Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1045 del 17/01/2019

Cassazione civile sez. III, 17/01/2019, (ud. 03/04/2018, dep. 17/01/2019), n.1045

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10011-2016 proposto da:

T.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BUCCARI, 3

(TEL. 06.99700649), presso lo studio dell’avvocato LUANA GRANOZIO,

rappresentato e difeso dall’avvocato SIMONE ZANCANI giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

N.G.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2495/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 26/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/04/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI CARMELO che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. T.C. ricorre, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 2495/15 del 4 settembre 2015, emessa dalla Corte di Appello di Venezia, che – rigettando il gravame principale dell’odierno ricorrente contro la sentenza n. 1789/11 del 16 maggio 2011 del Tribunale di Venezia – ha confermato la condanna del T. a risarcire a N.G. il danno conseguente ad intervento odontoiatrico eseguito il (OMISSIS).

2. Riferisce, in punto di fatto, il T. che la predetta N. ebbe a recarsi, tra il 2005 ed il 2006, presso il suo studio odontoiatrico, per la rinnovazione dell’impianto protesico. Deduce, altresì, che – all’esito di accertamenti diagnostici – egli ebbe a prospettare alla paziente la necessità di sottoporsi ad intervento chirurgico, informandola compiutamente dei rischi e benefici dello stesso. A fronte, tuttavia, del rifiuto della donna, egli propose un trattamento protesico non chirurgico, eseguito il quale, con l’installazione di una protesi provvisoria, la N. ebbe a lamentare nel novembre 2006 – l’insorgenza di dolore all’arcata superiore della bocca, con conseguente cefalea. Rivoltasi la paziente ad altri sanitari all’inizio del 2007, nessuno di essi ebbe ad individuare la causa dell’algia, nè a certificare alcuna correlazione (se non di carattere temporale) tra i dolori lamentati e l’inserimento della protesi provvisoria. Ciò nonostante la N. decise di interrompere il rapporto di cura con il T., senza che lo stesso potesse realizzare ed installare l’impianto definitivo, con rimozione di quello provvisorio disposta, da altro sanitario, il 29 luglio 2008, circa diciotto mesi l’insorgenza dell’algia.

Riferisce, altresì, l’odierno ricorrente di essere stato convenuto in giudizio dalla propria paziente innanzi al Tribunale lagunare, perchè fosse dichiarato risolto, per inadempimento, il contratto intercorso tra di esso e la N., con proprio obbligo non solo di restituzione, alla paziente, della somma di Euro 7.274,00, versata come corrispettivo della prestazione sanitaria, ma anche di risarcimento del danno asseritamente cagionato. L’adito giudicante – all’esito di una CTU, che pure escludeva esservi stata violazione delle “leges artis” da parte del medico nell’esecuzione della prestazione, affermando, altresì, l’impossibilità di individuare con certezza la causa dei dolori lamentati dalla N., nonchè indicando quale “second best approach” l’intervento protesico proposto ed attuato dal T., dopo il rifiuto da parte della paziente dell’operazione chirurgica – affermava, comunque, la responsabilità dell’odontoiatra, respingendo la domanda di risoluzione per inadempimento, ma condannandolo al pagamento di Euro 9.504,59, a titolo di risarcimento del danno, somma già rivalutata e comprensiva di interessi. Esito, questo, cui il primo giudice perveniva sul presupposto che dovessero ravvisarsi “note di imprudenza” nella “accettazione della posizione” della paziente di rifiuto dell’intervento chirurgico (“best first”), in favore di un trattamento impiantare (“second best”).

Proposto gravame dal T. in via principale (e, per quanto ormai di interesse, via incidentale dalla N., in ordine al rigetto della domanda di risoluzione per inadempimento e alla quantificazione del danno, oltre che delle spese sopportate per perizie consulenze) le statuizioni del primo giudice venivano confermate dalla Corte veneziana, che – rigettato, come detto, l’appello principale del T. – poneva a carico dell’odierno ricorrente, solo in parziale accoglimento di quello incidentale della N., l’ulteriore importo di Euro 2.809,00 a titolo di spese peritali e di consulenza tecnica di parte.

3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il T., sulla base di un unico motivo.

3.1. Con lo stesso è dedotta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “violazione delle norme di diritto che disciplinano l’onere probatorio nella responsabilità professionale medica”, ovvero gli artt. 1176,1218,1223,2729,2697,2043 e 2059 cod. civ.

Si censura la sentenza impugnata laddove ha fondato l’affermazione di responsabilità di esso T. nella “imprudente” accettazione del rifiuto della paziente a sottoporsi all’intervento chirurgico e nella conseguente accettazione, da parte del medico, del rischio connesso ad un “second best” terapeutico, dovendo, in tale contesto, rimanere a carico del sanitario ogni complicanza in relazione alla quale il medesimo non sia in grado di dimostrare di aver correttamente adempiuto ai propri obblighi.

Si tratterebbe, secondo il ricorrente, di affermazioni giuridicamente errate.

In primo luogo, perchè “l’accettazione del rifiuto ad un trattamento sanitario di un paziente non può mai risolversi in una fonte di responsabilità per il medico essendo, al contrario, un atto doveroso”, e ciò nel “rispetto del diritto costituzionalmente tutelato” del primo “di scegliere le cure”, non potendo l’ordinamento “contemplare l’esistenza di un precetto che imponga ad un medico di astenersi dal prestare cure alternative”, anche quando il rifiuto del paziente riguardi un “first best”.

In secondo luogo, perchè, una volta riconosciuto che il medico ha, nella specie, correttamente eseguito la terapia impiantologica, vi sarebbe “pienezza nella prova liberatoria posta a carico del sanitario”, giacchè costui “è stato in grado di dimostrare di aver adempiuto correttamente alle proprie obbligazioni”. Nè, d’altra parte, il riparto degli oneri probatori in ambito sanitario potrebbero trasformare “una sindrome dolorosa priva di relazione clinica con l’impianto” – non solo “perchè esclusa dagli specialisti”, ma anche “perchè ripresentatasi successivamente all’avvio di nuove cure presso altro odontoiatra” – in “un evento danno eziologicamente riconducibile alle cure impiantologiche”, considerato che le circostanze testè riferite, in base all’applicazione della regola probatoria che governa la ricostruzione del nesso causale nel processo civile (ovvero, quella del “più probabile che non”) conducono ad escludere un nesso di derivazione eziologica “tra dolorabilità ed impianto”.

4. L’intimata non ha presentato controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Il ricorso è fondato.

5.1. La sentenza impugnata ha disatteso i principi in tema di ripartizione dell’onere della prova, enunciati da questa Corte con riferimento alla fattispecie responsabilità per attività medico-chirurgica, donde la sussistenza della denunciata violazione dell’art. 2697 cod. civ..

Al riguardo occorre muovere dalla premessa che la “violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01).

Siffatta evenienza è quella verificatasi nel caso di specie, per le ragioni di seguito illustrate.

5.2. La sentenza impugnata, riconosciuto, peraltro, in quello eseguito dal dott. T. un intervento conforme alle “leges artis”, ha ritenuto che ad escludere la responsabilità del professionista non potesse valere “la circostanza che nemmeno la consulenza tecnica d’ufficio abbia saputo ben spiegare le cause della situazione di sofferenza (e che analoghe problematiche – “sovrapponibili” – vi siano state a seguito dei successivi interventi praticati da altro odontoiatra)”, atteso che, “a fronte di un cattivo esito della terapia implantoprotesica”, praticata dall’odierno ricorrente, non poteva “che essere onere del medesimo dimostrare il proprio corretto adempimento e dunque la non imputabilità di quanto accaduto”.

Si tratta, come si notava in premessa, di affermazioni non in linea con i “dicta” di questa Corte.

Essa, infatti, ha ancora di recente osservato che nei giudizi risarcitori da responsabilità medica si delinea “un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18392, Rv. 645164-01).

Ne consegue, dunque, che “la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 18392 del 2017, cit.; in senso analogo si vedano anche Cass. Sez. 3, sent. 4 novembre 2017, n. 26824, non massimata; Cass. Sez. 3, sent. 7 dicembre 2017, n. 29315, Rv. 646653-01; Cass. Sez. 3, ord. 23 ottobre 2018, n. 26700, Rv. 651166-01).

Nello stesso senso, pertanto, si è affermato che “nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicchè, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata” (Cass. Sez. 3, sent. 15 febbraio 2018, n. 3704, Rv. Rv. 647948-01).

Nel caso di specie, dunque, non essendo stata raggiunta prova a carico dell’attore – del nesso causale “a monte” tra la sofferenza lamentata dalla paziente e l’intervento praticato dall’odontoiatra, tanto imponeva il rigetto della domanda risarcitoria della N..

5.3. Va, pertanto, disposta la cassazione della sentenza impugnata.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti nel merito, la causa può essere decisa da questa Corte, con il rigetto della domanda risarcitoria e con il conseguente riconoscimento che nulla è dovuto dal T. alla N., neppure per spese di perizia e consulenza.

6. A favore del T. vanno liquidate le spese dell’intero giudizio. In particolare, per quelle relative al primo e secondo grado di giudizio vanno liquidate, rispettivamente, in Euro 2.800,00, nonchè in Euro 2.875,00, oltre accessori di legge su entrambe tali somme.

Quanto alle spese della presente fase di legittimità, anch’esse seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico della parte intimata e liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte accoglie il ricorso e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da N.G..

Condanna N.G. a rifondere a T.C. le spese del primo e del secondo grado di giudizio, liquidate, rispettivamente, in Euro 2.800,00, nonchè in Euro 2.875,00, oltre accessori di legge su entrambe tali somme.

Condanna N.G. a rifondere a T.C. le spese del presente giudizio, liquidate in Euro 3.200,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie del 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 3 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2019

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