Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10442 del 27/04/2017


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Cassazione civile, sez. I, 27/04/2017, (ud. 09/01/2017, dep.27/04/2017),  n. 10442

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Angelo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27105/2012 proposto da:

M.R., (c.f. (OMISSIS)), domiciliato in Roma, Piazza Cavour,

presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione,

rappresentato e difeso dall’avvocato G.L.C., giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Deutsche Bank s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Delle Quattro Fontane

n. 161, presso l’avvocato Paolo Quattrocchi che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato Gian Carlo Sessa, giusta procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 338/2012 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 13/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/01/2017 dal cons. ALDO ANGELO DOLMETTA;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato I. BOCCIA, con delega, che

si riporta per l’inammissibilità;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI

Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità, in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- M.R. ricorre per cassazione nei confronti della s.p.a. Deutsche Bank, articolando cinque motivi di ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Trieste, 13 giugno 2012 n. 338, che ha rigettato l’impugnazione che egli aveva proposto contro la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Pordenone, 16 giugno – 4 agosto 2009, n. 723.

2.- La controversia giunta ora all’esame di questa Corte prende avvio da un decreto ingiuntivo pronunciato nel 2005 dal Presidente del Tribunale di Pordenone, dietro ricorso di Deutsche Bank, nei confronti dell’attuale ricorrente. Tale decreto ingiunge, in particolare, il pagamento della somma di Euro 7.052,25 per il saldo del residuo di un debito da M. contratto con la Banca nell’ambito di un’operazione di finanziamento, denominata “(OMISSIS)” e occorsa nell’aprile 2002.

Nel giudizio di opposizione, che fa tempestivo seguito al decreto e che riscontra la costituzione della Banca, l’opponente M. – oltre a sollevare eccezioni preliminari e contestazioni di merito – viene altresì a disconoscere ex art. 214 c.p.c. la sottoscrizione apposta sul modulo recante patti e clausole del detto contratto di finanziamento, assumendo in specie di averlo sottoscritto “in bianco” e che lo stesso era stato poi riempito a sua insaputa. Nel rigettare la presentata opposizione, siccome nel merito infondata, il Tribunale di Pordenone pure rigetta la querela di falso, così proposta, rilevando che M. “non aveva provato l’abusivo riempimento sine pactis od absque pactis del modulo di finanziamento”.

Nel ribadire la sostanza della decisione accolta da detta pronuncia, la Corte triestina – rilevato, tra l’altro, che “l’appellante ha censurato l’intero impianto della sentenza, riproponendo tutte le questioni sollevate in primo grado” – viene in via segnata a confermare il rigetto della querela di falso e a respingere la riproposta eccezione di legittimazione passiva (rispetto all’ingiunzione di cui al decreto).

La Corte territoriale inoltre esclude che nella specie sia sussistito un collegamento negoziale rilevante ai fini dell’applicazione della normativa sul credito al consumo, tra il finanziamento erogato dalla Banca e il rapporto di vendita di un “economizzatore per caldaie” contestualmente intervenuto tra M.R. e l’impresa produttrice Tucker s.p.a.; che il contratto di finanziamento risulti affetto dai vizi di nullità sollevati dall’impugnante; che sia corso un accordo di esclusiva tra la Deutsche e la Tucker, come invece assunto dal detto impugnante.

La stessa altresì rileva che non sono fondati i rilievi svolti da M. in punto di prova del credito erogato dalla Banca e che la richiesta di pagamento dell’intero saldo residuo del debito da finanziamento, avanzata dalla Banca medesima, è da stimare legittima. Da ultimo, la Corte, andando in diverso avviso rispetto alla pronuncia del Tribunale e di Pordenone, ritiene non legittima la segnalazione a sofferenza in Centrale Rischi che era stata posta in essere dalla Deutsche, poichè M. non si trovava in stato di incapienza patrimoniale; nel contempo pure rileva, peraltro, come quest’ultimo non abbia dato prova alcuna che la segnalazione gli abbia arrecato un danno.

3.- Nei confronti del ricorso per cassazione formulato da M. resiste Deutsche Bank, che in proposito ha presentato apposito controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- I motivi di cassazione articolati da M.R. denunziano i vizi qui di seguito riportati.

Il primo motivo di ricorso viene, in particolare, a denunziare “violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1325 – 1346 c.c. in relazione all’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”.

Il secondo motivo lamenta, a sua volta, “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 121 in relazione all’art. 1418 c.c., comma 1, (art. 360 c.p.c., n. 3)”.

Il terzo motivo inoltre censura “violazione e falsa applicazione dell’art. 1423 c.c., nonchè del combinato disposto degli artt. 1325 e 1418 c.c.”.

Il quarto motivo rappresenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 634 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”.

Il quinto motivo denuncia infine “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.: il danno in re ipsa nell’illegittima segnalazione alla Centrale Rischi (art. 360 c.p.c., n. 3)”.

2.1.- La lettura delle pagine – che il ricorso dedica all’esposizione del primo motivo – indica che questo si rivolge contro la statuizione della Corte di Appello che ha respinto, in conformità alla decisione del giudice di primo grado, la querela di falso proposta dall’attuale ricorrente per non autorizzato, e perciò abusivo, riempimento del modulo del “(OMISSIS)” sottoscritto.

Nella prospettazione delineata del ricorrente, questo primo motivo risulta basato, essenzialmente, su due ordini di censure (in sè alternative, pur se presentate, a quanto pare di intendere, in termini anche di loro cumulo). La prima è che la Corte di Appello, accodandosi a quanto riscontrato dal giudice di primo grado, ha statuito sul punto “senza esaminare ovvero senza tenere in benchè minima considerazione le risultanze testimoniali”. La seconda è che l'”onere probatorio circa l’esistenza di patti di riempimento e del loro eventuale contenuto grava sulla parte che ne asserisce l’esistenza (nella specie Deutsche Bank s.p.a.), ma tale onere non è stato benchè minimamente assolto”.

Questo motivo è inammissibile e pure infondato.

2.2.- In proposito, va rilevato che – per quanto intestato nell’art. 360 c.p.c., n. 3 – il motivo in realtà si articola e sostanzia, con segnato riferimento alla sua prima censura, in una richiesta di riesame del merito della fattispecie; più precisamente, in una richiesta di nuova valutazione del materiale probatorio, che è stato sottoposto all’esame del giudice del merito.

Si deve quindi ricordare che, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, la violazione e falsa applicazione dei detti artt. 115 e 116, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, è apprezzabile – in sede di ricorso per cassazione – nei soli limiti del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 Cfr., da ultimo, la sentenza di Cass., 30 novembre 2016, n. 24434.

Per altro verso, è pure principio acquisito quello per cui una “questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione” (così l’ordinanza resa ora da Cass., 27 dicembre 2016, 27000).

A parte questo, la valutazione compiuta dalla Corte triestina, se non manca di considerare anche le risultanze delle testimonianze assunte (che giudica “contrastate, contraddittorie e non puntuali”), viene a snodarsi su un orizzonte più vasto di queste, tenendo conto pure delle produzioni documentali che sono avvenute, nonchè del comportamento in concreto tenuto dal ricorrente M..

2.3.- Si deve pure tenere conto, d’altra parte – e così volgendosi all’esame immediatamente inerente alla seconda censura articolata dal motivo in esame -, che il punto relativo al patto di riempimento nella specie viene a seguire quello dell’esistenza di un biancosegno del modulo del “(OMISSIS)”, secondo un’allegazione proveniente propriamente dall’attuale ricorrente. Ogni riferimento all’onere della prova di sussistenti patti di riempimento va di necessità calato, pertanto, in un contesto di riferimento che tenga debito conto delle dette circostanze.

Col che appare pure chiaro che la distribuzione dell’onere della prova complessivamente relativa alla materia del biancosegno si avvia lungo la linea dell’eventuale esistenza in quanto tale di un biancosegno; per poi procedere, nel caso occorrente, alla ricerca della positiva individuazione della concreta portata del biancosegno medesimo. Solo successivamente potendosi porre, in ipotesi, un problema inerente all’esistenza di patti di riempimento e alla relativa distribuzione probatoria.

Nè può essere dubbio che, in relazione ai due punti per primi appena sopra richiamati, l’onere della prova vada in definitiva a ricadere su chi del biancosegno intende nel concreto avvalersi; e dunque, nella specie, sull’attuale ricorrente.

Ora, in proposito la sentenza del Tribunale di Pordenone ha rilevato, con apprezzamento non sindacabile nella presente sede, che nella specie il documento contrattuale risultava “completo nei suoi elementi essenziali”. A sua volta la Corte triestina, nel far sua la trascritta valutazione, ha pure puntualizzato, tra le altre cose, che M.R. “aveva prodotto il modulo debitamente compilato (con irrilevanti differenze)”. Non risulta, d’altra parte, che il ricorrente abbia portato prove o sviluppato argomenti intesi a superare, o anche solo a ostacolare, i detti riscontri.

3.- Il secondo motivo, che per la verità non si presta a una agevole lettura, sembra nel complesso inteso a censurare l’affermazione della Corte triestina per cui “dall’esame del contratto di finanziamento emerge che non solo le parti non hanno inteso instaurare un nesso teleologico tra i due contratti” – e cioè tra lo stesso finanziamento, come intercorso tra Deutsche e M., e la vendita dell’economizzatore di caldaia, intervenuta tra la produttrice Tucker e il finanziato M. – “ma, anzi, lo hanno voluto testualmente escludere”.

Secondo il ricorrente, per contro, il “finanziamento che ci occupa… si configura come specie di contratti di credito aventi causa di finanziamento per l’acquisto di beni o prestazioni di servizi di consumo… Tale collegamento negoziale è stabilito e consacrato dal legislatore (l’art. 121 T.U.B. prevede, infatti, espressamente, quale elemento caratterizzante lo scopo di finanziamento il suo impiego per l’acquisto di un bene/servizio finalizzato al consumo) e non già dai contraenti di volta in volta. Si tratta quindi di mutuo di scopo legale”. Tutto questo per concludere che “l’assenza del collegamento negoziale tipico del prestito al consumo comporta ineluttabilmente la nullità del contratto di finanziamento”.

Il motivo è inammissibile, prima di ogni altra cosa, perchè non risulta rispettoso dei requisiti prescritti dalla norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Lo stesso, in effetti, non indica quale sarebbe la norma positivamente intesa a comminare l’evocata nullità; nè comunque indica la ragione per cui l'”assenza di un collegamento negoziale tipico” comporterebbe violazione di norma imperativa, a sua volta protetta dalla sanzione della nullità negoziale.

Ciò posto, in proposito non sembra inopportuno aggiungere, altresì, che la motivazione – svolta in proposito dalla Corte di Appello e ora criticata dal ricorrente – ha in realtà fatto riferimento alla norma dell’art. 125, comma 4 testo unico bancario, nella versione vigente all’epoca dei fatti (2002): per sottolineare, in modo particolare, come nella fattispecie concretamente esaminata non fossero presenti i presupposti richiesti per l’applicazione della norma medesima; e, in specie, per escludere la ricorrenza di un rapporto di esclusiva tra finanziatore (Deutsche Bank) e fornitore dei beni o servizi (Tucker).

Nel sottolineare come l’eventuale applicazione di tale norma sia ben lungi dal produrre un risultato di nullità negoziale, va pure riscontrato come il motivo, che è stato svolto dal ricorrente, non introduca nessun elemento inteso a superare il riscontro nel concreto effettuato dalla Corte del merito.

4.- Il terzo motivo di ricorso presenta una struttura articolata.

Nella prima parte del suo svolgimento, lo stesso riprende sostanzialmente il tema del biancosegno. E così rileva che – anche ai sensi della normativa del testo unico bancario – il “requisito della forma scritta del contratto può ritenersi soddisfatto solo ove tutti gli elementi essenziali dell’accordo sono contenuti nel documento contrattuale scritto”: e tanto non è avvenuto – afferma il ricorso nel caso concretamente in esame, in ragione appunto del biancosegno del modulo relativo al “(OMISSIS)”. Da ciò la rilevazione del vizio della sentenza impugnata, che tale nullità non ha per l’appunto dichiarato.

La seconda parte del motivo si sostanzia nel rilevare che il contratto nullo non è convalidabile e che neppure l’esecuzione parziale del contratto nullo è fatto idoneo a sanare il relativo vizio, come per contro si afferma avrebbe ritenuto la Corte di Appello.

Anche questo motivo va respinto, perchè infondato in entrambe le parti di cui viene a comporsi.

La prima parte del motivo viene ad assumere come punto acquisito, e oramai pacifico in causa, che il modulo del “(OMISSIS)” fosse compiutamente in bianco al momento della sottoscrizione di M., o comunque che fosse privo delle indicazioni richieste dalla legge a pena di nullità. Peraltro, non si ravvisa – nella sentenza resa dal Tribunale di Pordenone ovvero in quella emessa dalla Corte di Trieste – nessun accertamento di un simile genere.

Come si è già sopra riscontrato (nell’esame del primo motivo di ricorso), la pronuncia del Tribunale di Pordenone ha piuttosto rilevato che, in realtà, il documento contrattuale risultava “completo nei suoi elementi essenziali”. E la Corte triestina ha fatto propria, senza riserve di sorta, tale valutazione.

Ne deriva che, in questa sua parte, il motivo in esame si rivela mancante proprio della base oggettiva su cui potersi venire a svolgere. In effetti, lo stesso si radica propriamente nel predicare che la Corte territoriale abbia escluso – così compiendo violazione e falsa applicazione di norme di legge – che nei confronti del contratto di “(OMISSIS)” trovino applicazione le formalità prescritte dall’art. 1325 c.c. e art. 117 TUB (norma, quest’ultima, richiamata nel corpo dell’esposizione del motivo).

La seconda parte del motivo in esame, poi, cade in un evidente fraintendimento interpretativo della sentenza impugnata. La Corte triestina non ha per nulla ritenuto quanto le rimprovera il ricorso: e cioè che l’esecuzione parziale del contratto – il pagamento spontaneo di talune rate, in particolare – comporti sanatoria e convalida di un contratto altrimenti nullo. Essa si è limitata a osservare che la spontaneità di questi pagamenti deponeva in modo assai forte contro l’ipotesi di un abusivo riempimento del biancosegno (quale che ne fosse, poi, l’eventuale oggetto).

5.- Il quarto motivo gravità sulla prova dell’avvenuta erogazione delle somme di cui al finanziamento in questione. Così assume il motivo: “la documentazione prodotta da Deutsche Bank s.p.a. nella fase monitoria ed in quella del giudizio di merito – richiamata dalla sentenza oggetto della presente impugnazione – non è idonea a comprovare l’asserito credito azionato in via monitoria”.

Più nel concreto, il motivo contesta, da un lato, l’utilizzabilità probatoria dell’estratto conto ex art. 50 testo unico bancario fuori dall’ambito del procedimento monitorio; dall’altro, l’effettiva forza probatoria degli ulteriori elementi addotti dalla Corte triestina per ritenere provata l’erogazione del credito (bonifico bancario; fattura relativa al bene compravenduto; piano di ammortamento; comportamento tenuto da M. nell’ambito del procedimento di primo grado).

Il motivo si manifesta inammissibile e pure infondato.

La lettura della sentenza fa subito emergere, infatti, che la decisione della Corte in proposito si basa su due distinti ordini di prove, ciascuno dei quali viene ritenuto in sè idoneo e sufficiente a mostrare l’esistenza e la misura del credito vantato dalla Banca. L’inutilizzabilità probatoria extramonitoria dell’estratto conto ex art. 50 TUB non vale dunque a inficiare la correttezza della soluzione adottata dalla Corte.

Quanto all’altro ordine di elementi di prova, sembra sufficiente rinviare a quanto rilevato già sopra in ordine al primo motivo di ricorso, con riferimento alla censura che ne compone la prima parte (cfr., in via segnata, il n. 2.2.). Anche qui, del resto, la valutazione compiuta al riguardo dalla Corte triestina risulta senz’altro ragionevole e del tutto plausibile.

6.- L’ultimo motivo di ricorso censura la pronuncia della Corte di Appello, là dove la stessa – riscontrata la illegittimità della segnalazione a sofferenza in Centrale Rischi disposta dalla Deutsche contro M. – non ha tuttavia riconosciuto alcun risarcimento a favore di quest’ultimo per lesione della reputazione personale e commerciale.

Ad avviso del ricorrente, più in particolare, “al riguardo la giurisprudenza di legittimità e di merito è costantemente orientata nel riconoscere un danno in re ipsa e che legittima pertanto il diritto al risarcimento senza che incomba sul danneggiato l’onere di fornire la prova dell’esistenza del danno”, potendosi comunque ricorrere a una liquidazione di ordine equitativo.

Il motivo si manifesta inammissibile.

E’ consolidato orientamento di questa Corte che l’esercizio del potere del giudice di procedere a una liquidazione equitativa del danno esprime il frutto di un giudizio di fatto, non sindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato (cfr. Cass., 15 marzo 2016, n. 5090; Cass., 14 ottobre 2013, n. 23233; Cass., 9 settembre 2008, n. 22911; Cass., 31 luglio 2006, n. 17303).

Così com’è avvenuto nel caso in esame, avendo la Corte del merito rilevato, prima di tutto, che solo in grado di appello M. ha lamentato lesione all’immagine e alla reputazione personale; e che, in ogni caso, non era stata portata alcuna prova, neppure di tipo indiziario, a supporto di un’ipotetica ricorrenza di un simile, specifico danno.

7.- In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna M.R. al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.200,00 (di cui Euro 200 per esborsi), oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 9 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2017

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