliminato la clausola inerente ai presupposti per il rilascio della protezione umanitaria, salvo che ricorrano i motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, altresì espungendo, ovunque necessario, le parole “umanitaria” e “protezione umanitaria”. Le uniche ipotesi eccezionalmente riconoscibili ai fini della tutela sono a) il permesso di soggiorno in casi speciali, per motivi di protezione sociale dell’art. 18, per le vittime di violenza domestica di cui all’art. 18-bis ed il permesso di soggiorno per particolare sfruttamento lavorativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12 quater; b) il permesso di soggiorno per cure mediche di cui all’art. 19, comma 2, lett. d-bis; c) il permesso di soggiorno per protezione speciale, rilasciato dal questore nei limiti del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1 e 1.1.; il permesso di soggiorno per contingente ed eccezionale calamità naturale di cui all’art. 20-bis; il permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile di cui all’art. 42-bis, quest’ultimo di durata biennale. Secondo la giurisprudenza, si tratta di un catalogo aperto di ipotesi ricomprendenti i seri motivi umanitari, gli obblighi costituzionali e gli obblighi internazionali. In particolare, secondo Cass., Sez. 1, n. 4455/2018, Rv. 647298, sono ricomprese in tale tipo di tutela la salute, l’instabilità politica e sociale nel Paese d’origine, la povertà e l’integrazione sociale. L’inserimento sociale nel Paese, peraltro prospettato genericamente nel ricorso, non è, però, da solo sufficiente per giustificare il rilascio del permesso umanitario, essendo necessaria un’effettiva valutazione comparativa della situazione oggettiva del Paese d’origine e soggettiva del richiedente, alla luce delle peculiarità della vicenda personale.

Ciò premesso in via generale, osserva il Collegio che non sono stati allegati elementi sufficienti a ritenere compromesso o leso il diritto alla salute nè sono ravvisabili condizioni di vulnerabilità, a seguito della comparazione del sistema del Paese d’origine con quello ospitante, con la conseguente correttezza della decisione di diniego anche della protezione umanitaria adottata dal Tribunale.

7. Il terzo motivo, relativo alla revoca della ammissione al patrocinio a spese dello Stato, è inammissibile.

In proposito, infatti, questo Collegio ritiene di dover aderire all’opinione maggioritaria della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 3028 del 2018; Cass. n. 29228 del 2017; contra, invece, Cass. n. 7191 del 2016), secondo cui la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato adottata con il provvedimento che definisce il giudizio di merito, anzichè con separato decreto, come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136 non ne comporta mutamenti nel regime impugnatorio, che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione ex art. 170 stesso D.P.R., dovendosi escludere che quel provvedimento, sia, per ciò solo, impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione. 8. Sussistono, infine, i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 31 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2020

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