Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1043 del 17/01/2019

Cassazione civile sez. III, 17/01/2019, (ud. 03/04/2018, dep. 17/01/2019), n.1043

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25965-2015 proposto da:

D.P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA

GIULIANA 66, presso lo studio dell’avvocato PIETRO PATERNO’ RADDUSA,

rappresentato e difeso dall’avvocato BENIAMINO RICCA giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CASA DI CURA SANTA CHIARA SPA IN LIQUIDAZIONE, in persona del

liquidatore dott. U.G., elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA D CHELINI 5, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO NUCCI, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO CASONI

giusta procura in calce al controricorso;

ALLIANZ SPA, in persona dei procuratori dott. C.C.

e dott. CE.AN., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PANAMA presso lo studio dell’avvocato GIORGIO SPADAFORA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO SPADAFORA

giusta procura in calce al controricorso;

L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIO

EMANUELE II 18, presso lo Studio GREZ, rappresentato e difeso

dall’avvocato FRANCESCO SALESIA giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

e contro

REALE MUTUA ASSICURAZIONI SPA;

– intimati –

Nonchè da:

REALE MUTUA ASSICURAZIONI SPA, in persona del suo procuratore dott.

N.E.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE

ASOLONE, 8, presso lo studio dell’avvocato MILENA LIUZZI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALVARO MARABINI giusta

procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

D.P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA

GIULIANA 66, presso lo studio dell’avvocato PIETRO PATERNO’ RADDUSA,

rappresentato e difeso dall’avvocato BENIAMINO RICCA giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrente all’incidentale –

e contro

ALLIANZ SPA, L.G., CASA DI CURA SANTA CHIARA SPA IN

LIQUIDAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1392/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 22/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/04/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI CARMELO che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale, inammissibilità del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato PIETRO PATERNO’ RADDUSA per delega;

udito l’Avvocato ANTONIO MANGANIELLO per delega;

udito l’Avvocato MILENA LIUZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.P.P. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 1392/15 del 22 luglio 2015, della Corte di Appello di Firenze, che – respingendo il gravame proposto dall’odierno ricorrente contro la sentenza n. 1516/12 del 26 aprile 2012 del Tribunale di Firenze – ha rigettato la sua domanda di condanna al risarcimento dei danni nei confronti della Casa di Cura Santa Chiara S.p.a. in liquidazione (d’ora in poi, “Casa di Cura”), e del dottor L.G., relativamente all’esecuzione di un intervento chirurgico compiuto dal sanitario, in difetto di adeguata informazione al paziente, presso la suddetta struttura ospedaliera.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di essere stato sottoposto – negli anni dal 1992 al 1996 – a numerosi interventi di artoprotesi ad entrambe le anche, tutti eseguiti dal dott. L. presso la suddetta Casa di Cura, nonchè di aver accettato di sottoporsi, su consiglio del sanitario (che gli diagnosticava, nell’anno 2000, “calcificazioni per articolari cotiloidee”), ad un’ulteriore operazione, volta alla rimozione delle calcificazioni. Espletato l’intervento il 5 dicembre 2001, senza che – a dire dell’odierno ricorrente – fosse stato previamente acquisito un valido consenso all’operazione (giacchè il modulo di consenso informato, sottoposto alla sua firma, sarebbe stato del tutto generico), il D. deduce che, all’esito di tale ulteriore intervento, egli lamentava un’accentuata anemia con riflessi caratteri debilitanti, difficoltà di deambulazione, acuti dolori, nonchè l’impossibilità per il suo piede sinistro di procedere in modo naturale. Rivoltosi, dunque, ad una diversa struttura sanitaria, egli apprendeva che nel corso dell’esecuzione dell’intervento del dicembre 2001 era stata fratturata porzione di femore destro (avendo egli, in particolare, subito la rottura del trocantere), poi ingabbiata con presidio metallico, senza che di ciò il medesimo fosse stato reso edotto tanto prima che dopo l’operazione.

2.1. Citata, dunque, in giudizio – innanzi al Tribunale fiorentino la suddetta Casa di Cura, affinchè la stessa fosse condannata, sia in proprio che in via solidale con il L., al risarcimento dei danni subiti da esso D., tanto per effetto della non corretta esecuzione dell’intervento chirurgico, quanto per l’assenza di adeguato consenso informato, la convenuta ebbe a chiamare in causa il medico, ritenendolo il solo responsabile dell’eventuale danno, nonchè, in manleva, la propria compagnia di assicurazioni, società Reale Mutua Assicurazioni S.p.a. (d’ora in poi, “Reale Mutua”). Intervenuto in giudizio, oltre alla predetta società assicuratrice, anche il L., pure costui fu autorizzato a chiamare in causa, in garanzia, il proprio assicuratore, società Raas S.p.a., anch’essa intervenuta nella causa pendente innanzi al giudice di prime cure.

All’esito del giudizio di primo grado la domanda risarcitoria veniva integralmente respinta.

Si escludeva, da un lato, che vi fosse stata una non corretta esecuzione dell’intervento chirurgico (recependosi, sul punto, le conclusioni del CTU, che qualificava lo stesso come di “speciale difficoltà”, indicando, inoltre, nella frattura del trocantere “una complicanza prevedibile e frequente”), nonchè, dall’altro, l’esistenza di prova in ordine sia al fatto che, in presenza di idonea informazione, il paziente non si sarebbe sottoposto all’intervento, sia che l’omissione informativa avesse causato un aggravamento della situazione patologica. Infine, quanto alla mancanza di adeguata informazione anche dopo l’esecuzione della prestazione sanitaria, sebbene si fosse ritenuto che essa integrasse violazione di doveri morali e deontologici, si escludeva che avesse cagionato danno al D., sotto il profilo della lesione del diritto sia alla salute che all’autodeterminazione del paziente.

Le spese processuali erano poste integralmente a carico del D..

2.2. Proposto gravame dall’odierno ricorrente, per far valere unicamente il mancato accoglimento della domanda risarcitoria per carenza di adeguata informazione sull’intervento, la Corte di Appello di Firenze confermava il rigetto della domanda risarcitoria, quantunque sulla base di un differente “iter” argomentativo.

Infatti, le domande avanzate nei confronti del dott. L. e delle due compagnie di assicurazione venivano dichiarate inammissibili, sul rilievo che il D., dopo aver esteso nei loro confronti la domanda risarcitoria (mercè la memoria ex art. 183 cod. proc. civ.), nel precisare le conclusioni, invece, “come da atto di citazione”, avrebbe implicitamente rinunciato alla domanda nei confronti di tali soggetti o sarebbe da essa decaduto.

Quanto, invece, alla domanda risarcitoria volta a far valere la mancanza di acquisizione del previo consenso informato all’operazione, pur ritenendo la stessa “paradossalmente fondata” (e ciò in quanto l’omissione dell’informazione veniva ritenuta “di per sè fonte autonoma di danno indipendentemente dall’esito dell’informazione”), la Corte fiorentina la rigettava. Difatti, tale domanda – a dire del secondo giudice – avrebbe potuto farsi valere esclusivamente a carico del dott. L. (nei cui confronti, però, ogni pretesa doveva ritenersi inammissibile per la ragione già illustrata), ma non pure della Casa di Cura, non potendo esserle addossato “tale “deficit” informativo”, e ciò per non essere il suddetto sanitario un suo dipendente.

Anche le spese del secondo grado erano poste a carico dell’odierno ricorrente.

3. Avverso tale ultima sentenza ha proposto ricorso per cassazione il D., sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo è dedotta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 106,112 e 345 cod. proc. civ.”, e ciò “in relazione all’inammissibilità dell’appello nei confronti del dott. L.G.”.

Ci si duole, in sostanza, della violazione del principio della cd. “estensione automatica della domanda”. Difatti, si assume che quella proposta dalla Casa di Cura verso il dott. L. non costituisse domanda di garanzia o di regresso, bensì una chiamata in causa per titolo autonomo o di esclusiva responsabilità (come sarebbe reso evidente dal contenuto della comparsa di costituzione in giudizio della convenuta e dalle conclusioni da essa rassegnate in primo grado), sicchè la stessa si sarebbe automaticamente estesa all’attore, il quale, oltretutto, nel proprio atto di appello l’avrebbe esplicitamente riproposta, donde l’impossibilità di ritenerla “nuova” ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ..

3.2. Con il secondo motivo è dedotta “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 331,332 e 345 cod. proc. civ.”, e ciò “in relazione alla declaratoria di inammissibilità dell’appello nei confronti del dott. L., Reale Mutua e Raas”.

Il motivo – che è svolto, in realtà, solo quanto alla declaratoria di inammissibilità dell’appello nei riguardi delle due compagnie assicuratrici – mira a far accertare che nessun gravame era stato, in realtà, proposto nei confronti delle stesse, essendo state le stesse citate in appello solo ai fini dell’integrazione del contraddittorio ex art. 331 cod. proc. civ..

La richiesta di cassare la sentenza sul punto è giustificata, sul piano dell’interesse a ricorrere, anche in ragione della “statuizione di condanna alle spese di lite”.

3.3. Con il terzo motivo è dedotta – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218,1228,2043,2049,2055,1175,1176 e 1292 cod. civ.”, e ciò “in relazione all’esclusione della responsabilità solidale della Casa di Cura per l’operato del dott. L.G.”.

Il ricorrente si duole del fatto che la Corte fiorentina, pur avendo riconosciuto l’assenza di adeguata informazione in ordine all’intervento praticato e alle sue conseguenze, nonchè l’esistenza di una lesione del diritto all’autodeterminazione di esso D., abbia escluso che della stessa potesse rispondere la Casa di Cura.

Si rileva, infatti, che tra il paziente e l’ente ospedaliero si instaura un contratto di spedalità, in forza del quale il secondo risponde dei danni causati al primo, sia in relazione a propri specifici inadempimenti ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., “sia in relazione al comportamento doloso o colposo dei sanitari di cui si avvale ai sensi dell’art. 1228 cod. civ.”. Si prescinde, dunque, dall’esistenza di un rapporto di dipendenza (essendo sufficiente un nesso di occasionalità necessaria), trovando la responsabilità della struttura ospedaliera fondamento non già nella colpa nella scelta degli ausiliari o nella loro vigilanza, “bensì nel rischio connaturato all’utilizzazione di terzi nell’adempimento dell’obbligazione”. Irrilevante sarebbe, del pari, la circostanza che l’intervento sia stato eseguito dal medico di fiducia del paziente, bastando che egli sia inserito nella struttura.

In conclusione, assume il ricorrente, “l’errore del medico dà origine ad una responsabilità solidale impropria (art. 2055 cod. civ., da estendersi anche alla responsabilità contrattuale) della struttura sanitaria e del professionista”, nel senso che essi “sono chiamati a rispondere in via solidale (art. 1292 cod. civ.) a diverso titolo, ovvero sulla base di titoli autonomi di responsabilità”.

4. Ha resistito la società Reale Mutua con controricorso, per chiedere che l’avversaria impugnazione venga dichiarata inammissibile o comunque rigettata, svolgendo, inoltre, ricorso incidentale, sulla base di tre motivi, il cui esame riveste – a suo dire carattere pregiudiziale.

4.1. In relazione ai motivi del ricorso principale, Reale Mutua assume la fondatezza del primo (quantunque si reputi lo stesso assorbito dall’accoglimento del ricorso incidentale) e l’inammissibilità del secondo e del terzo.

In particolare, rispetto al secondo motivo si sottolinea come il ricorrente sia carente di interesse, giacchè la condanna alle spese nei confronti delle compagnie assicuratrici chiamate in garanzia non sarebbe – come da esso ipotizzato – una conseguenza della declaratoria di inammissibilità del gravame proposto dal D. nei loro confronti, bensì un’applicazione del principio di causalità della lite.

Infine, quanto al terzo motivo, se ne assume la novità, nella parte in cui il ricorrente richiama – senza che si fornisca prova di averlo già fatto in primo grado (donde anche l’eccepito difetto di autosufficienza del motivo) – il disposto dell’art. 1228 cod. civ., norma peraltro non applicabile nella specie, essendo stato il D., e dunque non il soggetto obbligato alla prestazione sanitaria, bensì il creditore della stessa, a scegliere liberamente il professionista dal quale farsi operare.

4.2. Il ricorso incidentale, come detto, è articolato in tre motivi.

4.2.1. In particolare, con il primo motivo, si ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), – “nullità della sentenza” in ragione di “error in procedendo per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.”, consistito nella “omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità dell’appello”, e comunque “per violazione dell’art. 345 cod. proc. civ.”, per avere la Corte fiorentina “pronunciato in merito alla domanda di risarcimento del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione nonostante detta domanda fosse stata introdotta per la prima volta con l’atto d’appello”.

Si assume che, nel giudizio di primo grado, il D. avesse “prospettato unicamente pregiudizi attinenti alla lesione del diritto alla salute”, solo in appello deducendo, invece, “l’esistenza di una lesione del diritto all’autodeterminazione, anche in assenza di danno alla salute”. Orbene, quantunque la Reale Mutua avesse tempestivamente eccepito la violazione del divieto di “nova” ex art. 345 cod. proc. civ. (presentandosi, quella proposta in sede di gravame, domanda distinta per “petitum” e “causa petendi” da quella fatta valere in primo grado), la Corte fiorentina, oltre a non pronunciarsi su tale eccezione, ha ritenuto di dover rettificare la motivazione del primo giudice, riconoscendo, in astratto, l’esistenza di un pregiudizio siffatto, salvo escludere che dello stesso potessero rispondere – per le differenti ragioni già sopra illustrate – sia la Casa di Cura che il sanitario.

Di qui, congiuntamente, la dedotta violazione degli artt. 112 e 345 cod. proc. civ..

4.2.2. Costituisce ideale sviluppo di quello che lo precede il secondo motivo, che ipotizza – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), – nullità della sentenza ex art. 112 cod. proc. civ. per “per vizio di extrapetizione”, e ciò, nuovamente, “in relazione all’individuazione dei danni conseguenti al difetto di consenso informato”, in sè considerato, non essendo stati gli stessi “mai neppure allegati (prima ancora che provati) dal preteso danneggiato.

4.2.3. Infine, con il terzo motivo viene dedotta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,2056,2059 e 2697 cod. civ., nonchè degli artt. 40 e 41 cod. pen.”, e ciò “in relazione all’affermazione della risarcibilità del danno da difetto di consenso informato, a prescindere dall’accertamento della rilevanza causale dell’omissione”.

Ritiene la controricorrente che ai fini del risarcimento del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione occorra che il paziente dimostri – quantunque anche solo in via presuntiva – che in presenza dell’informazione omessa esso non si sarebbe sottoposto all’intervento (nella specie, quello di rimozione delle calcificazioni), prova non raggiunta nell’ipotesi che occupa. Nel caso “de quo”, anzi, sussisterebbero, semmai, elementi (emergenti dalla espletata CTU e valorizzati dal primo giudice, diversamente da quello di appello) che inducono a ritenere esattamente il contrario.

5. Ha resistito con controricorso anche il L., per chiedere che l’avversaria impugnazione venga dichiarata inammissibile o comunque rigettata.

In via preliminare è eccepita la nullità della notifica del ricorso, avvenuta a mezzo “PEC”, ed avente ad oggetto non un atto originale informatico, bensì un atto originariamente formato su supporto analogico (ovvero, cartaceo), sottoscritto di pugno dal difensore del ricorrente e successivamente scansionato, in quanto priva di attestazione di conformità all’originale cartaceo.

Nel merito, l’infondatezza del primo motivo di ricorso è argomentata, innanzitutto, sul rilievo che – nella specie – il principio di estensione della domanda non può operare, avendovi il D. rinunciato, scegliendo di concludere in primo grado come da atto di citazione, e non come da memoria ex art. 183 cod. proc. civ., nella quale aveva formulato apposita domanda verso esso L..

In ogni caso, poi, anche a voler ritenere operante il principio dell’estensione della domanda, esso avrebbe astrattamente giustificato l’accertamento della responsabilità esclusiva del sanitario, in luogo di quella della Casa di Cura convenuta, laddove, invece, il D. – in appello – ha chiesto l’affermazione della responsabilità solidale di entrambi i soggetti, ciò che connota, inammissibilmente, in termini di novità la sua iniziativa, in violazione dell’art. 345 cod. proc. civ..

Quanto al secondo motivo, se ne eccepisce l’inammissibilità, giacchè se l’interesse destinato a sorreggerlo è quello alla riforma della statuizione sulle spese di lite nei confronti delle compagnie di assicurazione chiamate in manleva, detta statuizione avrebbe dovuto essere specificamente impugnata.

In relazione, infine, al terzo motivo, si evidenzia che non avendo la Casa di Cura riproposto in appello, ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ., la domanda di accertamento della responsabilità di esso L., la stessa deve intendersi rinunciata, di talchè detto tema deve ritenersi ormai definitivamente precluso, stante la decadenza del D. per le ragioni indicate a confutazione del primo motivo di ricorso principale – da ogni domanda proposta nei suoi confronti. Nel merito, peraltro, il motivo si paleserebbe infondato, non avendo il ricorrente dedotto quali conseguenze pregiudizievoli sarebbe derivate dalla lesione del proprio diritto all’autodeterminazione.

6. Anche la Casa di Cura ha resistito, con controricorso, al ricorso del D., concludendo per la declaratoria di inammissibilità o comunque per il rigetto dell’impugnazione principale.

In particolare, essa evidenzia come i giudici di merito non avrebbero “approfondito completamente l’indagine circa l’effettiva sussistenza della piena autodeterminazione e consapevolezza dell’attore” in ordine al trattamento sanitario ricevuto, e ciò in quanto la loro valutazione si sarebbe fermata ad uno stadio, per così dire, preliminare, essendo “state escluse sia la rilevanza causale di tale eventuale difetto” di informazione, che “l’imputabilità dello stesso alla Casa di Cura”.

7. Infine, pure la società Allianz, con controricorso, ha chiesto il rigetto del ricorso principale, del quale ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità, e ciò soprattutto in relazione al fatto che la qualificazione della domanda attorea competeva al giudice di merito. Tale qualificazione, inoltre, non sarebbe censurabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della carenza motivazionale, al qual riguardo si assume che il ricorrente – in special modo quanto alla supposta operatività del principio dell’estensione della domanda avrebbe dovuto rapportare il contenuto della decisione del secondo giudice a quello della domanda spiegata in primo grado nella citazione introduttiva, il mancato riferimento alla quale renderebbe, pertanto, la censura inammissibile.

8. Per parte propria, il D. ha resistito al ricorso incidentale della Reale Mutua.

Ha eccepito, al riguardo, l’inammissibilità del primo motivo, per carenza di interesse della ricorrente incidentale, per essere la stessa risultata vittoriosa, in punto di inammissibilità dell’appello proposto nei suoi confronti da esso D., con statuizione che – quantunque pronunciata per ragioni diverse da quelle poste da Reale Mutua a fondamento della propria impugnazione – risulta, ormai, passata in giudicato.

In ogni caso, si contesta la circostanza che esso D. non avrebbe proposto, se non in appello, domanda di risarcimento del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, ciò che escluderebbe la fondatezza anche del secondo motivo di ricorso incidentale.

Infine, quanto al terzo motivo, si evidenzia come la Corte fiorentina abbia correttamente individuato, nel descrivere i danni derivanti dall’omessa acquisizione del consenso informato del paziente, un danno “evento” (identificato nello stesso intervento medico non previamente assentito), e i danni “conseguenza” (consistenti nella preclusione per il paziente della possibilità di scelta), la cui gravità – da apprezzare non necessariamente sul piano delle complicanze post-operatorie o post-terapeutiche, e dunque dello loro incidenza sul diritto alla salute, ma anche su quello della violazione della fede religiosa del paziente, di un suo credo particolare o, più in generale, della sua dignità di uomo – il giudice di appello non avrebbe, nel caso di specie, approfondito, stante il mancato accoglimento della domanda risarcitoria.

9. Le parti hanno presentato memorie ex art. 378 cod. proc. civ., ribadendo le rispettive argomentazioni, nonchè associandosi la Reale Mutua e la Casa di cura all’eccezione di nullità della notifica del ricorso principale sollevata dal L..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

10. In via preliminare, va rigettata l’eccezione di nullità della notifica del ricorso (recte: di improcedibilità dell’impugnazione) sollevata dal controricorrente L. e fatta propria dalla Reale Mutua e dalla Casa di Cura.

10.1. Invero, agli atti del presente giudizio risulta attestazione del legale del ricorrente – datata 28 ottobre 2015 – della conformità, agli originali digitali, delle copie analogiche dei seguenti documenti: ricorso per cassazione, relata di notificazione dello stesso, messaggio di invio PEC del 28 ottobre 2015 e della ricevuta di accettazione avente pari data.

Sono, così, rispettate, le condizioni imposte dall’art. 369 c.p.c., comma 1, ai fini della procedibilità del ricorso notificato a mezzo PEC, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte.

Difatti, essa ha ritenuto il ricorso per cassazione “improcedibile, ai sensi dell’art. 369 cod. proc. civ., quando, nel termine di venti giorni dalla notificazione, siano state depositate solo copie analogiche del ricorso, della relazione di notificazione con messaggio p.e.c. e relative ricevute, senza attestarne la conformità, ai sensi della L. 21 gennaio 1994, n. 53 e successive integrazioni, art. 9, comma 1-bis, ai documenti informatici da cui sono tratte” (da ultimo, Cass. Sez. 6, sent. 22 dicembre 2017, ord. n. 30918, Rv. 647031-01, in motivazione).

Tanto basta per il rigetto dell’eccezione in esame, non senza notare che le Sezioni Unite di questa Corte hanno, di recente, chiarito – quantunque con riferimento all’ipotesi di notifica telematica di documento “digitale nativo”, ma con principio estensibile anche al caso (come quello presente) in cui la notificazione abbia ad oggetto la copia analogica di originale digitale – che il difetto di attestazione di conformità da parte del difensore, L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, non comporta l’improcedibilità del ricorso ove il controricorrente non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale notificatogli D.Lgs. 7 marzo 20075, n. 82, ex art. 23, comma 2, (Cass. Sez. Un., sent. 24 settembre 2018, n. 24438, Rv. 650462-01).

11. Ciò premesso, il ricorso principale deve essere accolto.

11.1. Il primo motivo è fondato.

11.1.1. Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, “qualora il convenuto” (nella specie, la Casa di Cura), “nel dedurre il difetto della propria legittimazione passiva, chiami in causa un terzo, indicandolo come il vero legittimato” (nella specie, il L.), “si verifica l’estensione automatica della domanda al terzo medesimo, con la conseguenza che il giudice può direttamente emettere nei suoi confronti una pronuncia di condanna anche se l’attore non ne abbia fatto richiesta, senza per questo incorrere nel vizio di extrapetizione” (da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 11 settembre 2018, n. 22050, Rv. 650074-02; in senso analogo Cass. Sez. 1, ord. 8 marzo 2018, n. 5580, Rv. 647752-01).

Resta, nondimeno, inteso che “la presunzione su cui si fonda il principio dell’estensione automatica della domanda dell’attore al terzo chiamato (ossia che l’attore voglia la condanna del chiamato, pur avendo agito nei confronti del solo convenuto) non può operare se l’attore escluda espressamente che la propria domanda sia stata proposta nei confronti del terzo chiamato” (Cass. Sez. 2, sent. 27 aprile 2016, n. 8411, Rv. 639737-01).

Orbene, se l’esclusione dell’estensione deve essere – come appena rilevato – “espressamente” formulata, non idonee a tale scopo potevano ritenersi le conclusioni rassegnate dal D. a norma dell’art. 189 cod. proc. civ., nelle quali si chiedeva dichiararsi la responsabilità della Casa di Cura, sia in proprio, “che ex artt. 2043 e 2049 cod. civ.”, in ragione “della condotta del personale medico che vi ha operato”, e ciò alla stregua del principio del principio secondo cui “affinchè una domanda possa ritenersi abbandonata, non è sufficiente che essa non venga riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi avere riguardo alla condotta processuale complessiva della parte antecedente a tale momento, senza che assuma invece rilevanza il contenuto delle comparse conclusionali” (Cass. Sez. Un., sent. 24 gennaio 2018, n. 1785, Rv. 647010-01).

Da quanto precede, pertanto, emerge che il mancato espresso riferimento – in sede di precisazione delle conclusioni – al riconoscimento della responsabilità anche del L., riguardato alla luce tanto del contenuto della memoria ex art. 183 cod. proc. civ., predisposta “illo tempore” dall’odierno ricorrente (ove si richiedeva la condanna “in via solidale” del predetto sanitario), quanto della riproposizione, in appello, della domanda risarcitoria pure nei confronti di tale soggetto, non può integrare quella “espressa esclusione” dell’estensione automatica della domanda, necessaria perchè la pretesa “de qua” possa ritenersi abbandonata.

11.2. Anche il secondo motivo di ricorso principale è fondato.

11.2.1. Sul punto, va preliminarmente rilevato che essendo stata, nella specie, denunciata la violazione di norme processuali (artt. 331,332 e 345 cod. proc. civ.), quello dedotto è un tipico “error in procedendo”, in relazione al quale questa Corte è anche giudice del “fatto processuale”, con possibilità di accesso diretto agli atti del giudizio (da ultimo, Cass. Sez. 6-5, ord. 12 marzo 2018, n. 5971, Rv. 647366-01; ma nello stesso senso già Cass. Sez. Un., sent. 22 maggio 2012, n. 8077, Rv. 622361-01).

La disamina degli stessi conferma, dunque, quanto era già dato evincere dal testo – riprodotto nel presente ricorso anche ai fini ed agli effetti dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), – delle conclusioni rassegnate in appello dall’odierno ricorrente, ovvero che egli non aveva indirizzato il proprio atto di gravame nei confronti delle compagnie assicuratrici della Casa di Cura e del L., evocate in giudizio solo ai fini ed agli effetti di una mera “litis denuntiatio”, ex art. 331 cod. proc. civ..

Erronea è stata, dunque, la declaratoria di inammissibilità dell’appello proposto nei loro confronti, evenienza che – come ha esattamente osservato il ricorrente nella propria memoria ex art. 378 cod. proc. civ. – è sufficiente a fondare l’interesse ad impugnare, a prescindere dalle conseguenze che il giudice del rinvio dovrà trarre da tale statuizione, nel procedere ad una rinnovato assetto alle spese di lite, e ciò alla luce del principio secondo cui la “cassazione della sentenza di appello travolge la pronuncia sulle spese di secondo grado, perchè in tal senso espressamente disposto dall’art. 336 c.p.c., comma 1, sicchè il giudice del rinvio ha il potere di rinnovare totalmente la relativa regolamentazione alla stregua dell’esito finale della lite” (Cass. Sez. 3, sent. 14 marzo 2016, n. 4887, Rv. 639295-01).

11.3. Infine, anche il terzo motivo del ricorso principale è fondato.

11.3.1. E’, infatti, errata l’affermazione che esclude la responsabilità della Casa di Cura, per mancata acquisizione del consenso informato del D. all’esecuzione dell’intervento chirurgico praticatogli, giacchè “tale “deficit” informativo” – secondo la sentenza impugnata – non potrebbe esserle addossato, non essendo il dott. L. un suo dipendente.

11.3.2. Al riguardo, occorre muovere dalla premessa che questa Corte ha da tempo affermato – proprio con specifico riguardo all’attività chirurgica – che il consenso informato del paziente si pone come condizione “essenziale per la liceità dell’atto operatorio” (Cass. Sez. 3, sent. 12 giugno 1982, n. 3604, Rv. 421568-01).

In effetti, il consenso informato – secondo l’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008) – deve essere inteso quale espressione della consapevole adesione del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico e si configura quale vero e proprio diritto della persona, trovando fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che della persona tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Si tratta, inoltre, di diritto ribadito da diverse norme sovranazionali, tra le quali spiccano l’art. 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con L. 28 marzo 2001, n. 145 e dall’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000.

La stessa giurisprudenza di questa Corte ha, del resto, sottolineato come tale diritto rappresenti, allo stesso tempo, “una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sè e ne sancisce il rispetto in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 16 ottobre 2007, n. 21748, Rv. 598962-01), restando, nondimeno, inteso che “il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale” (Cass. Sez. 3, sent. 15 settembre 2008, n. 23676, Rv. 604907-01).

In termini sostanzialmente analoghi si è sottolineato che “il diritto al consenso informato del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza” (purchè questi si profilino, comunque, “a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso”, e siano inoltre “tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona”), ovvero che non “si tratti di trattamento sanitario obbligatorio”. Tale consenso “è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l’intervento “absque pactis” sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale “deficit” di informazione, il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 28 luglio 2011, n. 16543, Rv. 619495-01).

Di conseguenza, “l’informazione esatta sulle condizioni e sui rischi prevedibili di un intervento chirurgico o su un trattamento sanitario per accertamenti in prevenzione o in preparazione”, costituisce, di per sè, “un obbligo o dovere che attiene alla buona fede nella formazione del contratto”, ponendosi, anche in ragione del rilievo costituzionale che riveste il diritto del paziente a prestare un consenso consapevole al trattamento, come “elemento indispensabile per la validità del consenso” stesso, atteggiandosi, in particolare, come “elemento costitutivo della protezione” dovuta al paziente (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 22 maggio 2014, n. 19731, Rv. 632440-01).

Pertanto, sebbene “l’acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico” (Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16503, Rv. 644956-01), essa si pone, comunque, come accessoria rispetto alla prima (o meglio, strumentale ad essa), sicchè anche per essa opera il principio secondo cui la struttura sanitaria “risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente, per fatto proprio, ex art. 1218 cod. civ., ove tali danni siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura, ovvero per fatto altrui, ex art. 1228 cod. civ., ove siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui l’ospedale si avvale” (Cass. Sez. 3, sent. 3 febbraio 2012, n. 1620, Rv. 621457-01), e ciò “anche quando l’operatore non sia un suo dipendente” (Cass. Sez. 3, sent. 20 giugno 2012, n. 10616, Rv. 624915-01).

11.3.3. Orbene, alla stregua di tali principi deve escludersi che la Casa di Cura possa sottrarsi a responsabilità per il sol fatto che il dott. L. non risulti un suo dipendente, dovendo cassarsi, anche sul punto, la sentenza impugnata, restando, naturalmente, compito del giudice del rinvio stabilire in quali termini – ed inoltre, se con iniziative ritualmente assunte – sia stata proposta dal D. la domanda risarcitoria, per lesione del diritto ad un’adeguata informazione sul trattamento praticato.

Al riguardo, infatti, deve notarsi che differente è il caso in cui il paziente lamenti il mancato riconoscimento di un danno alla salute, riconducibile all’assenza di adeguata informazione all’intervento o trattamento, da quello in cui si dolga dell’omessa liquidazione del danno discendente da detta condotta omissiva, per il sol fatto della lesione del diritto ad autodeterminarsi.

Come ha sottolineato, ancora di recente, questa Corte le due prospettive risarcitorie, in ciascuno di tali casi, “rispondono a diversi fondamenti logico-giuridici che si riflettono anche sul piano del riparto degli oneri probatori” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 21 giugno 2018, n. 16336, non massimata).

Difatti, nella prima ipotesi resta fermo il principio secondo cui “in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute” (così già Cass. Sez. 3, sent. 9 febbraio 2010, n. 2847, Rv. 611427-01, nonchè, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 16 febbraio 2016, n. 2998, Rv. 638979-01).

Per contro, ricorrendo la seconda fattispecie, “l’inadempimento dell’obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori – anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione – a condizione che sia allegata e provata, da parte dell’attore, l’esistenza di pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla violazione del diritto fondamentale alla autodeterminazione in sè considerato, sempre che essi superino la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e non siano futili, ovvero consistenti in meri disagi o fastidi” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 22 agosto 2018, n. 20885, Rv. 650433-01), restando, peraltro, inteso che tale prova potrà darsi anche a mezzo di presunzioni, “la cui efficienza dimostrativa seguirà una sorta di ideale scala ascendente, a seconda della gravità delle condizioni di salute e della necessarietà dell’operazione” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, n. 16336 del 2018, cit.).

D’altra parte, e per concludere sul punto, nello stabilire se l’odierno ricorrente abbia diritto a conseguire – dal dottor L. (dato l’accoglimento del primo motivo di ricorso), come dalla Casa di Cura (in forza dell’accoglimento del terzo) – il risarcimento del danno da mancato consenso informato, il giudice del rinvio, attesa la diversità delle due fattispecie di danno dianzi delineate, dovrà anche attenersi al principio secondo cui, qualora “l’attore abbia chiesto con l’atto di citazione il risarcimento del danno da colpa medica per errore nell’esecuzione di un intervento chirurgico (e, quindi, per la lesione del diritto alla salute), e domandi poi in corso di causa anche il risarcimento del danno derivato dall’inadempimento, da parte dello stesso medico, al dovere di informazione necessario per ottenere un consenso informato (inerente al diverso diritto alla autodeterminazione nel sottoporsi al trattamento terapeutico), si verifica una “mutatio libelli” e non una mera “emendatio”, in quanto nel processo viene introdotto un nuovo tema di indagine e di decisione, che altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, tanto da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza” (Cass. Sez. 3, sent. 13 ottobre 2017, n. 24072, Rv. 645833-01).

12. Il ricorso incidentale è, invece, inammissibile.

La controricorrente Reale Mutua è, infatti, risultata totalmente vittoriosa all’esito del giudizio di appello, e ciò non solo in ragione della declaratoria di inammissibilità del gravame proposto nei suoi confronti dal D., ma anche in ragione del rigetto della domanda risarcitoria nei confronti della propria assicurata, ovvero la Casa di Cura.

Trova, pertanto, applicazione, nel caso di specie, il principio secondo cui “è inammissibile per carenza di interesse il ricorso incidentale condizionato allorchè proponga censure che non sono dirette contro una statuizione della sentenza di merito bensì a questioni su cui il giudice di appello non si è pronunciato ritenendole assorbite, atteso che in relazione a tali questioni manca la soccombenza che costituisce il presupposto dell’impugnazione, salva la facoltà di riproporre le questioni medesime al giudice del rinvio, in caso di annullamento della sentenza” (Cass. Sez. 5, sent. 22 settembre 2017, n. 22095, Rv. 645632-01).

D’altra parte, si è appena sopra chiarito, entro quali limiti – e con quali oneri di indagine a carico del giudice del rinvio – è destinata ad operare la pronuncia cassatoria adottata da questa Corte, sicchè, come detto, le censure formulate da Reale con il ricorso incidentale potranno essere vagliate in tale sede.

13. A carico della ricorrente incidentale, attesa la declaratoria di inammissibilità della proposta impugnazione, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13,comma 1-quater.

14. Le spese anche del presente giudizio saranno liquidate all’esito del giudizio di rinvio, da parte del giudice per esso competente.

PQM

La Corte accoglie il ricorso principale e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Dichiara inammissibile il ricorso incidentale.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 3 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2019

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA