Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10462 del 03/06/2020

Cassazione civile sez. II, 03/06/2020, (ud. 10/10/2019, dep. 03/06/2020), n.10462

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16993/2016 proposto da:

V.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI ANGELOZZI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO PENNESE;

– ricorrente –

contro

BANCA D’ITALIA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, presso la propria sede in VIA

NAZIONALE 91, rappresentata e difesa dagli avvocati PIERA

COPPOTELLI, RUGGERO IPPOLITO;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, n. cron. 2433/2016

depositato il 09/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/10/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per la declaratoria di

inammissibilità, in subordine il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Giovanni Angelozzi, difensore del ricorrente, che si

è riportato agli atti depositati ed ha chiesto l’accoglimento del

ricorso;

uditi gli Avvocati Piera Coppotelli e Ruggero Ippolito, difensori

della resistente, che hanno chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 9/3/2016, rigettò l’opposizione proposta, ex art. 145 TUB, da V.P. avverso la Delib. Banca d’Italia n. 119 del 2014, del 26/2/2014, che gli aveva inflitto la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 24.500,00, a seguito delle risultanze della visita ispettiva condotta, dal 31/10/2012 all’1/2/2013, dal Servizio Ispettivo della Banca d’Italia presso la Banca di Credito Cooperativo Euganea di Ospedaletto Euganeo società cooperativa, della quale il predetto era stato componente del consiglio di amministrazione; visita dalla quale erano emerse plurime e gravi criticità “per carenze nella organizzazione e nei controlli interni con particolare riferimento ai rischi crediti ed operativi da parte di componenti ed ex componenti del Consiglio di amministrazione”.

Il V. ricorre, svolgendo quattro motivi di censura, avverso la decisione della Corte di Roma e la Banca d’Italia resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente solleva eccezione d’illegittimità costituzionale, adducendo che l’art. 145 TUB si pone in contrasto con gli artt. 3,24, 25 e 111 Cost., poichè prevede che il provvedimento sanzionatorio può essere impugnato davanti alla Corte d’appello di Roma, la quale decide in Camera di consiglio, nelle forme di cui agli artt. 737 c.p.c. e segg., così, ad un tempo, negando la “piena tutela giudiziaria articolata in tre gradi di giudizio”, articolazione connaturata al giusto processo; nonchè, per avere individuato la sola Corte d’appello di Roma per l’intero territorio nazionale. Inoltre, la norma, secondo l’assunto era da reputare in contrasto con gli enunciati principi costituzionali per avere negato lo svolgimento dell’impugnazione secondo il rito ordinario.

1.1. L’eccezione risulta manifestamente infondata, valendo le osservazioni seguenti:

a) non è dubbio che non esiste copertura costituzionale del principio del doppio grado (da ultimo, ex multis, Sez. 1, n. 27700, 30/10/2018, Sez. 1, n. 28110, 5/11/2018; Sez. 3, n. 5907, 6/9/2007; Sez. 2, n. 27411, 13/12/2005);

b) questa Corte (Sez. 1, n. 532, 26/6/1997) ha condivisamente affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 145, comma 6 – ora comma 7, a seguito della sostituzione operata dal D.Lgs. n. 342 del 1999 -, del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), nella parte in cui prevede, in ordine al procedimento di reclamo dinanzi alla Corte d’appello di Roma contro il decreto ministeriale irrogativo delle sanzioni amministrative di cui al precedente art. 144, la forma del rito camerale e la definizione del giudizio con decreto motivato, anzichè con sentenza, così impedendo la proponibilità del ricorso ordinario per cassazione – con possibilità di denuncia anche dei vizi di motivazione -, in luogo di quello ex art. 111 Cost.; essendosi chiarito che, da un lato, il rito camerale è idoneo ad assicurare tutela ai diritti soggettivi, specie quando, come nel caso dell’attività bancaria, la controversia sia caratterizzata da contenuti tecnici e da fonti di conoscenza prevalentemente documentali; dall’altro, la scelta del decreto motivato, in deroga alla normativa comune sui procedimenti di applicazione delle sanzioni amministrative, deve ritenersi non irragionevole, in considerazione del carattere di specialità della disciplina bancaria e creditizia e della continuità con la precedente regolamentazione della materia (v. Corte Cost., sent. n. 49 del 1999);

b) vanno, di poi, condivise le ulteriori osservazioni di cui all’ordinanza sopra citata, con le quali si è ulteriormente precisato: “quanto alla asserita deroga al criterio ordinario della competenza così come fissato nella L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22 – recante, nel suo primo capo, la disciplina generale in tema di sanzioni amministrative – si deve osservare che nel sistema di quella legge il collegamento al luogo in cui è stata commessa la violazione vale ad identificare innanzitutto l’ufficio – autorità – territorialmente competente a ricevere il rapporto, compiere l’istruttoria ed applicare infine la sanzione in un assetto di competenze decentrate, come disegnato nell’art. 17, esercitate da uffici periferici dei ministeri, prefetti, uffici regionali, presidente della giunta provinciale, sindaco. Sicchè la identificazione del giudice competente a decidere l’opposizione al provvedimento applicativo della sanzione nel pretore del luogo in cui è stata commessa la violazione ben può dirsi derivata dal criterio adottato per definire la competenza della autorità che ha emesso il provvedimento, in coerenza con il sistema decentrato e diffuso di accertamento, e non invece dettata in funzione della più efficace difesa del soggetto destinatario della sanzione (non necessariamente agevolata dalla applicazione di quel criterio). Lo stesso criterio in un diverso sistema di accertamento accentrato e unificato – quale è quello previsto nella legge bancaria – rimane privo di giustificazione e, così come la tutela giurisdizionale diffusa corrisponde all’assetto decentrato della competenze amministrative, la concentrazione presso un unico ufficio giudiziario – la Corte d’appello di Roma – è misura per così dire simmetrica alla centralità dell’esercizio del controllo sul credito, affidato alla Banca d’Italia (che, contestati gli addebiti, propone al Ministro del Tesoro l’applicazione delle sanzioni: D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145). E dunque la verifica della ragionevolezza della disciplina speciale del sistema sanzionatorio connesso allo statuto dell’attività bancaria rimanda alle ragioni della complessiva disciplina del controllo sull’esercizio del credito, che è compito di diretta rilevanza costituzionale (disponendo l’art. 47 Cost., che “La Repubblica… controlla l’esercizio del credito”) e che la legge bancaria affida alla Banca d’Italia coerentemente al ruolo di centralità che l’ordinamento riconosce all’istituto di emissione, ponendolo al vertice del sistema creditizio. Basterà quindi rilevare che la concentrazione della competenza giurisdizionale è diretta espressione del sistema di centralità dei controlli imposto da obbiettive ragioni di funzionalità tecnica e non può certo dirsi dettata dalla esigenza unilaterale di agevolare la difesa in giudizio della Banca d’Italia, trovando gli stessi soggetti destinatari della sanzione più adeguate garanzie – in materie che presentano profili di elevata complessità tecnica nella specializzazione dell’unico ufficio giudiziario cui siano affidate controversie della medesima natura, mentre – infine – la rilevanza della materia, attinente a una sfera di interessi (il credito, la tutela del risparmio) a diretta copertura costituzionale, rafforza l’esigenza – generalmente avvertita – di uniformità della giurisprudenza anche di merito. La concentrazione della tutela giurisdizionale in un unico ufficio giudiziario – così come dispone l’art. 145, qui in esame – non può dirsi dunque misura lesiva nè del principio della piena difesa dei diritti nei confronti degli atti della pubblica amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.), nè del principio di ragionevolezza e parità di trattamento nella disciplina di analoghe situazione (art. 3 Cost.)”;

2. Il secondo motivo, con il quale il V. prospetta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145 (T.U.B.), della L. n. 241 del 1990, L. n. 689 del 1981, artt. 2964, 2966 e 2968 c.c., art. 154 c.p.c. e artt. 24 e 97 Cost., per essere stato il provvedimento sanzionatorio emesso dopo 240 giorni dalla scadenza “del termine decadenziale previsto per la presentazione delle controdeduzioni difensive”, è inammissibile per contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, non avversato da approfondimenti tali da giustificare mutamento d’opinione (art. 360 bis c.p.c., n. 1). Invero, al contrario di quanto assertivamente sostenuto dal ricorrente, deve rilevarsi che, imponendo la legge la conclusione del procedimento nei 240 giorni, quel che rileva è il momento terminale dell’adozione dello stesso; termine che nel caso in esame risulta essere stato rispettato. La comunicazione, formalità certamente necessaria ad altri fini, non integra, nè perfezione l’atto, già perfetto in ogni sua parte al momento della sua emissione; trattasi di principio fermo nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 13207/06; Sez. 5, n. 2079/08; Sez. 2, 1065/14), della quale la Corte locale ha fatto corretta applicazione, risultando, quindi, irrilevante ulteriormente intrattenersi sulla durata del procedimento (appesantito dalla necessità di assicurare pienezza di difesa all’interessato, il quale aveva chiesto la proroga del termine per presentare le proprie discolpe);

3. Con il terzo e il quarto motivo, fra loro osmotici, il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 3 e 23, D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 144, 144 ter, 144 quater e 145, artt. 2697 e 2932 c.c., artt. 115 e 167 c.p.c., anche sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, lamentando, in sintesi, che:

a) al medesimo non potevasi addebitare alcuna responsabilità amministrativa, non essendo rimasto provato che egli, in assenza di forza maggiore e caso fortuito, avesse tenuto una condotta cosciente, connotata perlomeno da colpa: il dissesto della banca era emerso nitidamente già dalla precedente ispezione del 2010, essendo emerse sin da allora le plurime e gravi ragioni dello stesso (mancanza di pianificazione strategica, crescita incontrollata degli impegni, mancanza di verifica della qualità dei prenditori, tassi non remunerativi, carenza cronica di liquidità, patologica quantità di partite in sofferenza e incagliate); il V. aveva fatto parte di un consiglio d’amministrazione che aveva ereditato una “banca agonizzante” e aveva fatto di tutto per impedire o limitare l’aggravamento della situazione, senza, tuttavia, riuscirvi, facendo parte di una minoranza del consiglio d’amministrazione che si era dovuto scontrare con una carenza dei flussi informativi; proprio per questo era ingiusto che allo stesso fossero state addebitate le manchevolezze risalenti alla precedente amministrazione;

b) la decisione gravata non aveva preso in considerazione i numerosi atti attraverso i quali il ricorrente aveva cercato di migliorare gestione e conti, che non avevano sortito effetto perchè sempre osteggiati dalla maggioranza consiliare (il ricorso individua una lunga serie di condotte che sarebbero state finalizzate al fine anzidetto).

3.1. Il motivo non supera il vaglio d’ammissibilità. Il V. nella sostanza invoca, sotto l’usbergo di una di una vasta pluralità di norme asseritamente violate, il riesame di fatto della vicenda, peraltro indugiando in una ricostruzione aspecifica, anche sotto il profilo dell’autosufficienza, poichè la Corte non è stata posta in condizione di conoscere i documenti richiamati.

Nella sostanza, peraltro neppure efficacemente dissimulata, l’insieme delle doglianze investe inammissibilmente l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito, in questa sede non sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’art. 116 c.p.c., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., da ultimo, Sez. 6-1, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299).

Più in generale, trattasi di doglianza che, piuttosto palesemente, mira ad un inammissibile riesame degli insindacabili apprezzamenti di merito e la denunzia di violazione di legge non determina, per ciò stesso, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (cfr., da ultimo, Cass. nn. 11775/019, 6806/019, 30728/018).

4. Le spese legali seguono la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo in favore della controricorrente, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività svolte.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese legali in favore della resistente, che liquida in Euro 3.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2020

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