Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10448 del 21/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 21/04/2021, (ud. 28/10/2020, dep. 21/04/2021), n.10448

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI G. – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. PEPE Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2970 del ruolo generale dell’anno 2013

proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) s.a.s., in persona del curatore fallimentare;

– intimata –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale dell’Umbria, n. 139/02/2011, depositata in data 5 dicembre

2011;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 28

ottobre 2020 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

 

Fatto

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata e dal ricorso si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a (OMISSIS) s.a.s, esercente l’attività di commercio di autoveicoli, un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2004, aveva contestato che alcuni acquisti di autovetture erano stati effettuati da società cartiere nell’ambito di una frode carosello; avverso l’avviso di accertamento la società aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Perugia; avverso la sentenza del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: l’ufficio non aveva dato prova della partecipazione della società alla frode carosello; il numero limitato di acquisti di autovetture (solo 9) era indice di mancanza di dolo nella partecipazione alla frode carosello; per ogni singola vettura la società contribuente aveva provato il costo di acquisto e di rivendita, entrambi in linea con il mercato, con ricarica adeguata alle attività di settore caratterizzato da forte concorrenza;

l’Agenzia delle entrate ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a due motivi di censura;

la società è rimasta intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19, 21, 23 e 28, del D.L. n. 429 del 1982, art. 4, lett. d), convertito dalla L. n. 516 del 1982, come modificato dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, nonchè dell’art. 2697, c.c., per avere posto a carico dell’amministrazione finanziaria, che contesta l’illegittima detrazione dell’Iva in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’onere di provare la assenza di buona fede della contribuente;

il motivo è infondato;

il giudice del gravame ha ritenuto illegittima la pretesa dell’amministrazione finanziaria sulla base di una duplice ratio decidendi, in particolare: da un lato, ha escluso che la contribuente fosse consapevole della partecipazione ad una frode carosello, tenuto conto del numero limitato di vetture acquistate dalle società ritenute cartiere nonchè della misura dei ricarichi operati, adeguati alle attività di settore; d’altro lato, ha considerato che nessuna prova aveva offerto l’amministrazione finanziaria al fine di accertare la consapevolezza della contribuente della suddetta partecipazione;

va quindi osservato che, con riferimento al profilo della ripartizione dell’onere di prova gravante sulle parti in caso di operazione soggettivamente inesistente, questa Corte (Cass. civ., 20 aprile 2018, n. 9851) ha precisato che “occorre considerare che il diniego del diritto di detrazione segna un’eccezione al principio di neutralità dell’Iva che tale diritto costituisce: incombe, dunque, in primo luogo, sull’Amministrazione finanziaria provare che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettano, le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione. Una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente. La prova che deve essere fornita dall’Amministrazione in caso di operazioni soggettivamente inesistenti si incentra su due circostanze di valenza costitutiva rispetto alla pretesa erariale e in particolare: a) l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni: il soggetto formale non è quello reale; b) il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione Iva: non è necessaria la prova della partecipazione all’evasione ma è sufficiente, e necessario, che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole”;

con specifico riferimento, quindi, all’elemento di cui al punto b), dunque al profilo soggettivo della consapevolezza del contribuente, in ordine al quale va esaminata la ragione di censura in esame, con la pronuncia di questa Corte sopra indicata si è precisato che, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia, la circostanza che l’operazione si inserisca in una fattispecie fraudolenta di evasione dell’Iva non comporta ineludibilmente la perdita, per il cessionario, del diritto di detrazione. E’, infatti, configurabile una esigenza di tutela della buona fede del soggetto passivo, il quale non può essere sanzionato, con il diniego del diritto di detrazione, se “non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si collocava nell’ambito di un’evasione commessa dal fornitore o che un’altra operazione facente parte della catena delle cessioni, precedente o successiva a quella da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’Iva” (Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C-439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahageben e David, C-80/11 e C142/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14);

in sintesi, dunque, l’Amministrazione tributaria è tenuta a provare, sia pure anche solo in base a presunzioni, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero, con espressione efficace, “a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente” (Corte di Giustizia 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C-277/14, par. 50);

con specifico riguardo al “tipo” di prova, essa può ritenersi raggiunta se l’Amministrazione fornisce attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice e, dunque, non occorre la prova “certa” e incontrovertibile di ogni operazione e dettaglio: l’Amministrazione può assolvere al suo onere probatorio anche mediante presunzioni, come prevede per l’Iva il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, (analogamente per le imposte dirette: v. D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e mediante elementi indiziari, sicchè è sufficiente che gli elementi forniti dall’Amministrazione si riferiscano anche solo ad alcune fatture o circostanze rilevanti per la qualificazione della società interposta come cartiera (quali ad es. la mancanza di sede, la mancanza di iscrizione, l’omesso versamento delle imposte,…) ovvero a singole indicazioni significativamente riferibili alla sfera di conoscenza o conoscibilità dell’imprenditore;

in ordine alla prova dell’elemento soggettivo del cessionario-committente (punto b), non è poi ipotizzabile un automatismo probatorio a suo detrimento, essendo necessario tenere conto della concreta vicenda e delle circostanze di volta in volta presenti, spettando all’Amministrazione dimostrare, ed al giudice verificare, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal destinatario della fattura verifiche che non gli incombono, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata per fondare il suo diritto alla detrazione si iscriveva in un’evasione dell’Iva;

sicchè, l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario va ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obbiettivi e specifici, che spetta all’Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione dell’Iva e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione;

va osservato, in particolare, che se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate ovvero tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo;

in via meramente esemplificativa, poichè la valutazione va in ogni caso ancorata alla concreta vicenda, possono costituire elementi di rilevanza sintomatica: l’acquisto dei beni ad un prezzo inferiore di mercato; la limitatezza dell’eventuale ricarico; la presenza di una varietà e pluralità di soggetti promiscuamente indicati nella documentazione di trasporto e nella fatturazione; la scelta di operare secondo canali paralleli di mercato (che esige una più attenta e approfondita valutazione dei propri interlocutori, proprio per verificarne l’effettività), poco importa se giustificata da esigenze di accelerazione e di margini produttivi; la tempistica dei pagamenti, in ispecie se incrociati od operati su conti esteri a fronte di interlocutori nazionali, ovvero se effettuati cash; la qualità del concreto intermediario con il quale sono state intrattenute le operazioni commerciali; il numero, la qualità e la durata delle transazioni, in ispecie a fronte di rapporti contigui e frequentazioni reiterate con i titolari della cartiera, ovvero nel caso in cui il contribuente abbia rapporti commerciali con una pluralità di soggetti aventi la quantità di cartiera;

ciò precisato, non è in contrasto con i suddetti principi la decisione censurata per avere ritenuto che gravasse sull’amministrazione finanziaria l’onere di fornire la prova della consapevolezza della contribuente del carattere fraudolento dell’operazione nella quale si inserivano i propri acquisti;

d’altro lato, come evidenziato, la stessa sentenza censurata ha argomentato anche su diversi elementi che escluderebbero comunque l’esigibilità, ne; confronti del contribuente, di un comportamento più diligente nel verificare la correttezza dell’operato della società fornitrice, in particolare è stata posta l’attenzione sul limitato numero di acquisti nonchè sulla circostanza che per ogni singola vettura la società contribuente aveva fornito elementi da cui evincere quale era stato il costo di acquisto e di rivendita, entrambi in linea con il mercato, con una ricarica adeguata tenuto conto dello specifico settore;

sicchè, il giudice del gravame, valorizzando i suddetti elementi, ha escluso che sussistessero le condizioni (attesi i limitati rapporti economici con la fornitrice e la adeguata dei valori economici) per potere ritenere esigibile nei confronti della contribuente un particolare comportamento diligente nella verifica della regolarità fiscali delle operazioni;

ne consegue che la pronuncia non contrasta con i principi in materia di riparto dell’onere della prova nell’ambito delle operazioni soggettivamente inesistenti;

con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per insufficiente motivazione circa fatti decisivi e controversi per il giudizio, per avere valorizzato il limitato numero di acquisti di autovetture nonchè la circostanza, peraltro non puntualmente dedotta dalla contribuente negli atti di giudizio, che per ogni singola vettura la società contribuente aveva fornito elementi da cui evincere quale era stato il costo di acquisto e di rivendita, entrambi in linea con il mercato, con una ricarica adeguata tenuto conto dello specifico settore, nonchè per non avere considerato che, con riferimento agli acquisti compiuti dalla società Thelma Trading s.r.l. e dalla Liguria Motori s.r.l., queste avevano effettuato dei ricavi minimi e addirittura negativi;

il motivo è infondato;

lo stesso, invero, non consente di superare la valutazione del giudice del gravame di mancanza della prova, a carico dell’amministrazione finanziaria, della consapevolezza della contribuente che le operazioni di acquisto si collocavano nell’ambito di frode carosello;

il giudice del gravame, invero, dopo avere escluso che l’ufficio avesse assolto al proprio onere di prova, ha precisato che, non solo il numero delle operazioni di acquisto oggetto di contestazione era oltremodo limitato, ma anche che, per ogni singola vettura, la società contribuente aveva indicato il costo di acquisto e di rivendita e che in entrambi i casi gli stessi erano in linea con il mercato;

con il presente motivo di ricorso, in realtà, oltre a censurare la valutazione compiuta dal giudice degli elementi di prova sulla cui base ha ritenuto di escludere ogni indice di consapevolezza, si fa riferimento ad un ulteriore fatto, quello relativo, cioè, all’importo del prezzo delle società venditrici, senza, tuttavia, fornire elementi ulteriori da cui ricavare, almeno in via presuntiva, che la contribuente fosse stata a conoscenza di tali circostanze e, pertanto, avrebbe dovuto tenere un comportamento improntato su di una maggiore diligenza al fine di aivere certezza della regolarità delle operazioni;

in conclusione, i motivi sono infondati, con conseguente rigetto del ricorso;

nulla sulle spese attesa la mancata costituzione dell’intimata.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 28 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2021

 

 

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