Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10443 del 21/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 21/04/2021, (ud. 13/10/2020, dep. 21/04/2021), n.10443

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27270/2014 R.G. proposto da:

R.C., rappresentata e difesa dall’Avv. Maria Consiglio

Dilillo, elettivamente domiciliata nel suo studio in Irsina (MT);

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

e nei confronti di:

Equitalia sud s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, con sede in Roma, viale Tor di Marancia, n. 4;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio

n. 1975/35/14, depositata il 27 marzo 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 ottobre

2020 dal Cons. Salvatore Leuzzi.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

La ricorrente veniva raggiunta da una cartella di pagamento, pedissequa ad avviso di accertamento, finalizzata al recupero di Irpef, Irap e Iva dovute con riferimento agli anni 2004 e 2005.

La CTP accoglieva il ricorso della contribuente, stigmatizzando l’irrituale notifica degli avvisi di accertamento, quali atti presupposti della cartella.

La CTR del Lazio accoglieva, di contro, il successivo appello dell’Agenzia.

La contribuente affida a cinque motivi il ricorso per cassazione.

L’Agenzia delle entrate si è costituita ai soli fini della partecipazione all’udienza di discussione.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

Con il primo motivo di ricorso si contesta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la CTR apoditticamente ritenuto gli avvisi di accertamento notificati correttamente nella residenza dell’appellata, senza chiarire la fonte di siffatto convincimento. Con il secondo motivo si assume la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58 che preclude l’ammissibilità di prove nuove in appello. Con il terzo motivo di ricorso viene adombrato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, per avere la CTR omesso di motivare in ordine alla circostanza certificata che la contribuente si trovava stabilmente in (OMISSIS), dove svolgeva la propria attività di medico, di talchè non poteva risiedere a Roma.

Con il quarto motivo di ricorso, la contribuente si duole della nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 per essersi i giudici d’appello limitati a sostenere la correttezza della notifica degli avvisi di accertamento, senza “analisi critica della sentenza di primo grado e, soprattutto, l’indicazione delle ragioni per le quali hanno ritenuto di accogliere l’appello”.

Con il quinto motivo di ricorso, la contribuente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, l’omessa motivazione D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 25 e la nullità della sentenza per omessa motivazione, avuto riguardo alla cartella impugnata.

Il primo motivo – che contesta la mancanza nella comunicazione di avvenuto deposito presso l’ufficio postale del piego indirizzato al destinatario dei requisiti indicati nella L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, – è infondato.

La norma ora evocata, infatti, nel prescrivere che “l’agente postale rilascia avviso al destinatario mediante affissione alla porta d’ingresso oppure mediante immissione nella cassetta della corrispondenza”, non impone l’obbligo di specificare la modalità concretamente prescelta. Nè tale obbligo emerge dalla successiva prescrizione, per culi “di tutte le formalità eseguite e del deposito, nonchè dei motivi che li hanno determinati, è fatta menzione sull’avviso di ricevimento che, datato e sottoscritto dall’agente postale, è unito al piego”. Le formalità eseguite, da menzionare nell’avviso di ricevimento, comprendono infatti unicamente il rilascio dell’avviso, e le ragioni dello stesso, ma non si estendono alla specificazione delle modalità seguite, se mediante affissione o mediante immissione nella cassetta, facendo fede dell’effettivo avvenuto rilascio la dichiarazione dell’agente postale. L’obbligo di legge risulta pertanto soddisfatto con l’indicazione del motivo della mancata consegna (nella specie per mancanza del destinatario) e con la menzione (parimenti svolta) dell’eseguita formalità del rilascio dell’avviso (v. Cass. n. 4691 del 1998).

Infondata è anche la seconda censura.

Attraverso detto mezzo parte ricorrente lamenta il deposito della documentazione relativa al procedimento notificatorio degli avvisi di accertamento solo in sede d’appello, additando una violazione del regime delle preclusioni scandite dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58.

In realtà, diversamente da quanto opinato dalla contribuente, viene in rilievo il principio espresso da questa Corte in base al quale “In materia di produzione documentale in grado di appello nel processo tributario, alla luce del principio di specialità espresso dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, – in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’ultima – non trova applicazione la preclusione di cui all’art. 345 c.p.c., comma 3, (nel testo introdotto dalla L. n. 69 del 2009), essendo la materia regolata dall’art. 58, comma 2, del citato D.Lgs., che consente alle parti di produrre liberamente i documenti anche in sede di gravame, sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado” (Cass. n. 27774 del 2017; Cass. n. 18907 del 2011).

Questa Corte ha anche osservato che “In materia di contenzioso tributario, il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 58 consente la produzione nel giudizio di appello di qualsiasi documento, pur se già disponibile in precedenza” (Cass. n. 22776 del 2015) e ha soggiunto che “Nel processo tributario, poichè il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58 consente la produzione in appello di qualsiasi documento, la stessa può essere effettuata anche dalla parte rimasta contumace in primo grado, poichè il divieto posto dall’art. 57 del detto decreto riguarda unicamente le eccezioni in senso stretto” (Cass. n. 29568 del 2018). La terza censura è infondata.

Suo tramite la contribuente lamenta l’effettuazione della notifica presso la residenza anagrafica anzichè presso quella effettiva e a suo dire documentata. Orbene, ai sensi dell’art. 43 c.c., comma 2, la residenza è il luogo in cui la persona ha la dimora abituale. Non dunque quello in cui risulta averla in base alle risultanze anagrafiche, che rivestono valore meramente presuntivo (cfr., ex multis, Cass. n. 16941 del 2003, Cass. n. 12021 del 2002), ma quello in cui effettivamente dimora. A tale luogo fa evidentemente riferimento l’art. 139 c.p.c. laddove stabilisce che il destinatario della notifica va ricercato nella casa di abitazione del comune di residenza, ed a tale luogo si riferisce l’art. 140 c.p.c. per il compimento delle formalità dalla stessa disposizione previste nel caso di irreperibilità o di incapacità o rifiuto di ricevere la copia da parte delle persone indicate nell’articolo precedente. Se, dunque, colui su richiesta del quale la notificazione deve essere eseguita conosca il luogo di reale dimora abituale del destinatario o sia in grado di conoscerlo facendo uso della diligenza che il caso suggerisce, in quel luogo la notifica deve fare eseguire (Cass. n. 16941 del 2003; Cass. n. 3270 del 2003; Cass. n. 8681 del 1998), posto che lo scopo della notificazione è quello di fare pervenire effettivamente l’atto al destinatario ovvero di porlo in condizione di conoscerlo.

Tuttavia, la notificazione eseguita, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nel luogo di residenza del destinatario risultante dai registri anagrafici, è nulla soltanto nell’ipotesi in cui questi si sia trasferito altrove e il notificante ne conosca, ovvero con l’ordinaria diligenza avrebbe potuto conoscerne, l’effettiva residenza, dimora o domicilio, dove è tenuto ad effettuare la notifica stessa, in osservanza dell’art. 139 c.p.c. (Cass. n. 3270 del 2003; Cass. n. 11369 del 2006; Cass. n. 3590 del 2015; Cass. n. 30952 del 2017).

Nel caso di specie è pacifico che la R. risiedesse all’indirizzo di via Levanzo, in Roma, presso il quale è stata eseguita la notifica.

Nè “con l’ordinaria diligenza” era dato conoscere una qualsiasi, asserita, diversa residenza della predetta destinataria alla data della suddetta notificazione, la quale si è limitata a far leva su documentazione relativa alla propria attività attività professionale, invero inconoscibile da parte dell’Agenzia, in quanto nè notoria, nè pubblicizzata.

La quarta censura è infondata.

Essa adombra la nullità della sentenza in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36.

In tema di processo tributario, è contrassegnata da nullità, per violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 36 e 61 nonchè dell’art. 118 disp. att. c.p.c., esclusivamente la sentenza della commissione tributaria regionale completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle o che si sia limitata a motivare “per relationem” alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del “thema decidendum” e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo (Cass. n. 15884 del 2017; Cass. n. 24452 del 2018).

Nel caso di specie la sentenza impugnata non rientra paradigmaticamente nell’applicazione di tale principio di diritto, posto che sviluppa in apprezzabile modo un’autonoma valutazione sul “meritum causae”, come gli era stato richiesto con i motivi dell’appello, attraverso il cui esame essa approda ad una decisione peraltro divaricata rispetto a quella di primo grado sulla questione della ritualità della notifica presso la residenza anagrafica.

La quinta censura è infondata.

La stessa contesta la nullità della cartella per carenza assoluta di motivazione, ricavandone la conseguenza della nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per omessa motivazione su tale punto della controversia dedotto in costanza di giudizio.

In realtà, come precisato da questa Corte “La cartella esattoriale, che non costituisca il primo e l’unico atto con cui si esercita la pretesa tributaria, essendo stata preceduta dalla notifica di altro atto propriamente impositivo, non può essere annullata per vizio di motivazione, anche qualora non contenga l’indicazione del contenuto essenziale dell’atto presupposto, conosciuto ed autonomamente impugnato dal contribuente” (Cass. n. 21177 del 2014; Cass., sez. un., n. 11722 del 2010).

Il difetto di motivazione della cartella esattoriale, che faccia rinvio ad altro atto costituente il presupposto dell’imposizione senza indicarne i relativi estremi in modo esatto, non può condurre alla dichiarazione di nullità, allorchè la cartella sia stata impugnata dal contribuente.

In tema di provvedimento amministrativo di imposizione tributaria, la motivazione che rinvii alle conclusioni contenute in atti redatti nell’esercizio dei poteri di polizia tributari, già noti al contribuente, non è illegittima, indicando semplicemente che l’Ufficio procedente ha inteso realizzare un’economia di scrittura, la quale non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (Cass. n. 4523 del 2012).

Il ricorso va in ultima analisi rigettato, le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione, il 13 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2021

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