Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1046 del 17/01/2019

Cassazione civile sez. III, 17/01/2019, (ud. 03/04/2018, dep. 17/01/2019), n.1046

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12228-2016 proposto da:

P.C., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA EUCLIDE

31, presso lo studio dell’avvocato AMALIA FALCONE, che la

rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

P.F.;

– intimato –

Nonchè da:

P.F., elettivamente domiciliato in ROMA, V.DELLA

CASETTA MATTEI 239, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO

TIRABASSI, rappresentato e difeso dall’avvocato SERENA LEONE giusta

procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

P.C., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA EUCLIDE

31, presso lo studio dell’avvocato AMALIA FALCONE, che la

rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente all’incidentale –

avverso la sentenza n. 6290/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/04/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI CARMELO che ha concluso per il rigetto del 1 e 2 motivo del

ricorso principale, accoglimento p.q.r. del 3 motivo,

inammissibilità dell’incidentale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. P.C. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 6290/15 del 12 novembre 2015 della Corte di Appello di Roma, che – accogliendo solo parzialmente il gravame da essa esperito contro la sentenza n. 4181/10 del 23 febbraio 2010 del Tribunale di Roma – ne ha confermato la condanna a risarcire a P.F. il danno non patrimoniale cagionatogli a causa di frasi ingiuriose rivolte al suo indirizzo al cospetto di terzi, danno liquidato in Euro 30.000,00.

2. Riferisce, in punto di fatto, P.C. di essere stata convenuta in giudizio innanzi al Tribunale capitolino, lamentando l’attore P.F. (fratello dell’odierna ricorrente, giacchè entrambi figli dello stesso padre) di essere stato investito, nel giugno 2005, presso il proprio studio legale, alla presenza di collaboratori e colleghi, oltre che del cliente B.P., da una serie di espressioni ingiuriose rivolte al suo indirizzo dalla sorella (“ma che cazzo hai fatto?”, “sei uno stronzo”, “mi hai rovinata”, “la devi smettere di rubarmi i soldi ed approfittarti di me”, “tu mi vuoi rovinare, sei un ladro, io ti ammazzo”), la quale gli avrebbe messo le mani al collo nel tentativo di strangolarlo.

In particolare, parte attrice, oltre a richiedere il ristoro dei danni non patrimoniali subiti, agiva pure per il risarcimento del danno patrimoniale conseguente, a suo dire, alla revoca di un mandato conferitogli dal B., in esecuzione del quale egli avrebbe dovuto percepire un compenso di Euro 32.400,44, oltre IVA e CPA.

Costituitasi in giudizio l’odierna ricorrente, la stessa non solo contestava integralmente la ricostruzione dell’accaduto fornita da parte attrice, negando di aver pronunciato frasi ingiuriose ai danni del fratello e di averlo aggredito fisicamente, ma proponeva anche domanda riconvenzionale. Lamentava, infatti, di aver subito un grave danno a seguito della discussione avuta con il proprio congiunto (nel corso della quale avrebbe richiesto esclusivamente chiarimenti circa interventi edilizi arbitrariamente eseguiti presso un locale di sua proprietà, confinante con lo studio professionale del medesimo), essendo stata colta da malore all’esito del diverbio.

Istruita la causa anche attraverso l’esame di testimoni, il giudice di prime cure accoglieva integralmente la domanda dell’attore, riconoscendogli il risarcimento anche del danno patrimoniale lamentato, respingendo, invece, la riconvenzionale proposta da P.C..

Proposto gravame da quest’ultima, la Corte di Appello di Roma, in parziale accoglimento dello stesso, ritenendo non raggiunta la prova del nesso causale tra il contegno ascritto all’appellante e il danno patrimoniale lamentato da P.F. “sub specie” di revoca (o mancato conferimento) di incarichi professionali, respingeva “in parte qua” la domanda risarcitoria, confermando, invece, la pronuncia impugnata quanto al risarcimento del danno ex art. 2059 cod. civ..

3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione P.C., sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo è dedotta “nullità della sentenza” – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “per violazione dell’art. 594 cod. pen., artt. 2059 e 2697 cod. civ. e artt. 115 e 116 cod. proc. civ.”, oltre che “difetto assoluto di motivazione in merito alla sussistenza e alla prova del reato di ingiuria”.

Ci si duole del fatto che l’unico argomento addotto a sostegno della “ammissibilità e fondatezza della richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale si esaurisce nella laconica affermazione per cui viene “in rilievo un fatto configurabile come reato di ingiuria””, senza che sia stato, dunque, “condotto alcun accertamento circa la sussistenza del reato”. Accertamento, questo, tanto più necessario, visto che ai fini della configurazione del reato ex art. 594 cod. pen.(peraltro, ormai abrogato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7) è necessario “contestualizzare” l’offesa, ossia “rapportarla all’ambiente spazio-temporale nel quale viene pronunciata e tenendo conto della sua obiettiva capacità offensiva e dei rapporti tra le parti”.

In proposito, la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare che espressioni del tipo di quelle che sarebbero state pronunciate (ma che la ricorrente, comunque, nega di aver proferito) “sono ormai proprie del linguaggio comune, usate di frequente nelle conversazioni informali, soprattutto nei contesti familiari e domestici” (come nel caso di specie, giacchè l’episodio oggetto del presente giudizio riguarda due fratelli i cui rapporti erano già inaspriti in ragione di vicende patrimoniali trascinatesi per anni), oltre che “sdoganate nel contesto sociale da fenomeni mediatici come il cinema e la televisione”.

D’altra parte, nella specie, mancherebbe “tanto l’allegazione, quanto la prova dell’intenzione e della consapevolezza dell’agente di usare espressioni ingiuriose con la consapevolezza di offendere l’altrui decoro”, e dunque del dolo proprio dell’illecito ex art. 594 cod. pen., senza tacere del fatto che nel contegno della ricorrente dovrebbe ravvisarsi l’esimente ex art. 599 c.p., comma 3, giacchè nella stessa ricostruzione dei fatti proposta dal (già) attore P.F. si riferisce dello “stato di agitazione” della sorella C., rappresentandosi, così, “una diminuzione dello stato di lucidità mentale della ricorrente ed un attacco di rabbia della stessa, ossia quello stato d’ira che escluderebbe la sanzionabilità del reato di ingiuria”.

3.2. Con il secondo motivo è dedotta nuovamente “nullità della sentenza” – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), “per violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 cod. civ., art. 185 cod. pen., art. 2697 cod. civ., artt. 115 e 116 cod. proc. civ.”, oltre che per “erroneità, illogicità e/o contraddittorietà della motivazione sul difetto di allegazione e prova della sussistenza del danno non patrimoniale e dei presupposti per la sua risarcibilità”.

Si assume che la sentenza impugnata avrebbe considerato quello conseguente all’ingiuria come un danno “in re ipsa”, contravvenendo ai principi affermati da questa Corte – anche con riferimento al danno da lesione della reputazione – secondo cui “la prova dell’esistenza della lesione non significa che la stessa sia sufficiente ai fini del risarcimento, essendo necessaria l’ulteriore prova dell’entità del danno”.

3.3. Il terzo motivo ipotizza, del pari, la “nullità della sentenza” sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “per violazione e falsa applicazione degli artt. 1226,2056 e 2059 cod. civ., artt. 113,115 e 132 cod. proc. civ.”, nonchè “nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4)”, in ragione di “omessa e/o insufficiente e/o illogica motivazione sull’applicazione del criterio equitativo nella liquidazione del danno non patrimoniale”.

Si assume, infatti, come “eccessiva, illogica ed immotivata” la liquidazione nella misura di Euro 30.000,00, giacchè basata sul solo assunto che l’aggressione sarebbe avvenuta presso lo studio ove l’Avv. P.C. svolge la propria attività professionale.

In questo modo sarebbe stato disatteso il principio della cd. “equità circostanziata”, il quale esige che il giudice renda evidente e controllabile l'”iter” logico in base al quale perviene alla quantificazione del danno.

4. Ha proposto controricorso P.F., non solo per chiedere che l’avversaria impugnazione venga dichiarata inammissibile o comunque rigettata, ma anche per svolgere ricorso incidentale, sulla base di un unico motivo.

4.1. A confutazione delle censure proposte dalla ricorrente principale evidenzia come la sussistenza dell’elemento materiale e psicologico del reato di ingiuria sia stata – nel caso di specie ampiamente dimostrata e motivata, dovendo ritenersi esente da mende anche l’affermazione relativa all’esistenza del danno e la sua quantificazione, specie alla stregua del principio secondo cui la valutazione equitativa dello stesso è caratterizzata, comunque, da un certo grado di approssimazione, risultando sindacabile in cassazione solo in caso di radicale contraddittorietà o di macroscopico discostamento da dati di comune esperienza.

4.2. Quanto al ricorso incidentale, esso tende a censurare il mancato riconoscimento del danno patrimoniale, sul rilievo che, nella specie, “vi è ampia documentazione nel fascicolo di primo grado depositato agli atti” delle “ragioni che condussero il sig. B. alla revoca degli incarichi professionali” conferiti all’Avv. P..

5. Con controricorso al ricorso incidentale P.C. ha chiesto dichiararsi lo stesso inammissibile o, comunque, non fondato.

Essa, tuttavia, ha previamente eccepito la carenza di procura speciale ad impugnare, non recando il mandato conferito al legale dell’odierno controricorrente alcuna menzione della sentenza impugnata o del potere di proporre avverso di essa ricorso per cassazione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso principale va accolto, sebbene nei limiti di seguito indicati.

6.1. Il primo motivo di ricorso non è fondato.

6.1.1. Nel procedere alla sua disamina, occorre muovere dalla constatazione che, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), – nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 63778101).

Lo scrutinio di questa Corte è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01), in quanto affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), o perchè “perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

6.1.2. ciò premesso, deve osservarsi come, nella specie, non sussista affatto il lamentato “difetto assoluto di motivazione”, denunciato dalla ricorrente, circa l’esistenza del reato di ingiuria.

Le affermazioni contenute a pag. 4 della sentenza e sulle quali si appunta il motivo di ricorso in esame (ovvero che, nella specie, viene “in rilievo un fatto configurabile come reato di ingiuria”), vanno poste, infatti, in correlazione con la descrizione che della condotta illecita “ritenuta provata” dal giudice di prime cure – reca pag. 2 della stessa sentenza, ove si afferma che l’odierna ricorrente “irrompeva nello studio del fratello e in presenza di un cliente, tale Signor B., apostrofava l’avv. P. con le seguenti frasi “ma che cazzo hai fatto?”, “sei uno stronzo”, “mi hai rovinata”, “la devi smettere di rubarmi i soldi ed approfittarti di me”, “tu mi vuoi rovinare, sei un ladro, io ti ammazzo””.

Nessun dubbio può esserci, dunque, circa l’esistenza di idonea motivazione.

Nè, d’altra parte, possono esservi dubbi circa “l’allegazione e prova” del dolo proprio della condotta illecita di cui all’art. 594 cod. civ., potendo, al riguardo, farsi applicazione di quanto affermato di recente da questa Corte con riferimento all’affine fattispecie di cui al successivo art. 595, e secondo cui, in “tema di responsabilità civile per diffamazione, è necessario e sufficiente che ricorra il cd. dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, cioè la consapevolezza di offendere l’onore e la reputazione altrui, la quale si può desumere dalla intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni usate” (Cass. Sez. 3, ord. 26 ottobre 2017, n. 25420, Rv. 646634-02).

6.2. Neppure il secondo motivo di ricorso è fondato.

6.2.1. Questa Corte ha, ancora di recente, affermato che “il danno all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in re ipsa”, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicchè la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni”, precisandosi, tuttavia, che assumono “a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento”, tra gli altri, “la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima” (Cass. Sez. 3, ord. 26 ottobre 2017, n. 25420, Rv. 646634-04) e ciò, oltretutto, “tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto sociale e professionale” (Cass. Sez. 3, sent. 25 maggio 2017, ord. 13153, Rv. 644406-02).

A questi criteri si è attenuta la sentenza impugnata, la quale dopo aver rammentato che la giurisprudenza, in passato, aveva “sovente” affermato che la prova del danno alla reputazione è “in re ipsa” – ha dichiarato di volere aderire all’orientamento che (anche a dire della Corte romana), “più correttamente” identifica il danno all’onere e alla reputazione in quel “perturbamento psichico e sofferenza derivante dall’illecito” che “può in sostanza intendersi quale conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto”.

Quanto, poi, ai criteri utilizzati – nella concreta fattispecie – per ritenere raggiunta, presuntivamente, la prova del danno “de quo”, la sentenza impugnata ha fatto riferimento tanto al “tenore delle frasi ingiuriose”, quanto alla circostanza che “l’aggressione professionale fosse avvenuta presso lo studio” della vittima, valorizzando, così, proprio quei parametri della “rilevanza dell’offesa” e del “contesto sociale e professionale” della vittima, indicati da questa Corte tra quelli utilizzabili ai fini della dimostrazione del pregiudizio derivante dalla lesione del diritto all’onore e reputazione.

6.3. Il terzo motivo è, invece, fondato.

6.3.1. Sul punto occorre muovere dalla constatazione che se “l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità”, occorre, nondimeno, che “la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 13 ottobre 2017, n. 24070, Rv. 645831-01; in senso analogo Cass. Sez. 1, sent. 15 marzo 2016, n. 5090, Rv. 639029-01), essendosi anche precisato che “al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è necessario che il giudice indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum”” (Cass. Sez. 3, sent. 31 gennaio 2018, n. 2327, Rv. 647590 – 01).

D’altra parte, nella medesima prospettiva, si è sottolineato che il principio della tendenziale insindacabilità della liquidazione equitativa del danno in sede di giudizio di legittimità non trova applicazione quando i criteri adottati “siano manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 25 maggio 2017, n. 13153, Rv. 644406-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 3, sent. 8 novembre 2007, n. 23304, Rv. 600376-01, Cass. Sez. 3, sent. 14 luglio 2004, n. 13066, Rv. 574567-01).

Da ultimo, e proprio con riferimento al danno non patrimoniale “da reato” (tale era, all’epoca dei fatti, quello di ingiuria, oggi invece depenalizzato), è stato ribadito che la “liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. “pura”, consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicchè, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento”, pena, altrimenti, il “vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6)”, nonchè quello “di violazione dell’art. 1226 cod. civ.” (Cass. Sez. 3, sent. 13 settembre 2018, n. 22272, Rv. 650596-01).

6.3.2. Orbene, l’evenienza da ultimo descritta – vale a dire la violazione, ad un tempo, del “minimo costituzionale” della motivazione, nonchè dell’art. 1226 cod. civ. – è quella verificatasi nel caso di specie, considerato che la sentenza impugnata si è sottratta a quel “prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto” che è imposto in caso di liquidazione equitativa dello stesso.

Invero, la Corte territoriale – nel confermare l’importo di Euro 30.000, già fissato dal primo giudice – ha sottolineato la “gravità del fatto”, che ha desunto però, in via esclusiva, dall’avere l’odierna ricorrente “posto in essere l’aggressione presso lo studio ove il fratello esercita l’attività professionale”. In questo modo, tuttavia, oltre a dare rilievo allo stesso elemento già apprezzato – nella corretta ottica di escludere un danno “in re ipsa” – per individuare l’esistenza stessa del pregiudizio risarcibile, la Corte territoriale ha omesso del tutto di considerare il complessivo contesto di esacerbazione dei rapporti tra i germani in cui quell’aggressione verbale venne a maturare, nonchè il fatto che la natura “familiare” del diverbio, se non giustificava l’utilizzazione di quelle espressioni offensive (come ancora in questo giudizio ha preteso, erroneamente, di sostenere la ricorrente), valeva, tuttavia, a depotenziarne, almeno parzialmente, la portata. Infatti, a quel “prudente contemperamento” che l’applicazione dell’art. 1226 cod. civ. postula, è rimasta del tutto estranea la considerazione che la relazione parentale tra C. e P.F. faceva apparire, anche agli occhi di terzi, gli insulti rivolti dalla prima al secondo, più che una effettiva manifestazione di disprezzo della personalità morale dello stesso, l’espressione di un malcelato risentimento per vicende legate al loro pregresso vissuto.

Il terzo motivo di ricorso deve essere, pertanto, accolto.

6.3.3. Tuttavia, a tale esito – ed alla conseguente cassazione parziale della sentenza impugnata – non segue la necessità di rinviare la causa alla Corte di Appello di Roma, ricorrendo, nella specie, i presupposti affinchè questa Corte possa decidere nel merito, ex art. 384 c.p.c., comma 2, u.p..

Non occorrono, invero, ulteriori accertamenti di fatto per provvedere sulla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale proposta da P.F..

Tale esito, oltretutto, si giustifica anche in ragione della necessità di salvaguardare i principi costituzionali, e di matrice convenzionale ed Eurounitaria, della durata ragionevole del processo e dell’effettività della tutela giurisdizionale (sulla cui operatività ai giudizi civili di danno si veda Cass. Sez. 3, sent. 17 settembre 2013, n. 21255, Rv. 628700-01). Essi impongono, infatti, non solo di garantire l’irretrattabilità delle decisioni giudiziarie, circoscrivendo entro limiti ragionevoli il ricorso ai mezzi di impugnazione straordinaria (“ex multis”, tra le più recenti, Cass. Sez. Un., sent. 11 aprile 2018, n. 8984, Rv. 648127-02), ma pure di escludere, oltre ad inutili regressioni del giudizio (da ultimo, Cass. Sez. Lav., sent. 5 aprile 2018, n. 8422, Rv. 647623-01), anche ulteriori defatigatori passaggi processuali, quando, come nel caso che occupa, ad “an debeatur” ormai definitivamente accertato, la determinazione del “quantum” debba compiersi sulla base di elementi che risultano, del pari, “cristallizzati”.

Ciò premesso, questa Corte – decidendo nel merito – ritiene, sulla scorta delle ragioni già evidenziate nel p. 6.3.2., che un equo contemperamento di tutti gli elementi della fattispecie, “ut supra” delineati, impongano di contenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito da P.F. nell’importo di Euro 5.000,00, con interessi legali dalla data della presente pronuncia al saldo.

7. Passando all’esame del ricorso incidentale, va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità dello stesso, per difetto di valida procura speciale, sollevata dalla ricorrente.

7.1. Trova, infatti, applicazione il principio secondo cui la “procura apposta nell’unico atto contenente il controricorso ed il ricorso incidentale deve intendersi estesa anche a quest’ultimo, per il quale non ne è richiesta formalmente una autonoma e distinta” (da ultimo, Cass. Sez. 1, sent. 4 maggio 2016, n. 8798, Rv. 639536-01), e ciò in quanto “l’incertezza in ordine alla effettiva portata della volontà della parte, non può tradursi in una pronuncia di inammissibilità del ricorso per mancanza di procura speciale, ma va superata attribuendo alla parte la volontà che consenta all’atto di procura di produrre i suoi effetti, secondo il principio di conservazione dell’atto” (così in motivazione, con riferimento ad un ricorso incidentale, Cass. Sez. Lav., sent. 13 dicembre 2010, n. 25137, Rv. 615702-01).

7.2. Nel merito, il ricorso incidentale non è fondato.

7.2.1. Invero, il motivo con esso proposto si risolve in una – non consentita – censura dell’apprezzamento che il giudice di appello ha fatto del materiale probatorio, sicchè, nella specie, trova applicazione il principio secondo cui il (supposto) “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01).

8. Quanto, infine, alle spese di lite, in relazione a quelle del giudizio di appello, in ragione della soccombenza reciproca delle parti, va disposta la loro integrale compensazione.

Trova, infatti, applicazione il principio secondo cui la “nozione di soccombenza reciproca che consente la compensazione parziale o totale delle spese processuali, sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorchè essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero una parzialità dell’accoglimento anche meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo” (Cass. Sez. 1., ord. 24 aprile 2018, n. 10113, Rv. 648893-01; in senso analogo già Cass. Sez. 2, sent. 23 settembre 2013, n. 21684, Rv. 627822-01).

Quanto alle spese del presente giudizio di legittimità, anch’esse seguono la soccombenza, essendo, pertanto, poste a carico del ricorrente incidentale e liquidate come da dispositivo.

9. Inoltre, sempre a carico del ricorrente incidentale, atteso l’integrale rigetto della proposta impugnazione, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13,comma 1-quater.

PQM

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso principale, rigettando il primo ed il secondo, e per l’effetto cassa parzialmente la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, determina in Euro 5.000,00, con interessi legali dalla pronuncia al saldo, la somma dovuta da P.C. a P.F. a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, compensando tra le parti, in ragione della reciproca soccombenza, le spese del giudizio di appello.

Rigetta il ricorso incidentale.

Condanna P.F. a rifondere a P.C. le spese del presente giudizio, liquidate in Euro 3.200,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 3 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2019

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