Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10431 del 12/05/2011

Cassazione civile sez. trib., 12/05/2011, (ud. 24/03/2011, dep. 12/05/2011), n.10431

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere –

Dott. TIRELLI Francesco – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13588-2006 proposto da:

AMUCHINA SPA in persona del Presidente del Consiglio di

Amministrazione e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio

dell’avvocato MANZI LUIGI, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GLENDI CESARE FEDERICO, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 57/2004 della COMM. TRIB. REG. di GENOVA,

depositata il 09/03/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/03/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO;

udito per il ricorrente l’Avvocato COGLITORE, per delega Avvocato

MANZI, che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato URBANI NERI, che si riporta;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE Umberto che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del

ricorso, assorbiti altri motivi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Gli atti del giudizio di legittimità.

Il 22.4.2006 è stato notificato al Ministro delle Finanze e all’Agenzia delle Entrate un ricorso della “Amuchina spa” per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata il 9.3.2005), che – decidendo in sede di rinvio – ha accolto il ricorso della anzi detta società volto ad ottenere il rimborso della differenza di IVA versata nel corso del 1987, ma limitatamente alle liquidazioni dei mesi da ottobre a dicembre del 1987, previo accertamento della decadenza dal diritto al rimborso per ciò che concerne i mesi antecedenti.

L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 24.3.2011, in cui il PG ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso, con f assorbimento degli altri.

2. I fatti di causa.

Con istanze in data 7 e 8 novembre 1985 (ma l’errore materiale contenuto nel ricorso introduttivo di questo grado deve essere corretto, trattandosi dell’anno 1989) la Amuchina spa ha richiesto il rimborso dell’IVA equivalente alla differenza tra l’ammontare dell’aliquota ordinaria (alla cui applicazione era stata costretta per il diniego dell’Amministrazione a consentire diversa applicazione) e di quella agevolata sulle vendite del prodotto disinfettante denominato “Amuchina”. Sul maturato silenzio-rifiuto, la società aveva interposto opposizione alla Commissione di primo grado di Genova che aveva accolto integralmente il ricorso con sentenza avverso la quale aveva proposto appello l’Amministrazione.

Nelle more si era resa vigente la nuova disciplina del rito tributario e la CTR di Genova aveva poi accolto l’appello, sulla premessa che l’istanza di rimborso non fosse conforme alla disciplina del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26. Proposto ricorso per cassazione da parte della Amuchina spa, questa Corte lo accoglieva con la sentenza n. 10857 del 2001, cassando la sentenza della CTR di Genova e rinviando ad altra sezione della medesima CTR. sulla premessa che la Amuchina spa aveva il diritto di avvalersi del rimedio di carattere generale previsto dal D.P.R. n. 636 del 1972, art. 16 ai fini della ripetizione del maggiore importo versato.

Riassunta la causa avanti alla CTR di Genova a cura di Amuchina spa per ottenere l’accoglimento totale del ricorso proposto avverso il silenzio rifiuto, la Agenzia si era costituita nel giudizio dichiarando “di voler desistere dalla controversia” – atteso il tenore della pronuncia della Corte di Cassazione – e chiedendo la pronuncia di cessazione della materia del contendere. Solo con memoria illustrativa depositata in giudizio due anni dopo la costituzione, la medesima Agenzia aveva modificato l’impostazione difensiva ed aveva eccepito l’intervenuta decadenza dal diritto al rimborso per il periodo relativo ai mesi dal gennaio al settembre del 1987. All’esito di detto giudizio di rinvio, la CTR di Genova ha accolto il ricorso della Amuchina spa limitatamente all’ammontare delle liquidazioni dei mesi da ottobre a dicembre del 1987.

dichiarando la decadenza della società medesima per i rimborsi relativi ai mesi antecedenti.

3. fa motivazione della sentenza impugnata.

Con la sentenza qui oggetto di ricorso per cassazione, la CTR di Genova – dopo avere dato atto che la sentenza n. 46/1997 della medesima CTR, nella parte che non era stata fatta oggetto di ricorso per cassazione, aveva già astrattamente riconosciuto che al prodotto “Amuchina” dovesse applicarsi l’aliquota ridotta (peraltro in conformità ad un precedente risolto tra le medesime parti dalla sentenza n. 7026/1994 di questa Corte), salvo avere poi ritenuto improponibile il ricorso per violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26 – dichiarava di non avere ragioni per dissentire dalle anzidette pronunce in ordine al diritto all’applicazione dell’IVA agevolata e – sul punto – dichiarava “infondato l’appello dell’Ufficio”. Sulla questione concernente il maturato termine di decadenza per il rimborso dell’IVA afferente i mesi di cui si è detto, la pronuncia qui impugnata evidenziava preliminarmente di non poter dare atto dell’eccepita cessazione della materia del contendere, poichè a questi fini non sarebbe stata sufficiente la semplice dichiarazione unilaterale resa dall’Agenzia all’atto della costituzione nella sede del giudizio di rinvio, e conseguentemente evidenziava di dover rilevare ex officio la questione medesima (sulla quale sarebbe stata comunque tempestiva l’eccezione di parte pubblica), sicchè poi pronunciava l’intervenuta decadenza nei termini di cui si è detto, sulla premessa che all’istanza proposta dalla Amuchina spa dovesse comunque applicarsi la disciplina del D.P.R. n. 636 del 1972, art. 16 e perciò il termine biennale ivi previsto, decorrente dalla data del pagamento ovvero dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione.

4. Il ricorso per cassazione.

Il ricorso per cassazione è sostenuto con tre motivi d’impugnazione e si conclude previa indicazione del valore della lite nell’intervallo tra Euro 260.000,00 ed Euro 520.000,00 – con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni consequenziale statuizione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Il primo motivo d’impugnazione.

Il primo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 100, 306, 324, 329 e 338 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, art. 11, comma 2, artt. 44, 46, 49 e 61 nonchè della L. n. 212 del 2000, art. 10. Denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1”.

I ricorrenti si dolgono del fatto che il giudice del rinvio abbia ritenuto non rilevante la dichiarazione di desistenza dalla controversia (con conseguente richiesta di dichiarazione della cessazione della materia del contendere) fatta dall’Agenzia all’atto della sua costituzione in giudizio per quanto – trattandosi, in grado di rinvio, dell’appello proposto dall’Ufficio contro la decisione della Commissione di primo grado che aveva condannato all’integrale rimborso dell’imposta – la dichiarazione in questione avrebbe dovuto interpretarsi come acquiescenza rispetto al contenuto di tale decisione e come vera e propria rinuncia all’impugnazione contro di essa.

In diversa ipotesi e sul piano sostanziale, la predetta dichiarazione avrebbe dovuto interpretarsi come rinuncia al potere diniego del rimborso a fronte dell’istanza appositamente proposta.

In ogni caso il giudice del rinvio avrebbe dovuto dichiarare la cessazione della materia del contendere per il sopravvenuto difetto di interesse al processo in capo all’agenzia, cui avrebbe fatto seguito l’inevitabile passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, ovvero ancora la preclusione alla dichiarazione della decadenza determinata dall’intervenuto giudicato conseguente all’acquiescenza manifestata dalla parte pubblica con la dichiarazione di desistenza resa in giudizio.

La censura è infondata e deve essere disattesa.

L’erroneo presupposto logico dal quale muove la parte qui ricorrente deriva dalla negligenza del disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 63 – in tutto conforme alla disciplina dettata per il processo civile dall’art. 393 c.p.c. – in virtù del quale è pacifico sia in dottrina che in giurisprudenza almeno per l’ipotesi di rinvio “prosecutorio”. quale è sicuramente quello di cui qui si tratta, siccome disposto dopo l’accoglimento di ricorso proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 – che la sentenza di primo grado riformata dalla pronuncia di appello non rivive per effetto della cassazione di quest’ultima, con eccezione delle parti delle pronunce non oggetto di impugnazione e quindi coperte dal giudicato.

Sul punto basterà menzionare uno dei precedenti di questa Corte, e cioè Cass. Sez. 2 Sentenza n. 5901 del 18/06/1994: “Il giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della sentenza di secondo grado per motivi di merito (cosiddetto giudizio di rinvio proprio) non costituisce la prosecuzione della pregressa fase di merito che ha preceduto il giudizio di cassazione, ma una nuova ed autonoma fase del processo che. pur essendo soggetta per ragioni di rito alle norme riguardanti il corrispondente procedimento disposto dalla sentenza rescindente, ha natura integralmente rescissoria, nel senso che esso mira ad una sentenza che, senza sostituirsi ad alcuna precedente pronuncia riformandola, statuisce per la prima volta sulle domande proposte dalle parti. Ne deriva che l’integrazione del contraddittorio disposta nel giudizio di rinvio ricade nell’ambito di applicazione non dell’art. 331 cod. proc. civ., ma dell’art. 393 sicchè non effettuata l’integrazione del contraddittorio ne termine stabilito dal giudice di rinvio, questi deve dichiarare l’estinzione dell’intero processo, senza che possa rivivere la pregressa sentenza di primo grado già riformata, a nulla rilevando che la parte pretermessa siasi costituita spontaneamente all’udienza dopo che si era verificata la causa di estinzione, dal momento che questa operando di diritto retroagisce a tale momento, impedendo al giudice l’esame di qualsiasi altra questione vertente sull’estinzione medesima, sempre che questa sia stata eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa”.

Alla luce di quanto si è detto, l’eventuale dichiarazione di cessazione della materia del contendere nel grado di rinvio non avrebbe portato giovamento alcuno alla odierna ricorrente, ma addirittura le avrebbe nuociuto privandola del diritto ad ottenere – in conformità alla domanda giudiziale proposta – un dictum espresso con riguardo a bene della vita dedotto in controversia, sicchè è del tutto da escludere che la parte oggi ricorrente abbia un interesse giuridicamente apprezzabile ad ottenere l’accertamento dell’intervenuta cessazione del contendere nel grado di giudizio di cui si è detto.

Resta poi anche dirimente per specificamente riscontrare l’argomento di parte ricorrente secondo cui la dichiarazione di desistenza dovrebbe almeno interpretarsi come acquiescenza (ma acquiescenza non potrebbe farsi, rispetto ad una pronuncia ormai resa inefficace dall’intervenuta riforma) ovvero come rinuncia ad interporre un rifiuto all’istanza di rimborso originariamente proposta – il rilievo che la semplice dichiarazione di desistenza non potrebbe in nessun caso avere l’effetto satisfattivi che la parte oggi ricorrente si ripromettere di raggiungere, giacchè la combinazione di detta dichiarazione con la pronuncia della cessazione della materia del contendere non potrebbe in nessun caso attribuire alla parte ricorrente medesima (neppure in combinazione con una sentenza di primo grado passata in giudicato sulla questione della astratta applicazione dell’aliquota IVA ridotta) un titolo che le consenta di ottenere esecutoriamente il rimborso delle somme di cui qui si tratta, in difetto di una espressa condanna sul punto.

Anche sul punto vale la pena di menzionare, a conforto, gli specifici precedenti di questa Corte.

Cass. Sez. 1 Sentenza n. 10553 del 07/05/2009: “La cessazione della materia del contendere – che se si verifichi in sede d’impugnazione, giustifica non l’inammissibilità dell’appello o del ricorso per cassazione, bensì la rimozione delle sentenze già emesse, perchè prive di attualità – si ha per effetto della sopravvenuta carenza d’interesse della parte alla definizione del giudizio, postulando che siano accaduti nel corso del giudizio fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti e da rendere incontestato l’effettivo venir meno dell’interesse sottostante alla richiesta pronuncia di merito, senza che debba sussistere un espresso accordo delle parli anche sulla fondatezza (o infondatezza) delle rispettive posizioni originarie ne giudizio, perchè altrimenti non vi sarebbero neppure i presupposti per procedere all’accertamento della soccombenza virtuale ai fini della regolamentazione delle spese, che invece costituisce il naturale corollario di un tal genere di pronuncia, quando non siano le stesse parti a chiedere congiuntamene la compensazione delle spese”.

Da quanto in precedenza detto si desume, in definitiva, che la semplice dichiarazione di desistenza dell’interesse alla prosecuzione del giudizio non potrebbe in nessun caso avere l’efficacia di sostituirsi ad una pronuncia di condanna mai adottata in riferimento al chiesto rimborso, non potendo sicuramente valere come una sorta, di virtuale atto di autotutela dell’Amministrazione Finanziaria in rispetto ad un provvedimento di silenzio-rifiuto, per rimuovere il quale occorrerebbe comunque un provvedimento espresso di riconoscimento dell’obbligazione restitutoria ovvero l’adempimento della stessa.

D’altronde, va anche rimarcato che la parte ricorrente assume in questa sede che la pronuncia adottata dalla Commissione di primo grado di Genova sarebbe in parte passata in giudicato (almeno per l’aspetto dell’astratto diritto all’applicazione dell’aliquota agevolata dell’IVA) ma non lo allega in termini autosufficientemente adeguati, nè lo comprova producendo in questo grado di giudizio la sentenza cui fa riferimento (siccome è d’obbligo in applicazione dell’art. 369 c.p.c., n. 4), sicchè una tale conclusione è possibile desumerla – del tutto inadeguatamente. ai lini del presente giudizio-solo per implicito dalla motivazione della sentenza qui impugnata, che vi fa fugace riferimento, per quanto poi – contraddittoriamente, e sull’erroneo presupposto di dovere giudicare dell’appello dell’Agenzia avverso la sentenza di primo grado – il giudicante si esprima espressamente sul punto. Anche questo aspetto della questione – insomma – non potrebbe essere oggetto di alcun accertamento preliminare, ciò che renderebbe frustraneo l’intento che la parte ricorrente si ripromette di raggiungere.

In definitiva, non uno degli assunti su cui si fonda il primo motivo de ricorso appare condivisibile, sicchè ne consegue l’inevitabile rigetto.

6. Il secondo motivo d’impugnazione.

Il secondo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2969 cod. civ. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e art. 57, comma 2 e ancor prima del D.P.R. n. 636 del 1972, art. 23, art. 22, comma 2 e art. 19 bis. Denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62”.

La parte ricorrente si duole del fatto che il giudice del rinvio abbia ritenuto di poter rilevare ex officio la intervenuta decadenza parziale dal diritto a rimborso e che comunque non fosse tardiva l’eccezione appositamente proposta dalla parte pubblica nel corso del giudizio di rinvio, e ciò in contrasto con l’art. 2969 cod. civ. secondo cui – appunto – la decadenza non può essere rilevata d’ufficio, salvo che si tratti di materia sottratta alla disponibilità delle parti ed il giudice debba rilevare la causa di improponibilità dell’azione.

La doglianza non ha pregio e non può essere accolta.

Sul punto basta qui rammentare che in molte altre analoghe situazione questa Corte ha già avuto modo di insegnare – con argomento condivisibile e che non può essere qui rimeditato, in difetto di nuovi argomenti dirimenti – che: “In materia tributaria, la decadenza del contribuente dall’esercizio di un potere nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, in quanto stabilita in favore di quest’ultima ed attinente a situazioni da questa non disponibili – perchè disciplinata da un regime legale non derogabile, rinunciabile o modificabile dalle parti – è rilevabile anche d’ufficio. Ne consegue che, alla luce del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 2, e dell’art. 345 c.p.c., comma 2 è deducibile per la prima volta in appello la decadenza del contribuente dal diritto al rimborso per non aver presentato la relativa istanza ne termine previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38 salvo che sul punto si sia già formato un giudicato interno” (Cass. Sci. 5.

Sentenza n. 1605 del 25/01/2008).

Poichè la parte qui ricorrente non prospetta che nella vicenda qui in esame si sia formato un giudicato interno sulla questione della tempestività dell’istanza di rimborso (che è anzi positivamente escluso dalla circostanza che con la sentenza n. 10857/2001 questa Corte abbia dato indicazioni al giudice di rinvio proprio di orientare l’esame verso la questione della spettanza in concreto del rimborso) e poichè la predetta questione non è un presupposto logico-giuridico necessario della pronuncia di cassazione -nel senso che sulla base di detto presupposto risulti fondato il principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento (sul punto si veda Cass. Sez. 50 Sentenza n. 10622 del 19/07/2002) – non vi è dubbio che correttamente il giudice del rinvio ha preso in esame – rilevandola ex officio – la questione della maturata decadenza del diritto al rimborso, risolvendola poi nei termini di cui si è detto.

5. Il terzo motivo d’impugnazione.

Il terzo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 30 e 38 bis nella formulazione in vigore ratione temporis, nonchè del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 16 transitato poi nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 1. Denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 4 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62”.

La parte ricorrente si duole che il giudice del rinvio abbia ritenuto applicabile alla specie di causa la disciplina del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 16 in relazione al termine biennale di decadenza, senza coordinare la anzidetta disciplina con la particolare natura dell’IVA. con la sua struttura ed il suo meccanismo di attuazione. In tal modo il giudice del rinvio avrebbe erroneamente fatto coincidere il termine “a quo” del periodo decadenziale con la data del pagamento, per quanto la somma dovuta all’erario risulti solo dalla dichiarazione annuale, la quale ultima va depositata nell’anno successivo a quello del periodo di riferimento (in ragione della differenza tra l’IVA applicata sui corrispettivi e l’IVA applicata sugli acquisti). Secondo la parte ricorrente sarebbe stato invece necessario fare applicazione degli artt. 30 e 38 bis sopra menzionati i quali collegano la disciplina del rimborso alla data di presentazione della dichiarazione, a decorrere dalla quale maturerebbe il periodo biennale di cui qui si tratta.

Se avesse tenuto conto di detta peculiarità, il giudice del rinvio non avrebbe potuto pronunciare la decadenza dal diritto al rimborso, atteso che la dichiarazione IVA per l’anno 1987 era stata presentata nel 1988 e che la domanda di rimborso era stata presentata l’8.11.1989.

La doglianza non ha pregio e non può essere accolta.

Va premesso che la norma dell’art. 38 bis, inserita nel corpo del provvedimento di legge che regola l’IVA a mezzo della L. del 27 dicembre 1997, n. 449, art. 24 non è perciò stesso applicabile alla presente fattispecie, ratione temporis.

Ciò posto, occorre anche rilevare che questa Corte ha già evidenziato in altra occasione quale sia la differenza tra il rimborso richiesto in applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30 (che ha norma consente di proporre: “Se dalla dichiarazione annuale risulta che l’ammontare detraibile di cui all’art. 28, n. 3 aumentato dalle somme versate mensilmente, è superiore a quello dell’imposta relativa alle operazioni imponibili di cui al n. 1 dello stesso articolo”) e quello richiesto in applicazione del D.P.R. n. 636 del 1972, art. 16 sicchè a siffatto proposito giova senz’altro richiamare lo specifico precedente.

“In tema di contenzioso tributario, in base al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis nella previgente formulazione (D.P.R. 29 gennaio 1979, n. 24, art. 1), il contribuente al quale sia stato notificato il rigetto, in ragione dell’inosservanza delle formalità di nomina del rappresentante IVA in Italia, dell’istanza di rimborso delle eccedenze IVA a credito, risultanti dalla dichiarazione annuale, può adire il giudice tributario nel termine di prescrizione ordinaria decennale, decorso il termine di due anni più tre mesi dalla data di presentazione della dichiarazione annuale, previsto dalla stessa disposizione. In base a tale norma, infatti, l’Amministrazione finanziaria non è tenuta ad emettere alcun atto di rigetto dell’istanza del contribuente, diverso dall’avviso di rettifica della dichiarazione annuale, cui consegue il diniego di rimborso o il riconoscimento del diritto al rimborso in misura inferiore a quella richiesta. D’altra parte, nella specie non è applicabile il più breve termine previsto dal D.P.R. n. 636 del 1972, art. 16 nel testo introdotto dal D.P.R. n. 739 del 1981, art. 7 in quanto esso si riferisce alle diverse ipotesi di rigetto delle istanze di rimborso di cui al comma 6 dell’articolo stesso, concernenti i casi di versamento diretto o di omessa notifica degli atti di cui al medesimo art. 16, comma 1 (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13832 del 10/12/1999).

Nella specie di causa si è trattato appunto di un versamento diretto e non già di una richiesta di rimborso effettuata in sede di dichiarazione annuale per tenere conto di quanto complessivamente versato (aumentato degli importi detraibili) rispetto a quanto complessivamente dovuto nel periodo annuale, sicchè non vi è dubbio che la disciplina invocata dalla parte ricorrente non possa trovare qui applicazione.

Neppure avrebbe infine rilevanza, in questa sede, la problematica che questa Corte ha evidenziato con l’ordinanza n. 18721/2010. rinviando per la questione interpretativa pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ordinanza che la parte ricorrente ha valorizzato nel corso della discussione orale ai fini della conseguente richiesta di sospensione del processo nelle more della pronuncia – ancora attesa – da parte della Corte di Giustizia.

l’d infatti nella predetta ordinanza è posto il problema della disomogeneità che nel diritto nazionale si crea tra la disciplina dell’azione di restituzione dell’indebito ex art. 2033 che è concessa al consumatore finale nei confronti del cedente o del prestatore dei servizi per l’IVA corrisposta senza titolo e la disciplina detrazione di rimborso che è concessa al cedente o al prestatore dei servizi nei confronti dello stato per l’IVA indebitamente versata a fronte delle transazioni, donde poi la conseguenza dell’esposizione da parte del cedente-prestatore ad un’azione di restituzione di indebito per un periodo assai più lungo (quello di prescrizione decennale) rispetto a quello utile per far valere l’indebito nei confronti dello Stato (periodo decadenziale di due anni).

Senonchè, nella specie di causa è la stessa rilevanza concreta della questione che è del tutto destituita di fondamento, essendo orami da lungo tempo trascorso il periodo prescrizionale dell’azione di ripetizione a cui è sottoposta la parte cedente, senza che la odierna ricorrente abbia in concreto giustificato la ragione del perdurante rischio di una siffatta azione da parte dei propri cessionari ovvero abbia dimostrato di esserne stata effettivamente attinta. In difetto di questo necessario presupposto, non è chi non veda che la prospettazione di un pregiudizio derivante dalla disomogeneità della disciplina delle due connesse azioni resta – in realtà – del tutto irrilevante, a nulla valendo la identificazione di un inconveniente totalmente astratto e puramente teorico.

Deve quindi tenersi per fermo quanto statuito dal giudice del rinvio a proposito della intervenuta decadenza dal rimborso delle imposte versate in sede di liquidazione dei mesi da gennaio a settembre del 1987.

In definitiva, il ricorso avverso la decisione impugnata deve essere integralmente disatteso.

La regolazione delle spese di lite di questo grado è improntata alla integrale compensazione tra le parti, attesa la peculiarità della situazione di fatto e la reciproca complessiva soccombenza in relazione alle porzioni del medesimo rapporto obbligatorio.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso. Compensa integralmente tra le parti le spese di lite.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2011

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