Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10439 del 21/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 21/04/2021, (ud. 26/10/2020, dep. 21/04/2021), n.10439

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 7540/2012 R.G. proposto da:

G.A. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Simonetta Caputo, con

domicilio eletto presso il suo studio, sito in Roma, via Pietro

Giannone, 27;

– ricorrente, intimato in via incidentale –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

– controricorrente, controricorrente in via incidentale –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, n. 24/33/11, depositata il 9 febbraio 2012.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 ottobre 2020

dal Consigliere Paolo Catallozzi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale De Augustinis Umberto, che ha concluso chiedendo il rigetto

del ricorso principale e di quello incidentale;

udito gli avv. Simonetta Caputo, per la ricorrente, e Alfonso Peluso,

per la controricorrente.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La G.A. s.p.a. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 9 febbraio 2012, che, in parziale accoglimento dell’appello erariale, ha dichiarato legittimo l’avviso di accertamento impugnato limitatamente alle riprese nn. 3 e 4, confermando, per il resto, l’annullamento dell’atto.

2. Dall’esame della sentenza impugnata si evince che con tale atto impositivo l’Ufficio aveva rettificato la dichiarazione resa dalla società ai fini i.r.pe.g., i.r.a.p. e i.v.a. per l’anno 2003, recuperate le imposte non versate e irrogate le relative sanzioni.

2.1. Il giudice di appello, dopo aver dato atto che la Commissione provinciale aveva accolto il ricorso, ha parzialmente accolto il gravame erariale, ritenendo legittime le riprese concernenti l’indeducibilità della perdita dedotta, per carenza dei requisiti di certezza, previsione e determinabilità, e l’indebita detrazione dell’I.v.a. relativa a note di addebito ricevute con riferimento a premi di fine anno (rispettivamente, riprese nn. 3 e 4), mentre ha confermato l’illegittimità dell’atto in ordine alle riprese concernenti la deducibilità delle spese di pubblicità e delle spese per noleggio di autovetture (rispettivamente, riprese nn. 1 e 2).

3. Il ricorso è affidato a due motivi.

4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate, la quale spiega ricorso incidentale affidandolo a due motivi.

5. In relazione a tale ricorso incidentale la società non svolge alcuna attività difensiva.

6. La ricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

7. Con ordinanza resa all’esito dell’adunanza del 12 novembre 2019 la causa è stata rimessa alla pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la contribuente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per aver omesso di dichiarare l’inammissibilità dell’appello erariale per difetto di specificità dei motivi.

Evidenzia, in proposito, che con il gravame interposto l’Amministrazione finanziaria si era limitata, quanto alla parte della sentenza della Commissione provinciale relativa alla ripresa n. 1, a contestare e a non condividere la decisione e, quanto alle riprese residue, a riproporre quanto esposto nelle controdeduzioni in primo grado a sostegno della legittimità dell’atto impugnato.

1.1. Il motivo è infondato.

Nel processo tributario la riproposizione da parte dell’Amministrazione finanziaria, a supporto dell’appello, delle ragioni inizialmente poste a fondamento della dedotta legittimità dell’accertamento – al pari della la riproposizione da parte del contribuente, a supporto del gravame, delle ragioni inizialmente poste a fondamento dell’impugnazione del provvedimento impositivo – in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, quando il dissenso investa la decisione nella sua interezza e, comunque, ove dall’atto di gravame, interpretato nel suo complesso, le ragioni di censura siano ricavabili, seppur per implicito, in termini inequivoci (cfr. Cass. 20 dicembre 2018, n. 32954).

Nel caso in esame, la stessa pronuncia impugnata dà atto, nella parte narrativa, delle specifiche ragioni poste a fondamento del gravame interposto, che si pongono in diretto ed oggettivo contrasto con le motivazioni poste a fondamento della decisione di primo grado e permettono una chiara ed univoca individuazione – sia pure in via implicita – delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze.

Per tali ragioni, dunque, la sentenza impugnata si sottrae alla censura prospettata.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 19 e 21, per aver il giudice di appello, con riferimento alla ripresà n. 4, escluso il diritto alla detrazione dell’I.v.a. esposta in note di addebito ricevute, relative a premi di fine anno, nella misura ivi indicata del 20%, anzichè in quella ridotta applicabile del 4%.

Sostiene, sul punto, che è irrilevante, ai fini della detrazione dell’I.v.a. assolta, l’errore commesso dal cedente in ordine all’individuazione della misura dell’imposta richiesta.

2.1. Il motivo è infondato.

Deve evidenziarsi, quanto al controverso tema della detraibilità dell’I.v.a. di rivalsa applicata in misura maggiore rispetto a quella dovuta ed erroneamente assolta, in tale misura, dal cessionario o committente, che secondo un tradizionale orientamento, la detrazione dell’imposta pagata “a monte” per l’acquisto di beni o per conseguire la prestazione di servizi necessari all’impresa, non era ammessa in ogni caso, in quanto si riteneva che, ai fini della detrazione, era necessario che tali operazioni, oltre ad attenere all’oggetto dell’impresa e ad essere fatturate, siano effettivamente assoggettabili all’IVA nella misura dovuta.

Conseguentemente, ove l’operazione fosse stata erroneamente assoggettata all’I.v.a., per la misura non dovuta sarebbero restati privi di fondamento non solo il pagamento dell’imposta da parte del cedente (che perciò aveva diritto di chiedere all’Amministrazione il rimborso di quanto versato in eccesso) e la rivalsa effettuata dal cedente nei confronti del cessionario (che poteva quindi chiedere al cedente la restituzione dell’I.v.a. in via di rivalsa, nella parte erroneamente versata), ma anche la detrazione operata dal cessionario nella sua dichiarazione i.v.a. con conseguente potere-dovere dell’Amministrazione di escludere la detrazione dell’imposta così pagata in rivalsa (cfr. Cas., ord., 13 giugno 2018, n. 15536; Cass. 15 maggio 2015, n. 9946; Cass., ord., 2 luglio 2014, n. 15178).

Pertanto, il cessionario, per non rimanerne inciso, avrebbe dovuto chiedere la restituzione dell’imposta, nella parte erroneamente versata, al cedente (o prestatore), il quale, a sua volta, avrebbe potuto recuperarla chiedendola in rimborso all’Erario.

Un siffatto orientamento – ribadito da ultimo dalle sentenze nn. 14179 del 24 maggio 2019 e 24001 del 3 ottobre 2018 – trovava conferma nella giurisprudenza unionale la quale riteneva che l’esercizio del diritto di detrazione era circoscritto alle imposte corrispondenti ad un’operazione soggetta all’I.v.a. e versate in quanto dovute.

Una diversa conclusione, si sosteneva, avrebbe esposto l’Amministrazione finanziaria al rischio di perdita di gettito fiscale, in relazione alla possibilità che il cedente – emittente la fattura recante l’aliquota dell’I.v.a. errata – chiedesse fondatamente il rimborso dell’I.v.a. versata in eccesso.

Risultava, dunque, superata la tesi giurisprudenziale, precedentemente affermatasi, secondo cui l’I.v.a. addebitata in rivalsa avrebbe potuto essere detratta dal cessionario, senza che influisse la non assoggettabilità all’imposta dell’operazione o gli errori commessi dal cedente nell’addebito della stessa (cfr., in tal senso, Cass. 25 maggio 2001, n. 7152; Cass. 18 febbraio 1999, n. 1348; Cass. 23 giugno 1002, n. 7689).

2.2. L’attuale quadro normativo è stato investito da due recenti interventi legislativi.

Con il primo, rappresentato dalla L. 20 novembre 2017, n. 167, è stato introdotto (con l’art. 8, comma 1) del D.P.R. n. 633 del 1972, l’art. 30-ter, il quale ha regolato le ipotesi e le condizioni alle quali il cedente può ottenere dall’Erario la restituzione dell’imposta versata in misura eccedente rispetto a quella dovuta.

Tale art. 30-ter, nel prevedere, al comma 1, una disciplina di carattere generale – modellata sulla falsariga della fattispecie di restituzione di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, comma 2, – del cd. rimborso anomalo in tema di i.v.a., ossia di tutti quei rimborsi di imposta diversi da quello ordinario e fisiologico previsti dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30 costituito dall’eccedenza dell’imposta detraibile rispetto a quella versata, disciplina specificamente, al secondo e comma 3, l’ipotesi – rilevante nel caso in esame – di applicazione dell’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, disponendo, rispettivamente, che, laddove l’Amministrazione finanziaria accerti in via definitiva la non debenza dell’I.v.a. versata, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa e che è escluso il diritto al rimborso se il versamento è avvenuto nel contesto di una frode.

Con il secondo, rappresentato dalla L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 935, il legislatore è intervenuto, invece, a disciplinare il rapporto tra cessionario (o prestatore) e Amministrazione finanziaria, aggiungendo due periodi al comma 6, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 6 il quale assoggetta colui che computa illegittimamente in detrazione l’imposta assolta, dovuta o addebitatagli in via di rivalsa, alla sanzione amministrativa pari al novanta per cento dell’ammontare della detrazione compiuta.

La nuova disposizione prevede che in caso di applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 ss. quest’ultimo è punito con la sanzione amministrativa compresa fra 250 Euro e 10.000 Euro, in luogo della predetta sanzione pari al novanta per cento dell’ammontare della detrazione indebitamente compiuta.

Esclude, poi, la restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale.

2.3. In ordine all’efficacia – retroattiva o meno – della nuova norma di legge – originariamente esclusa da questa Corte con le richiamate pronunce nn. 14179 del 24 maggio 2019 e 24001 del 3 ottobre 2018 – è di recente intervenuto il legislatore con il D.L. 30 aprile 2019, n. 34, art. 6, comma 3-bis, conv., con modlif., nella L. 28 giugno 2019, n. 58, il quale ha aggiunto al menzionato L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 935, il seguente periodo: “Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai casi verificatisi prima dell’entrata in vigore della presente legge”.

2.4. In merito all’interpretazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 6, nella versione attualmente vigente – retroattivamente applicabile in considerazione della interpretazione autentica fornita dal legislatore – si rileva che si è formato un orientamento secondo il quale tale disposizione – oltre ad incidere sul regime sanzionatorio prevedendo un trattamento più mite della violazione tributaria riconoscerebbe il diritto di detrazione del cessionario dell’I.v.a. ad esso indebitamente applicata dal cedente, fatta salva l’ipotesi in cui tale condotta si inserisce in un contesto di frode fiscale, nel caso in cui sia stata versata poi dal cedente o dal prestatore all’erario.

Un siffatto orientamento – che ha ricevuto seguito in una recente pronuncia di questa Sezione (ord. 28 ottobre 2020, n. 23817) sembrerebbe trovare riscontro sia nel dato letterale della norma, nella parte in cui espressamente riconosce che in caso di applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, resta “fermo” il diritto del cessionario o committente alla detrazione dell’I.v.a., sia nel dato logico-sistematico secondo cui l’approvazione della disposizione legislativa di interpretazione autentica, che ha sancito la retroattività della norma medesima, non avrebbe senso se quest’ultima fosse intesa esclusivamente in chiave sanzionatoria (e non anche sostanziale), atteso che il regime sanzionatorio più mite avrebbe comunque trovato applicazione in virtù dell’operatività del principio del favor rei.

La riferita opzione ermeneutica risponderebbe apparentemente anche ad esigenze di economicità ed efficienza dell’economia e semplificazione degli adempimenti dei contribuenti, atteso che, da un lato, il riconoscimento del diritto di detrazione in capo al cessionario non comporterebbe alcun danno per l’Erario, in quanto espressamente subordinato al versamento dell’imposta da parte del cedente (o prestatore) e, dall’altro, consentirebbe al contribuente di recuperare l’importo erroneamente versato in eccesso in modo più rapido ed efficace rispetto alla richiesta di restituzione al cedente.

2.5. Tale tesi interpretativa, tuttavia, si pone in contrasto con la Sesta direttiva 77/388/CEE (nonchè con la successiva direttiva 2006/112/CE), così come costantemente interpretata dalla Corte di Giustizia, secondo cui, benchè il diritto a detrazione dell’I.v.a. costituisce parte integrante del meccanismo dell’imposta, il suo esercizio è limitato alle sole imposte dovute e non può essere esteso all’I.v.a. indebitamente versata a monte, per cui non si estende all’imposta dovuta esclusivamente in quanto esposta sulla fattura (cfr., da ultimo, Corte Giust., 10 luglio 2019, Kursu Zeme; Corte Giust., 21 febbraio 2018, Kreuzmayr; Corte Giust., 14 giugno 2017, Compass Contract Services; Corte Giust., 26 aprile 2017, Farkas).

Non può, poi, utilmente invocarsi da parte dell’operatore, ai fini dell’esercizio del diritto di detrazione, il proprio legittimo affidamento, in relazione agli elementi figuranti sulla fattura fornita dal suo fornitore, avuto riguardo, da un lato, a fatto che tale affidamento riceve tutela nei limiti in cui è stato ingenerato da un’autorità amministrativa (cfr., sul punto, oltre alla menzionata Corte Giust., Kreuzmayr, Corte Giust., 9 luglio 2015, Salomie e Oltean).

Pertanto, per recuperare l’imposta di rivalsa indebitamente versata siffatto operatore dovrà avanzare richiesta di restituzione all’operatore che ha emesso una fattura erronea, conformemente al diritto nazionale (cfr., in particolare, le richiamate sentenze della Corte di Giustizia Kreuzmayr e Farkas).

Sotto altro profilo, non appare possibile, al fine di legittimare la detrazione in via ordinaria dell’I.v.a. non dovuta da parte del cessionario, invocare il principio per cui l’Erario è il creditore di ultima istanza anche del cessionario, atteso che tale principio opera solo ed esclusivamente nell’ipotesi – non dedotta nel caso in esame – in cui il cedente sia insolvente o, comunque, il recupero dell’imposta da parte del cessionario nei confronti del cedente sia particolarmente difficoltoso, se non impossibile (cfr. Corte Giust., 11 aprile 2019, PORR Epitesi Kft.; Corte Giust., 31 maggio 2018, Kollrof3; Corte Giust., 15 marzo 2007, Reemtsma Cigarettenfabriken; da ultimo, tra la giurisprudenza nazionale, cfr. Cass. 3 dicembre 2020, n. 27649).

Orbene, nell’applicare il diritto interno, il giudice nazionale è tenuto ad interpretare quest’ultimo in tutta la misura del possibile alla luce del testo e della finalità della direttiva i..v.a. al fine di raggiungere il risultato da questa perseguito e, dunque, di conformarsi all’art. 288, comma 3, TFUE, in quanto l’obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale è inerente al sistema del TFUE, consentendo al giudice nazionale di assicurare, nel quadro delle sue competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione, allorchè esso risolve le controversie portate alla sua cognizione (cfr., con riferimento alla direttiva i.v.a., Corte Giust., 11 giugno 2020, SCT; Corte Giust. 6 luglio 2017, Glencore Agriculture Hungary).

L’interpretazione conforme al diritto unionale conduce, dunque, ad accedere alla tesi per cui la riforma del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6 vada intesa nel senso che si sia limitata a modificare, rendendolo più mite, il regime sanzionatorio applicabile ai casi di indebita detrazione dell’I.v.a., in quanto operata per un importo superiore rispetto a quella dovuta in relazione all’operazione posta in essere, benchè coincidente con quella indicata in fattura.

In tale ottica, l’inciso ivi contenuto “fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione ai sensi degli artt. 19 e seguenti…” va considerato quale riconoscimento del diritto alla detrazione dell’I.v.a. nei limiti di quanto dovuto ai sensi delle disposizioni richiamate, che, per le ragioni suindicate, non consentono di poter detrarre l’imposta versata nel suo intero ammontare, laddove non dovuta per intero o in parte, e, dunque, nei limiti dell’imposta effettivamente dovuta in ragione della natura delle caratteristiche dell’operazione posta in essere.

Per tali ragioni, dunque, la decisione della Commissione regionale che ha ritenuto esercitabile il diritto di detrazione della contribuente in ordine alle operazioni di cui alla ripresa n. 4 solo nei limiti dell’I.v.a. dovuta (pari al 4%) e non anche per l’interezza dell’importo versato al cedente e indicato nelle relative fatture (pari al 20%) si sottrae alla censura formulata.

3. Con il primo motivo del ricorso incidentale l’Agenzia si duole della violazione del Testo Unico 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, nella formulazione pro tempore vigente, per aver la sentenza impugnata riconosciuto l’inerenza – e, dunque, la deducibilità – delle spese pubblicitarie asseritamente sostenute in territorio statunitense (oggetto della ripresa n. 1).

Allega, sul punto, che l’accordo commerciale intervenuto con la D.C.I. Cheese Co. aveva ad oggetto lo sfruttamento del marchio e non anche l’effettuazione di campagne pubblicitarie.

4. Con il secondo motivo del ricorso incidentale censura la sentenza di appello, in ordine alla medesima ripresa, per violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione al mancato assolvimento da parte della contribuente dell’onere della prova dell’inerenza del costo.

4.1. I motivi, esaminabili congiuntamente, sono inammissibili, in quanto si risolvono in una contestazione della valutazione delle risultanze probatorie operata dal giudice di appello, il quale ha ritenuto che i costi in oggetto si riferissero a spese per la promozione del prodotto della società contribuente e, implicitamente, ha considerato che fosse stato assolto il relativo onere della prova gravante sul contribuente.

Una siffatta censura non può trovare ingresso in questa sede in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale e non può riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa (cfr. Cass. 28 novembre 2014, n. 25332; Cass., ord., 22 settembre 2014, n. 19959).

5. Per le suesposte considerazioni, non possono essere accolti nè il ricorso principale, nè quello incidentale.

6. In considerazione della reciproca soccombenza le spese del giudizio di legittimità vanno integralmente compensate tra le parti.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 26 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2021

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA