Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1043 del 17/01/2018


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Civile Ord. Sez. L Num. 1043 Anno 2018
Presidente: NOBILE VITTORIO
Relatore: NEGRI DELLA TORRE PAOLO

ORDINANZA

sul ricorso 23206-2013 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo
studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la
rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente contro

2017
3725

SANTANGELO LUCIA, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR
presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato
MARIA RITA PUGLIA, giusta delega in atti;
– controricorrente –

Data pubblicazione: 17/01/2018

avverso la sentenza n. 966/2012 della CORTE D’APPELLO

di ANCONA, depositata il 16/10/2012 R.G.N. 856/2008.

R.G. 23206/2013

Premesso
che con sentenza n. 966/2012, depositata il 16 ottobre 2012, la Corte di appello di
Ancona ha confermato la sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno, nella parte in cui il
giudice di primo grado aveva dichiarato la nullità della clausola di apposizione del termine
al contratto stipulato da Lucia Santangelo e dalla S.p.A. Poste Italiane, relativamente al

connesse all’attuale fase di riorganizzazione dei Centri Rete Postali, ivi ricomprendendo
una più funzionale ricollocazione del personale sul territorio, nonché per far fronte ai
maggiori flussi di traffico del periodo natalizio’;
che la Corte ha poi condannato la società, in parziale riforma della pronuncia di primo
grado, al pagamento in favore della lavoratrice della indennità di cui all’art. 32, co. 5, I.
n. 183/2010, nella misura di otto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre
interessi legali e rivalutazione monetaria ISTAT;
che nei confronti detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione Poste Italiane S.p.A.
con sei motivi;
che la Santangelo ha resistito con controricorso;
che entrambe le parti hanno depositato memoria;

rilevato
che la ricorrente deduce: 1) con il primo motivo, vizio di motivazione, avendo la Corte
escluso che il rapporto potesse essersi risolto per mutuo consenso, nonostante che la
lavoratrice avesse atteso quattro anni prima di promuovere il giudizio e senza precisare
gli elementi, oltre quelli già indicati dalla società, necessari al fine di rilevare una chiara
volontà abdicativa, omettendo altresì di dare ingresso alle istanze istruttorie relative allo
svolgimento di altra attività, dopo la conclusione del rapporto dedotto in giudizio, in
quanto ritenuto elemento non determinante; 2) con il secondo motivo, violazione e falsa
applicazione dell’art. 1372 c.c., per non avere la Corte considerato che l’avere lasciato
trascorrere un periodo di quattro anni prima del giudizio costituiva un comportamento
concludente, come tale idoneo a configurare la risoluzione per mutuo consenso; 3) con il
terzo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 2,
d.lgs. n. 368/2001, per avere la Corte erroneamente ritenuto generica la causale posta a
giustificazione del termine; 4) con il quarto motivo, deduce insufficiente motivazione, per
avere la Corte di merito trascurato di valutare sia la documentazione prodotta, attestante
la sussistenza della causale, che le deduzioni formulate nella memoria di costituzione,
sulle quali la società aveva chiesto l’ammissione delle prove testimoniali; 5) con il quinto,
la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1419 c.c., per avere la Corte
1

periodo 1/10/2002 – 31/12/2002, per ‘esigenze tecniche, organizzative e produttive

ritenuto la nullità della clausola, e non dell’intero contratto, nonostante che le parti
avessero attribuito al termine carattere di essenzialità; 6) con il sesto motivo, infine, la
ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 32 I. n. 183/2010, si duole
che la Corte abbia determinato la misura dell’indennità risarcitoria in otto mensilità,
anziché nel minimo o comunque in misura compresa entro il limite delle sei mensilità,
facendo non corretta applicazione dei criteri di cui all’art. 8 I. n. 604/1966 e comunque
ricorrendo nella specie le condizioni per far luogo all’applicazione della norma di cui al
comma 6 dell’art. 32; e per avere, inoltre, riconosciuto gli interessi e la rivalutazione

come onnicomprensiva e, di conseguenza, tale da assorbire l’intero danno contrattuale
subito dal lavoratore;

osservato
che il primo e il quarto motivo sono inammissibili;
che, infatti, i motivi in esame, dolendosi la ricorrente di una contraddittoria e insufficiente
motivazione del giudice di merito, non si conformano allo schema normativo del nuovo
vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il decreto
legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella I. 7 agosto 2012, n. 134,
pur a fronte di sentenza depositata il 16 ottobre 2012, e, pertanto, in epoca successiva
all’entrata in vigore (11 settembre 2012) della novella legislativa;
che, al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del
2014, hanno precisato che l’art. 360 n. 5 c.p.c., come riformulato a seguito dei recenti
interventi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione,
relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe
determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso
rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4
c.p.c., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato,
testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia
stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando
che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame
di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso
in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le
risultanze probatorie”;
che il secondo motivo è infondato, essendosi la Corte uniformata all’orientamento di
legittimità, per il quale “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza
di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto della illegittima
apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi
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monetaria sulla somma liquidata, pur in presenza di indennità qualificata dal legislatore

una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla
base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad
ogni rapporto lavorativo” (cfr., fra le molte, Cass. n. 13535/2015);
che il terzo motivo deve ritenersi inammissibile in quanto non pertinente alla ragione
decisoria, essendo la Corte di appello pervenuta al rigetto del gravame sul fondamento
(non di una valutazione di genericità della causale ma) del ritenuto difetto di prova in

esistenza del nesso di causalità che deve necessariamente intercorrere fra tali ragioni e il
concreto utilizzo del lavoratore nell’unità produttiva di applicazione (cfr. sentenza, p. 5);
che il quinto motivo è infondato, dovendosi al riguardo richiamare Cass. n. 7244/2014,
per la quale “l’art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 ha confermato il principio
generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo
indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria anche nel
sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante
l’apposizione del termine ‘per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o
sostitutivo’. Ne deriva che, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative, e pur in
assenza di una norma che ne sanzioni espressamente la mancanza, in base ai principi
generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina
contrattuale, all’illegittimità del termine, ed alla nullità della clausola di apposizione dello
stesso, consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola, pur se eventualmente
dichiarata essenziale, e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”;
che, infine, il sesto motivo è, per una parte, inammissibile e, per altra parte, infondato:
inammissibile, là dove denuncia l’omesso esame di accordi sindacali rilevanti ai sensi
della disposizione di cui al comma 6 dell’art. 32 I. n. 183/2010, non avendo la ricorrente
dedotto se e in quali termini gli stessi siano stati portati all’attenzione della Corte di
merito; infondato, sia là dove censura il procedimento seguito nella determinazione
dell’indennità risarcitoria, ex art. 32, comma 5, I. cit., essendosi il giudice di appello
conformato al principio di diritto, di cui a Cass. n. 1320/2014, sia là dove censura il
riconoscimento, sull’indennità così come liquidata, di interessi legali e di rivalutazione
monetaria secondo gli indici ISTAT, dovendosi in proposito osservare che l’indennità in
esame deve essere annoverata tra i crediti ex art. 429, comma 3, c.p.c., poiché – come
più volte è stato affermato da questa Corte – tale ampia accezione si riferisce a tutti i
crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli aventi natura strettamente
retributiva (ad esempio, fra le altre, per i crediti liquidati ex art. 18 1. n. 300/1970 cfr.
Cass. 23 gennaio 2003, n. 1000 e Cass. 6 settembre 2006, n. 19159; per l’indennità ex
art. 8 della legge n. 604 del 1966 cfr. già Cass. 21 febbraio 1985, n. 1579; per le somme
a titolo di risarcimento del danno ex art. 2087 c.c. cfr. Cass. 8 aprile 2002, n. 5024);
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ordine alla effettiva sussistenza delle ragioni indicate nel contratto e della indimostrata

ritenuto
conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;
che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo

p.q.m.

giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per
compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1
stesso articolo 13.

Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 28 settembre 2017.

bis dello

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente

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