Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10453 del 03/06/2020

Cassazione civile sez. II, 03/06/2020, (ud. 07/06/2019, dep. 03/06/2020), n.10453

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17640/2015 proposto da:

TEAM CAR SRL, IN LIQUIDAZIONE, in persona del Liquidatore pro

tempore, TEAM MOTORS SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati CARLO VERMIGLIO,

TOMMASO MAGAUDDA;

– ricorrenti –

contro

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE,

85, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO MARIA SALVO,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO GENOVESE;

– ricorrente successivo –

contro

VOLVO AUTO ITALIA SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ARCHIMEDE 138, presso lo studio dell’avvocato GIULIO BELLINI, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE,

85, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO MARIA SALVO,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO GENOVESE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 389/2014 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 20/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2019 dal Consigliere Dott. MARIA ROSARIA SAN GIORGIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;

udito l’Avvocato GENOVESE, difensore di C.G. che ha

chiesto l’accoglimento delle conclusioni in atti;

udito l’Avvocato BELLINI Giulio, difensore della Soc. VOLVO AUTO

ITALIA che ha chiesto l’accoglimento delle conclusioni depositate.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- C.G. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Messina le società Team Car s.r.l. e Volvo Auto Italia s.p.a. (oggi Volvo Car Italia s.p.a.), esponendo di aver acquistato dalla prima nell’anno 2002 una vettura Volvo mod. S40, e chiedendo la risoluzione del contratto e la condanna delle convenute alla restituzione delle somme corrisposte ed al risarcimento dei danni, a causa di vizi del bene compravenduto che lo rendevano non conforme all’oggetto del contratto.

Il Tribunale adito rigettò le domande nei confronti della Team Car e dichiarò il difetto di legittimazione passiva della Volvo Auto, importatrice dell’automobile di cui si tratta, che non aveva stipulato alcun contratto con il C., e non poteva, pertanto, incorrere in responsabilità contrattuale per i vizi della cosa compravenduta o per difetto di conformità all’oggetto del contratto.

2.- Proposto gravame dal C., la Corte d’appello di Messina lo accolse parzialmente, dichiarando risolto il contratto e condannando la Team Car al pagamento in favore del C. della somma di Euro 21500,00, oltre agli interessi legali, confermando nel resto la sentenza impugnata.

La Corte di merito qualificò le azioni proposte come azione di risoluzione ai sensi dell’art. 1519-quater c.c., comma 7 e come azione tradizionale di risoluzione fondata sul vizio redibitorio ai sensi del combinato disposto degli artt. 1490 e 1492 c.c.. Ritenne generica la doglianza relativa alla rumorosità del mezzo come quelle relative alla presenza di cattivo odore all’interno dell’abitacolo della vettura, a fronte delle articolate argomentazioni del Tribunale. Giudicò, invece, fondato il motivo attinente al difetto di funzionamento del motorino di avviamento che, all’atto dell’accensione, provocava un anomalo rumore. Al riguardo il giudice di secondo grado, premesso che la vettura era stata consegnata l’11 giugno 2002, quando era in vigore l’assetto normativo di cui agli artt. 1519-bis c.c. e segg., osservò che l’affermazione del tribunale secondo la quale il difetto non incideva sulla funzionalità o sulla durata del bene non era adeguatamente supportata dalle risultanze probatorie. Inoltre, neanche l’intervento sostitutivo del pezzo aveva eliminato il difetto di conformità, in quanto il rumore di strofinio in fase di avviamento, tenuto conto della natura del bene, dell’affidabilità che lo stesso deve garantire al consumatore e delle prestazioni che da una vettura del costo di oltre 20000 Euro possono ragionevolmente aspettarsi, rendeva la vettura non conforme al contratto. Del resto, anche a voler ammettere che il difetto fosse di lieve entità, l’anomalia aveva dato luogo all’intervento di sostituzione del pezzo, e dunque non era irrilevante, come dimostrato dal fatto che alla sostituzione del motorino di avviamento aveva fatto seguito anche la sostituzione del volano. Andava, dunque, accolta la domanda di risoluzione. La Corte escluse invece la condanna al risarcimento del danno, non essendo stata fornita la prova della impossibilità di utilizzazione del mezzo.

La Corte territoriale confermò poi la esclusione della legittimazione passiva della Volvo Italia, mera importatrice della vettura, rilevando che l’art. 1519-quinquies c.c., non prevede una forma di responsabilità diretta dell’importatore nei confronti del produttore o di un precedente venditore, e che, in ogni caso, l’attore aveva chiesto la risoluzione del contratto, e, pertanto, la relativa azione non poteva che dirigersi verso l’altro contraente.

3.- Per la cassazione di tale sentenza ricorrono sia la Team Car s.r.l. in liquidazione affidandosi a due motivi, sia il C. sulla base di quattro motivi. Resiste con controricorso la Volvo Car Italia s.p.a. Resiste altresì con controricorso il C. al ricorso della Team Car. Nella imminenza della udienza hanno depositato memoria il C. e la Volvo Car.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Deve, preliminarmente, essere esaminata la istanza di rimessione in termini proposta dalla Volvo Car Italia s.p.a., intesa a consentirle il perfezionamento della notifica del controricorso dalla stessa prodotto nei confronti del ricorso del C., notifica non eseguita per causa asseritamente ad essa non imputabile. Al riguardo la Volvo fa presente che detta notifica ha avuto esito negativo in quanto al domicilio eletto dal legale del ricorrente, avv. Francesco Genovese, presso il proprio recapito professionale in (OMISSIS), il predetto professionista risultava sconosciuto; ed aggiunge di aver verificato, pur non essendone onerata, che il richiamato recapito risulta indicato altresì nell’Albo degli Avvocati di Messina, al quale è iscritto l’avv. Genovese.

1.- La istanza deve essere rigettata. Non può, invero, accedersi alla tesi della difesa della istante relativa alla non imputabilità ad essa del mancato esito della notifica di cui si tratta, non risultando corretta la indicazione da parte della stessa del domicilio eletto dal C., presso il recapito in Roma dell’avv. Genovese, in “(OMISSIS) (studio avv. Salvo)”. E’, dunque, evidente che la circostanza che la notifica non sia andata a buon fine è stata l’effetto della pretermissione da parte della difesa della Volvo del riferimento allo studio legale Salvo, recapito romano dell’avv. Genovese.

Appare opportuno in ogni caso, e definitivamente, richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, in tema di notificazioni degli atti processuali, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere – anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio – di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, semprechè la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie (Cass., S.U., sent. n. 173652 del 2009; ord, n. 24660 del 2017, ord. n. 24641 del 2014 ex aliis).

A tali prescrizioni non si è attenuta la difesa della Volvo, che, a seguito della mancata notificazione, si è limitata a richiedere a questa Corte un provvedimento di rimessione in termini senza attivarsi tempestivamente per la ripresa del procedimento notificatorio.

2. – Con il primo motivo del ricorso della Team Car s.r.l. si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1519-quater c.c., u.c., applicabile ratione temporis nella specie. La norma invocata preclude al consumatore l’azione di risoluzione del contratto di vendita in caso di difetto di conformità del bene che ne è oggetto di lieve entità e per il quale non sia stato possibile o sia eccessivamente oneroso esperire i rimedi della riparazione o della sostituzione. Ciò posto, sottolinea la ricorrente di avere, nella specie, provveduto alla sostituzione del motorino di avviamento e del volano dell’autovettura venduta e ad eliminare il difetto, anche se era residuato un deficit di lubrificazione, e tale circostanza, che aveva indotto il giudice di primo grado a riconoscere la lieve entità di quel residuo presunto difetto, e, conseguentemente, a rigettare la domanda di risoluzione del contratto, aveva condotto la Corte di merito alle errate conclusioni che avevano dato luogo all’accoglimento del gravame, alla stregua del rilievo della sussistenza del diritto del consumatore alla risoluzione del contratto in tutti i casi, come quello di specie, in cui un difetto di lieve entità, cui sia stato possibile (e sia stato tentato di) porre rimedio, non sia stato tuttavia tempestivamente eliminato dal venditore.

3.- La censura risulta infondata.

3.1. – Deve premettersi che l’art. 1519-quater c.c. – che si inscrive nel sistema della vendita dei beni di consumo, di cui agli artt. 1519 bis-nonies c.c., inseriti dal D.Lgs. n. 24 del 2002, art. 1, dopo il paragrafo 1 della sezione II del capo I del titolo III del libro IV del codice civile, ed abrogati dal D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 146, comma 1, lett. s), (Codice del consumo, nel cui art. 130 è confluita appunto la disciplina di cui allo stesso art. 1519-quater c.c.) -, dopo avere, al comma 1, previsto la responsabilità del venditore nei confronti del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene, ed avere, al comma 2, per tale ipotesi, attribuito al consumatore il diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, a norma dei commi 3, 4, 5 e 6, contempla, al comma 7, la facoltà del consumatore di chiedere una riduzione adeguata del prezzo ovvero la risoluzione del contratto, ove ricorra una delle sottoelencate situazioni: “a) la riparazione e la sostituzione sono impossibili o eccessivamente onerose; b) il venditore non ha provveduto alla riparazione o alla sostituzione del bene entro il termine congruo di cui al comma 6; c) la sostituzione o la riparazione precedentemente effettuata ha arrecato notevoli inconvenienti al consumatore”. L’u.c., dello stesso articolo, il comma 10, invocato dalla ricorrente, precisa poi che: “Un difetto di conformità di lieve entità per il quale non è stato possibile o è eccessivamente oneroso esperire i rimedi della riparazione o della sostituzione, non dà diritto alla risoluzione del contratto”.

3.2. – Tale essendo il quadro normativo di riferimento ratione temporis, la Corte di merito ha correttamente desunto da tale plesso che, nella ipotesi in cui la sostituzione o riparazione del bene non siano state impossibili nè siano eccessivamente onerose, il consumatore, scaduto il termine congruo per la sostituzione o riparazione, senza che il venditore vi abbia provveduto, ovvero se le stesse abbiano arrecato un notevole inconveniente, può agire per la riduzione del prezzo ovvero per la risoluzione del contratto, pur in presenza di un difetto di lieve entità.

In applicazione di tale esatta interpretazione della normativa applicabile nel caso di specie – che esclude la correttezza della tesi difensiva della ricorrente, la quale postula la preclusione dell’azione di risoluzione in ogni caso di difetto di lieve entità del bene – il giudice di secondo grado ha rilevato che dalle risultanze processuali è emerso che, successivamente alla consegna, il motorino di avviamento manifestò il difetto consistente in un anomalo rumore all’atto dell’accensione. Per questa ragione la Team Car provvide alla sostituzione del pezzo, oltre che del volano. Peraltro, anche dopo tale intervento, come emerso dalla c.t.u., continuò a manifestarsi l’anomalia, che rendeva la vettura, secondo il giudizio di fatto espresso dalla Corte di merito nell’esercizio del suo discrezionale apprezzamento, non conforme al contratto di vendita, avuto riguardo all’affidabilità che un’automobile del costo di oltre 20000 Euro deve garantire. E ciò a prescindere – sottolinea la Corte di merito dalla eventuale lieve entità del difetto, il quale, comunque, aveva dato luogo ad un intervento di sostituzione del motorino di avviamento e, successivamente, anche del volano.

4. – Con il secondo motivo di ricorso si lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, riguardante la natura del difetto di conformità della vettura, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Il fatto decisivo di cui si tratta viene ravvisato dalla ricorrente nella esistenza o meno del difetto del motorino di avviamento, della sua persistenza dopo la sostituzione, e dell’incidenza che esso poteva avere sulla funzionalità della autovettura. L’esame di tale fatto era peraltro decisivo ai fini dell’accertamento della lieve entità del difetto di conformità e del conseguente diritto dell’acquirente ad ottenere la risoluzione del contratto.

5. – Anche tale censura è destituita di fondamento.

Fermo restando quanto affermato sub 2.2. in ordine alla non decisività del carattere di lieve entità del difetto lamentato ai fini della soluzione della questione di diritto afferente alla sussistenza o meno del diritto del C. alla risoluzione del contratto in oggetto, è sufficiente, al riguardo, rilevare che non risulta che la Corte di merito abbia omesso di esaminare i punti focalizzati dalla attuale ricorrente. Al contrario, come non si è mancato di rilevare nella narrativa ed anche nei paragrafi precedenti, il giudice di secondo grado ha analizzato ciascuno dei predetti punti, operando una ricostruzione fattuale che, come tale, sfugge ad ogni sindacato della Corte di legittimità.

La censura, in sostanza, sotto tale profilo impinge nel merito di valutazioni rimesse al giudice del grado precedente.

6.- Passando all’esame del ricorso del C., con il primo motivo esso deduce la “violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 24 febbraio 2002, n. 24, art. 1, art. 1519-bis c.c., comma 2, lett. d), D.P.R. n. 224 del 1988, art. 1, D.Lgs. n. 115 del 1995, art. 2, lett. D), punto 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. La censura, che si caratterizza per la combinazione di diversi elementi, anche eterogenei, può sintetizzarsi nel senso che avrebbe errato la Corte di merito nel non equiparare, ai fini della responsabilità nei confronti del consumatore, a norma dell’art. 1519-bis c.p.c., l’importatore al produttore, la cui responsabilità in riferimento ai danni cagionati da difetti del suo prodotto è prevista dall’art. 1 del D.P.R. n. 228 del 1988. La Corte territoriale non avrebbe considerato che l’attuale ricorrente vantava un diritto di garanzia sul bene venduto che si sostanziava nella facoltà di rivolgersi a qualsiasi officina Volvo per gli interventi di sostituzione di pezzi dell’autovettura acquistata: tant’è che le spese relative agli interventi tecnici effettuati dalla concessionaria Team Car sull’autovettura di cui si tratta lo erano stati per conto della società Volvo Auto Italia, come confermato anche dall’intervento dell’ispettore ing. N. e dai provvedimenti tecnici di riparazione della vettura impartiti al personale della Team Car. In definitiva, la società Volvo Auto Italia non avrebbe potuto essere considerata come il comune rivenditore intermedio della catena distributiva del bene. Nemmeno sarebbe esatto che, come affermato nella sentenza impugnata, l’attuale ricorrente avesse introdotto temi nuovi nella comparsa conclusionale relativa al giudizio di appello.

7. – La censura non è meritevole di accoglimento.

7.1. – La Corte di merito ha premesso alla ricostruzione dell’iter logico-giuridico che la ha condotta alla sua decisione il richiamo alla origine della vicenda processuale de qua: va, al riguardo, sottolineato che il C. agì ai sensi dell’art. 1492 c.c. e art. 1519-quater c.c., comma 7, al fine di ottenere la risoluzione del contratto stipulato con la Team Car: un siffatto rimedio non poteva che essere esperito nei soli confronti della stessa Team Car, venditrice del bene in oggetto, essendo la Volvo Auto Italia s.p.a. del tutto estranea a detto contratto. Sotto tale profilo la circostanza – valorizzata dal ricorrente al fine di sostenere la instaurazione di un vincolo contrattuale, sub specie di estensione della obbligazione di garanzia nei suoi confronti, anche con Volvo Italia s.p.a., in virtù del rapporto di concessione tra Team Car e Volvo Italia che un ispettore della stessa società fosse intervenuto nella fase delle riparazioni e delle sostituzioni del pezzo dell’autovettura da lui acquistata, e che le spese relative agli interventi sulla stessa fossero stati posti a carico della predetta Volvo, non è rilevante, essendo tale circostanza riconducibile esclusivamente – come ritenuto dal giudice di secondo grado – ai rapporti interni tra Team Car e Volvo Italia s.p.a..

7.2. – Il ricorrente invoca, a sostegno della tesi relativa alla estensione anche a quest’ultima della obbligazione di garanzia nei suoi confronti, la disposizione di cui all’art. 1519-bis c.c., comma 2, lett. d), che definisce produttore il fabbricante di un bene di consumo, l’importatore del bene di consumo nel territorio della Unione Europea o qualsiasi altra persona che si presenta come produttore apponendo sul bene di consumo il suo nome, marchio o altro segno distintivo, e ponendo tale disposizione a fondamento di una equiparazione, ai fini che qui rilevano, tra la figura del produttore e dell’importatore. Ma, così opinando, egli trascura la considerazione della finalità e degli effetti ai quali rileva tale definizione. Essa è contenuta nel paragrafo 1-bis “Della vendita di beni di consumo”, contenente gli artt. da 1519-bis a 1519-nonies c.c. – inseriti, come dianzi precisato, dal D.Lgs. n. 24 del 2002, art. 1, dopo il paragrafo 1 della sezione II del capo I del titolo III del libro IV del codice civile ed abrogati dal D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 146, comma 1, lett. s), (Codice del consumo), che disciplinano la vendita dei beni di consumo prevedendo l’obbligo del venditore di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita, la sua responsabilità nei confronti dello stesso in caso di difetto di conformità ed i conseguenti diritti del consumatore, già specificati sub 2.1.

In tale quadro, l’art. 1519-quinquies, poi confluito nell’art. 131 del Codice del consumo, prevede il diritto di regresso del venditore che sia chiamato a rispondere nei confronti del consumatore in caso di difetto di conformità del bene, verso il produttore. Ed è a tali fini che rileva la definizione di produttore di cui all’art. 1519-bis c.c., invocato dal ricorrente. Ciò emerge in modo incontrovertibile dal tenore testuale della norma invocata, che, infatti, così recita:” Il venditore finale, quando è responsabile nei confronti del consumatore a causa di un difetto di conformità imputabile ad un’azione o ad un’omissione del produttore, di un precedente venditore della medesima catena contrattuale distributiva o di qualsiasi altro intermediario, ha diritto di regresso, salvo patto contrario o rinuncia, nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili facenti parte della suddetta catena distributiva.

Il venditore finale che abbia ottemperato ai rimedi esperiti dal consumatore, può agire, entro un anno dall’esecuzione della prestazione, in regresso nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili per ottenere la reintegrazione di quanto prestato”.

7.3. – Il ricorrente pretende, invece, attraverso una sovrapposizione di norme dettate in riferimento a diversi settori di disciplina – quali del D.P.R. n. 224 del 1988, art. 1 e il D.Lgs. n. 115 del 1995, art. 2, lett. d), punto 3 – di applicare in forma generalizzata la equiparazione tra produttore ed importatore, dettata, ai fini dianzi precisati, dall’art. 1519-bis c.c., in guisa da fondare una diretta responsabilità della Volvo Auto Italia s.p.a. nei suoi confronti in relazione al difetto dell’autovettura acquistata.

A norma del D.P.R. n. 224 del 1988, art. 1 (Attuazione della direttiva CEE n. 85/374 relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, ai sensi della L. 16 aprile 1987, n. 183, art. 1), “Il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto”. E’ poi l’art. 3 del medesimo testo normativo a disporre che “Produttore è il fabbricante del prodotto finito o di una sua componente e il produttore della materia prima. 2. Per i prodotti agricoli del suolo e per quelli dell’allevamento, della pesca e della caccia, produttore è chi li abbia sottoposti a trasformazione. 3. Si considera produttore anche chi si presenti come tale apponendo il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla sua confezione. 4. E’ sottoposto alla stessa responsabilità del produttore chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, importi nella Comunità Europea un prodotto per la vendita, la locazione, la locazione finanziaria, o qualsiasi altra forma di distribuzione, e chiunque si presenti come importatore nella Comunità Europea apponendo il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla sua confezione”.

A sua volta, il D.Lgs. n. 115 del 1995 (Attuazione della direttiva 92/59/CEE relativa alla sicurezza generale dei prodotti), all’art. 2, lett. d), definisce produttore: “1) il fabbricante del prodotto stabilito nella Comunità Europea e qualsiasi altra persona individuabile come tale mediante l’apposizione sul prodotto del nome, del marchio o di altro segno distintivo, o colui che rimette a nuovo il prodotto;)) il rappresentante con sede nella Comunità Europea, quando il fabbricante ha sede in un Paese terzo, o, in mancanza, l’importatore del prodotto; 3) gli altri operatori professionali della catena di commercializzazione, quando la loro attività può incidere sulle caratteristiche di sicurezza del prodotto”, disciplinando all’art. 3 la responsabilità del produttore.

7.4. – Non è, peraltro, superfluo aggiungere che la direttiva 2001/95/CE sulla sicurezza generale dei prodotti, recepita in Italia con il D.Lgs. n. 172 del 2004 e, successivamente, il codice del consumo all’art. 103, comma 1, lett. d), chiariscono che per produttore si intende il fabbricante del prodotto stabilito nella Comunità e qualsiasi altra persona che si presenti come fabbricante apponendo sul prodotto il proprio nome, il proprio marchio o un altro segno distintivo, o colui che rimette a nuovo il prodotto, o il rappresentante del fabbricante se quest’ultimo non è stabilito nella Comunità o, qualora non vi sia un rappresentante stabilito nella Comunità, l’importatore del prodotto, o gli altri operatori professionali della catena di commercializzazione nella misura in cui la loro attività possa incidere sulle caratteristiche di sicurezza dei prodotti. Resta, dunque esclusa una equiparazione in via generale tra produttore ed importatore.

E’ pur vero che, a norma dell’art. 1519-nonies c.c., la disciplina della vendita dei beni di consumo non esclude nè limita i diritti attribuiti al consumatore da altre norme dell’ordinamento. E dunque il consumatore può promuovere il giudizio risarcitorio nei confronti direttamente del produttore, individuato secondo le definizioni che precedono. Tuttavia, come chiarito dalla Corte di merito, con riferimento alla vicenda che ne occupa, il C. introdusse il giudizio per ottenere la risoluzione del contratto, invocando l’art. 1492 c.c. e l’art. 1519-quater c.c..

7.5. – Per di più, la Corte territoriale ha rilevato che l’affermazione del primo giudice secondo la quale l’attività di importazione della Volvo Auto Italia riguardava prodotti fabbricati nell’ambito della Comunità Europea, e che non risultava che la stessa Volvo avesse apposto sul bene in oggetto il suo nome, marchio o altro segno distintivo, così presentandosi come produttore, non è stata censurata con l’atto di appello.

Al fine di contestare siffatta conclusione cui è pervenuta la Corte di merito – e qui si affronta l’ulteriore profilo del primo motivo del ricorso del C. – il ricorrente avrebbe dovuto, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso – riportare il passaggio dell’atto introduttivo del giudizio di appello dal quale emergesse la censura delle richiamate affermazioni del primo giudice. Invece, il ricorrente si limita a riportare brani dell’atto di appello che sostengono la tesi, già smentita nel precedente paragrafo 6.2., della non terzietà della Volvo al contratto intercorso tra Team Car ed il C. e della sussistenza di una obbligazione di garanzia nei confronti di quest’ultimo a carico anche della Volvo; mentre gli altri passaggi riportati nel ricorso rappresentano la trascrizione di brani non già della citazione in appello, bensì della comparsa conclusionale, integrando, come precisato dalla Corte di merito, motivi aggiunti del gravame, come tali inammissibili.

Per la stessa ragione non risulta smentita l’affermazione della Corte di merito secondo la quale costituisce deduzione nuova, rispetto al generico richiamo al D.Lgs. n. 115 del 1995, contenuto nell’atto di appello, l’argomentazione sviluppata in comparsa conclusionale relativa alla ingerenza dell’ispettore della Volvo Italia, tale da potere incidere sulle caratteristiche di sicurezza dei prodotti e, quindi, a sensi del D.Lgs. n. 115 del 1995, art. 2, lett. d), punto 3 (e, successivamente, dell’art. 103, comma 1, lett. d), del codice del consumo), determinare la equiparazione della Volvo stessa al produttore; così come deduzione nuova costituisce, secondo la corretta affermazione della Corte di merito, quella diretta a far valere una forma di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., per culpa in vigilando e in eligendo, a fronte della esclusione, da parte del giudice di primo grado, di una siffatta responsabilità avuto riguardo alla natura di importatore in capo alla Volvo Auto Italia.

8. – Con il secondo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 1519 ter e quater c.c., nonchè degli artt. 116, 342 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Avrebbe errato la Corte territoriale nel riconoscere, ai fini dell’accoglimento della domanda del ricorrente di risoluzione del contratto di compravendita della vettura in oggetto, esclusivamente il vizio relativo al malfunzionamento del motorino di avviamento della vettura medesima, ritenendo che l’atto introduttivo del giudizio di appello non avesse specificamente indicato gli altri vizi denunciati, e, pertanto, negando ingresso all’accertamento degli stessi. Ciò in quanto detti vizi, con particolare riferimento al cattivo odore che si sprigionava nell’abitacolo della vettura con il procedere della marcia, erano stati indicati nell’atto di citazione originario, e lamentati in modo articolato anche nell’atto di appello, anche alla luce delle dichiarazioni rese dai testi – che avevano riferito di aver patito, una volta occupata l’autovettura, un malessere fisico nell’avvertire l’odore – disattese dal giudice di primo grado con la inappropriata motivazione secondo la quale non poteva escludersi che gli stessi fossero affetti da qualche forma allergica o che i disturbi fossero in parte conseguenti al coinvolgimento emotivo derivante dalla convinzione della presenza di gas nocivi. La Corte di merito avrebbe dovuto prendere in considerazione le predette deposizioni testimoniali, già acquisite dal Tribunale – e, conseguentemente, accogliere le richieste, avanzate in grado di appello, di accertamento anche attraverso c.t.u. medico-legale – anzichè escluderne il rilievo sulla base degli esiti, negativi in ordine alla presenza di gas di scarico all’interno della vettura di cui si tratta, della c.t.u. disposta dal giudice di primo grado, ed espletata ben prima dell’ammissione delle deposizioni medesime, che, secondo la Corte territoriale, in presenza di dette risultanze peritali, nemmeno il Tribunale avrebbe dovuto ammettere. E ciò tenuto anche conto che nella stessa relazione di supplemento del c.t.u. si faceva riferimento – in risposta al rilievo dell’attore in ordine all’uso improprio di un misuratore portatile nell’espletamento della consulenza – a possibili ulteriori fonti di inquinamento, la cui esistenza si sarebbe potuta verificare con altre tecniche strumentali. Senza considerare poi che il giudice di secondo grado non aveva preso in esame le contestazioni di carattere tecnico rivolte alla relazione del c.t.u. dal c.t.p..

9. – Il motivo è privo di fondamento.

9.1. – Premesso che il ricorrente, risultato vittorioso in ordine alla domanda di risoluzione del contratto in seguito al riconoscimento del difetto di funzionamento del motorino di avviamento della vettura per cui è causa, motiva la persistenza del suo interesse all’accertamento degli ulteriori vizi da lui denunciati con riferimento al possibile accoglimento della domanda risarcitoria quale effetto di tale accertamento, deve rilevarsi anzitutto che la Corte di merito ha fornito una articolata e ragionata motivazione della propria adesione alle conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado in ordine alla esclusione della presenza di cattivo odore all’interno dell’abitacolo della vettura, vizio sul quale il ricorrente si è in particolare soffermato. In proposito, la Corte territoriale ha ripercorso, condividendolo, l’iter logico-giuridico seguito dal Tribunale, che aveva rilevato, sulla base della c.t.u.., la esclusione, in qualsiasi condizione di marcia, della immissione nell’abitacolo dell’autovettura di gas di scarico, aggiungendo che, se pure l’indagine era stata limitata alla presenza di anidride carbonica, tuttavia, essendo il monossido di carbonio presente nel gas di scarico delle autovetture, poteva escludersi la presenza anche di altre componenti gassose di gas di scarico – peraltro non prospettate nell’atto di citazione – in relazione alle quali non era stata effettuata apposita misurazione; e, con ciò, vanificando ogni rilievo della censura attinente all’uso di strumentazione non adeguata, contestazione, peraltro, non avvalorata dal c.t.p. con una rilevazione della presenza di gas tossici, essendosi quest’ultimo limitato a misurare la concentrazione di anidride carbonica allo scarico. A fronte di tale tessuto motivazionale della pronuncia del primo giudice, ha, dunque, correttamente osservato la Corte di merito che l’appellante si è limitato ad una generica contestazione dell’accertamento peritale alla stregua di una indimostrata inadeguatezza dello strumento di misurazione e della mal eseguita misurazione, riservando agli scritti difensivi successivi ulteriori inammissibili argomenti.

Tale essendo la piattaforma probatoria considerata, il giudice di secondo grado, nell’esercizio della sua valutazione discrezionale, ha del tutto plausibilmente escluso la necessità di ricorrere, per la formazione del proprio convincimento, al confronto delle risultanze peritali con le deposizioni testimoniali acquisite, che comunque non avrebbero potuto offrire la dimostrazione della causa del cattivo odore.

Sostanzialmente, il ricorrente tende, con la censura illustrata, dietro la veste formale della denuncia di una violazione di legge, ad ottenere una rivalutazione del merito delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di secondo grado a seguito dell’apprezzamento, a lui spettante, del materiale probatorio.

9.2. – A ciò deve aggiungersi, per completezza di trattazione, che la richiesta di integrazione dell’elaborato peritale depositato nel giudizio di primo grado non risulta riproposta nell’atto di appello (e nemmeno nella comparsa conclusionale di primo grado), ma solo con la comparsa di costituzione del nuovo procuratore. Inoltre, la istanza di c.t.u. medico-legale è stata per la prima volta proposta nel giudizio di appello, in contrasto con l’art. 345 c.p.c..

10. – Con il terzo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 1494 e 2043 c.c. e dell’art. 32 Cost., artt. 115 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Il ricorrente deduce di aver fatto valere, in corso di giudizio di appello, la patologia “piastrinopenia” dalla quale è risultato affetto, che non è stato possibile ascrivere ad una causa che possa escludere la connessione alla esposizione ad esalazioni tossiche in costanza di uso dell’autovettura per cui è causa, e di avere, perciò, chiesto alla Corte territoriale di disporre una consulenza medico-legale al fine di accertare tale connessione, nonchè di ordinare al c.t.u. del giudizio di primo grado di depositare il libretto tecnico afferente all’apparecchio che lo stesso aveva dichiarato di aver utilizzato per l’espletamento della consulenza, ed, eventualmente, disporre nuova consulenza tecnica al fine di accertare se detto strumento avesse i requisiti per lo svolgimento delle indagini demandategli, e di effettuare gli ulteriori accertamenti tecnici ritenuti opportuni. La Corte di merito avrebbe errato nel dichiarare inammissibili le richieste istruttorie, successivamente reiterate dal C. in sede di comparse conclusionali, per tardività, e comunque in quanto inconducenti ai fini della decisione, polche la patologia denunciata si era manifestata successivamente alla proposizione del gravame, come risulta dalla documentazione medica allegata alla richiesta. Ed ancora avrebbe errato il giudice di secondo grado nel rigettare la domanda risarcitoria relativa al danno da mancato utilizzo del bene per mancanza di prova e per essersi lo stesso appellante opposto al supplemento di c.t.u. disposta per stabilire se il difetto di accensione impedisse la funzionalità e l’uso del mezzo. Nè la Corte aveva riconosciuto il risarcimento per la esposizione a danno alla salute del C. a causa della pericolosità dell’autovettura, e nemmeno il danno patrimoniale per gli esborsi dedotti dall’attuale ricorrente assicurazione, tassa di possesso – in base al rilievo che l’autovettura, dopo le operazioni peritali, era stata usata per 3605 chilometri.

11.- Anche questo motivo è infondato.

11.1.- Una volta esclusa, come già fatto dal primo giudice, sulla base della c.t.u.., la immissione nell’abitacolo dell’autovettura in questione di gas di scarico, la Corte territoriale non avrebbe potuto, non consentendolo la logica, riconoscere alcun nesso di causalità tra una esposizione ad esalazioni tossiche, della quale era stata accertata la inesistenza, e la patologia denunciata dal C. come sopravvenuta al giudizio di primo grado. E ciò anche a prescindere dalla considerazione che mai nel corso di tale giudizio, nè nell’atto introduttivo di quello di appello, erano stati neanche ipotizzati profili di responsabilità extracontrattuale, mentre la richiesta di risarcimento, avanzata in primo grado e disattesa dal Tribunale, riguardava i danni da illegittimo comportamento contrattuale. Peraltro, l’atto introduttivo del gravame non riguardava specificamente il rigetto della domanda di risarcimento dei danni, ma si limitava, come emerge dalla sentenza impugnata, ad attaccare la pronuncia di primo grado sotto il duplice profilo del mancato riconoscimento della legittimazione passiva della Volvo Auto Italia e della esclusione della sussistenza di vizi e difetti di conformità in relazione alla obbligazione di garanzia.

11.2. – Quanto al danno da mancato utilizzo del bene, ed al danno patrimoniale per gli esborsi dedotti dal ricorrente, il rilievo della utilizzazione dell’autovettura, protratto anche successivamente alle operazioni peritali, costituisce elemento decisivo al fine di escludere la configurabilità del danno dedotto.

12. – Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c. e D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Avrebbe errato la Corte di merito nel rigettare la domanda di condanna per responsabilità aggravata avanzata dall’attuale ricorrente per il fatto che, nonostante gli evidenti vizi dai quali era affetto il bene de quo, Team Car e Volvo Auto Italia avevano inteso resistere alla domanda di risoluzione contrattuale nonostante la sua richiesta extragiudiziale di sostituzione dell’autovettura. Si contesta poi il mancato riconoscimento in favore dell’attuale ricorrente delle spese relative alla c.t.u. ed il rimborso delle spese legali da lui sostenute sino alla data in cui potè fruire del patrocinio a spese dello Stato, nonchè della somma di Euro 208,90, che sarebbe a lui spettata essendo stato disposto il pagamento a favore dello Stato dell’importo complessivo di Euro 2455,00, esorbitante appunto nella misura di Euro 208, 90 rispetto alla liquidazione di Euro 2246, 10 per il gratuito patrocinio.

13. – Il motivo è immeritevole di accoglimento.

Va, anzitutto, rilevato al riguardo che la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., integra una particolare forma di responsabilità processuale a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, sicchè non può farsi luogo all’applicazione della norma nel caso di soccombenza reciproca (cfr. Cass., sent. n. 24158 del 2017), ipotesi che si è verificata nella specie.

Inammissibile è la doglianza attinente alla liquidazione in favore dello Stato della somma di Euro 2455,00, con esorbitanza di Euro 208,90 rispetto alla liquidazione di Euro 2246, 10 per il gratuito patrocinio, esorbitanza che sarebbe andata a carico dell’appellante, cui invece detta somma sarebbe spettata. Il C. non chiarisce infatti a quale titolo quella somma competerebbe a lui, ponendo all’evidenza sullo stesso piano, e confondendo, due titoli diversi di liquidazione, quello relativo alle spese del patrocinio a carico dello Stato e quello attinente alle spese di lite.

Per la parte residua la doglianza è infondata, in quanto, premesso che il C. non è risultato del tutto vittorioso nel giudizio di appello, lo stesso non ha fornito alcuna dimostrazione in ordine alla richiesta nel giudizio di appello delle specifiche spese da lui asseritamente sostenute.

14. – Conclusivamente, vanno rigettati entrambi i ricorsi. Per effetto della reciproca soccombenza, va disposta la integrale compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.

Poichè i ricorsi sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013 e sono rigettati, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013”, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte di entrambi i ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi di Team Car s.r.l. in liquidazione e di C.G.. Compensa integralmente tra dette parti le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte di entrambi i ricorrenti, del contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 7 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2020

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