Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10418 del 12/05/2011

Cassazione civile sez. trib., 12/05/2011, (ud. 22/03/2011, dep. 12/05/2011), n.10418

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERNARDI Sergio – Presidente –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – rel. Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 7993-2010 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

LAMDA INFORMATICA SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA SICILIA 66 presso lo

studio dell’avvocato FANTOZZI AUGUSTO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GIULIANI FRANCESCO, giusta delega in calce;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5/2009 della COMM. TRIB. REG. di BOLOGNA,

depositata il 05/02/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/03/2011 dal Consigliere Dott. CARLO PARMEGGIANI;

udito per il ricorrente l’Avvocato SANTORO MASSIMO, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato GIULIANI FRANCESCO, che ha chiesto

il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso l’accoglimento.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Agenzia delle Entrate notificava a Lamda Informatica s.r.l. avviso di accertamento con il quale rettificava la dichiarazione presentata a fini IVA nel 2003, sul presupposto che la stessa avesse contabilizzato fatture concernenti operazioni soggettivamente inesistenti, in quanto, ad avviso dell’Ufficio, l’apparente cedente (MGM s.r.l.) era in realtà soggetto non operativo e società di comodo, che si interponeva fittiziamente tra il reale fornitore comunitario ed l’acquirente finale, rivendendo la merce ricevuta in esenzione di IVA, a prezzo minorato e con applicazione di tale imposta, al contribuente, il quale detraeva l’IVA versata in rivalsa e si giovava della diminuzione di prezzo, laddove l’interposto lucrava, quale compenso per la attività prestata, la differenza tra l’importo totale ricevuto comprensivo di IVA, che non versava all’Erario, ed il prezzo reale corrisposto al venditore estero.

La contribuente impugnava l’avviso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Bologna, sostenendo carenza di motivazione, insufficienza degli elementi probatori citati a supporto, infondatezza nel merito. La Commissione accoglieva il ricorso, sul principale rilievo che l’onere della prova gravava sull’Ufficio e che ad avviso dell’organo giudicante questo non era stato compiutamente assolto.

Appellava l’Ufficio, e la Commissione Tributaria Regionale della Emilia-Romagna con sentenza n. 5 in data 20 gennaio 2009 depositata il 5 febbraio 2009 respingeva il gravame, confermando la sentenza impugnata. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate, con due motivi.

La società resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la Agenzia deduce violazione dell’art. 2697 c.c., del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 5, art. 17 Direttiva CEE 17-5-1977, n. 77/388/CE e 167 Dir. CEE 28-11-2006. n. 206/12/6, come interpretati dalla giurisprudenza Comunitaria in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Sostiene che la Commissione regionale ha errato nel ritenere che fosse onere dell’Ufficio dimostrare il “consapevole coinvolgimento” della società nella frode perpetrata dal suo fornitore MGM s.r.l. sia il vantaggio economico conseguito attraverso l’acquisto dal predetto fornitore della merce successivamente rivenduta.

Sostiene, sulla base di citazioni giurisprudenziali, sia di questa Corte che di diritto comunitario, che tale onere, in forma negativa, spettasse al contribuente.

Nel quesito di diritto pertanto si afferma come retta “regula iuris” che “qualora venga contestata la indetraibilità dell’IVA assolta in relazione ad operazioni passive concluse con un fornitore, qualificato dalla Amministrazione come impresa cartiera ed autore di una frode IVA in danno dell’Erario, costituisce onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione ivi compreso l’avere adottato tutte le misure che possono essere ragionevolmente pretese al fine di assicurarsi che le proprie operazioni non facciano parte di una frode”. Censura quindi l’opinamento contrario della Commissione.

Con il secondo motivo deduce insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5. Sostiene che la motivazione in forza della quale la CTR aveva ritenuto la buona fede della acquirente, sulla base essenzialmente della avvenuta consegna della merce, della effettività del pagamento, delle certificazioni della Camera di Commercio sui dati identificativi della società fornitrice, è gravemente insufficiente in quanto tali elementi erano probatoriamente irrilevanti rispetto alla fattispecie, in cui era stata accertata la natura di “cartiera” della cedente, non dando invece il debito peso al fatto che la società cedente operava, od almeno appariva operare, nel medesimo settore di attività (commercio di materiale informatico) della cessionaria, ed alla circostanza che tutte le consegne di merce per rilevanti importi erano effettuate dalla stessa persona che era anche il legale rappresentante della società fornitrice.

fa società nel controricorso contesta la ammissibilità e la fondatezza delle argomentazioni dell’Ufficio.

Il primo motivo non è fondato.

Occorre premettere che nella specie, e più generalmente in tutte le controversie concernenti operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, il principio generale, trattandosi di deduzioni di costi e di IVA conseguenti a tali operazioni, è che l’onere della prova grava sul contribuente, il quale, se vuole dedurre un costo, sottraendo reddito alla tassazione, deve provarne i presupposti. Tale onere, tuttavia, viene assolto in tutti i casi in cui le operazioni sono documentate da fatture regolari inserite in una corretta contabilità, in quanto, per costante giurisprudenza di questa Corte, “in tema di IVA la fattura è documento idoneo ad attestare un costo dell’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1992, art. 21” (Cass. n. 27341 del 2005). Ne consegue che nella ipotesi in cui la documentazione sia apparentemente regolare, e che la Amministrazione sostenga che la operazione documentata nella fattura formalmente corretta è inesistente, ovvero che questa è ideologicamente o materialmente falsa, con accertamento di un maggiore imponibile od indeducibilità di un costo (l’IVA versata) l’onere della prova grava sulla Amministrazione. Prova che, ai sensi dell’art. 54, comma 2, D.P.R. citato e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 può essere data in via presuntiva, con presunzioni anche semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti. Una volta che il giudice del merito ritenga sussistente tale requisito ( che non comporta la prova assoluta del fatto, ovvero “certa” non raggiungibile per presunzioni, bensì la sussistenza di una probabilità di alto grado della conformità dell’accertamento alle indicazioni presuntive – v. Cass. n. 9784 del 2010) riprende vigore il principio generale di cui sopra ed incombe sul contribuente ex art. 2727 c.c. e art. 2697 c.c., comma 2 la prova della infondatezza della pretesa erariale.

Tali principi si applicano alla fattispecie, con la particolarità che vertendosi in materia di IVA, tributo armonizzato a livello europeo, e di frode che coinvolge necessariamente una importazione intracomunilaria, occorre tenere conto dei principi espressi dalle direttive comunitarie in materia e dalla sentenze della corte di Giustizia (Direttiva del Consiglio n. 77/388/CEE, come interpretata dalla giurisprudenza comunitaria ed in particolare delle sent. C- 762/93 del 6 luglio 1995 e C-439/04 del 6 luglio 2006).

Il principio giurisprudenziale che si trae da dette pronunce è chiaro: ove si sia in presenza di una frode sull’IVA realizzata con una catena di successive cessioni, il cessionario ha il diritto di detrarre l’IVA ove “non sappia o non possa sapere” (sent. C-762/93) di essere coinvolto in un meccanismo fraudolento; del pari, “a contrario” qualora “sapesse o avrebbe dovuto sapere” di partecipare con il proprio acquisto ad una operazione che si iscriveva in una frode all’IVA il giudice nazionale nega il beneficio del diritto alla deduzione (sent. C7439/04). Si e fatta questione sulla rilevanza delle diverse formulazioni usate, e sulla differenza di significato tra il “poter sapere” ed il “dover sapere”. Ad avviso della Corte tale distinzione è più formale che sostanziale, ed il fatto è comprovato dall’uso indifferenziato di tali termini nell’ambito di una giurisprudenza costante.

In concreto, viene posto a carico del cessionario un obbligo di diligenza nella scelta del fornitore e di attenzione ai requisiti del soggetto cedente, non formali (essendo evidente che ogni meccanismo fraudolento si cura in primo luogo di esibire all’esterno una apparente correttezza contabile e cartolare) ma sostanziali, nel senso di una effettiva esistenza nel cedente di una efficiente struttura operativa e della capacità di fornire autonomamente i beni acquistati, senza ovviamente pretendere un inesigibile dovere di accurata indagine, ma fondandosi su quegli elementi obiettivi (ad es.

assenza di strutture, assenza di una clientela qualificata, mancanza di indici di capacità commerciale – pubblicità, giro di affari ecc.) che non possono sfuggire ad un contraente onesto che operi in un determinato settore commerciale e che in particolare (e qui è l’unica differenziazione terminologica accettabile) non devono sfuggire ad un imprenditore mediamente accorto.

Applicando i principi sopra esposti alla fattispecie concreta, concernente una “frode carosello” fondata sul meccanismo illustrato in premessa, ne consegue che, nel caso, come il presente, di apparente regolarità contabile della fattura, dotata dei requisiti di legge, l’onere della prova grava sull’Ufficio, nel senso che questi deve provare 1) gli elementi di fatto della frode, attinenti il cedente, ovvero la sua natura di “cartiera”, la inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento e simili; 2) la connivenza nella frode da parte del cessionario, non necessariamente però con prova “certa” ed incontrovertibile, bensì con presunzioni semplici, purchè dotati del requisito di gravità precisione e concordanza, consistenti nella esposizione di elementi obiettivi – che possono coincidere con quelli sub) 1 – tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sulla inesistenza sostanziale del contraente, il quale non può non rilevarla e peraltro deve coglierla, per il dovere di accortezza e diligenza insito nell’esercizio di una attività imprenditoriale e commerciale qualificata.

Qualora, con giudizio di fatto rimesso al giudice del merito, la Amministrazione abbia fornito una prova nei termini di cui sopra, l’onere a carico della medesima si intende assolto e grava sul contribuente l’onere della prova contraria.

E’ pertanto evidente che l’assunto dell’Ufficio, secondo cui sarebbe sufficiente la mera contestazione della natura di “cartiera” della società tornitrice, per fare sorgere in capo all’acquirente “l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione ivi compreso l’avere adottato tutte le misure che possono essere ragionevolmente pretese al fine di assicurarsi che le proprie operazioni non facciano parte di una frode” è errato per eccesso, da un lato annullando l’onere probatorio a proprio carico sulla stessa sussistenza della frode (ridotto a mera “contestazione”) e trasferendo in via immediata sul contribuente la prova contraria con un onere di diligenza di particolare ampiezza peraltro non definita con criteri obiettivi.

Il secondo motivo è invece fondato.

Deve premettersi che la Commissione, non avendo in motivazione assunto una posizione precisa in ordine all’onere della prova, limitandosi a negare la correttezza della tesi dell’Ufficio, ha risolto la questione in fatto operando una comparazione tra le prove indicate dall’Ufficio e quelle esposte dalla contribuente ritenendo non sufficienti le prime non in sè ma in relazione alla natura concludente ed incontestabile di quelle offerte dalla parte privata.

Enuncia a tale proposito le visure camerali dalle quali emergevano i dati identificativi della società fornitrice, la contabilizzazione della fatture, l’effettiva esecuzione delle operazioni compiute.

Espone che gli elementi di prova portati dall’Ufficio erano “importanti ma non determinanti” ed in particolare non era determinante la coincidenza di chi curava le consegne con il legale rappresentante della società fornitrice nè l’assenza di strutture di questa, “non facilmente accertabile dai clienti, specie in presenza delle richiamate certificazioni camerali”.

Punto centrale dell’iter decisionale è la osservazione che “appare una semplice ipotesi il fatto che la ricorrente non potesse essere stata indotta in inganno dalla apparente solidità del soggetto interposto”.

Appare evidente la insufficienza sul piano logico della valutazione delle prove addotte dalla parte al fine di escludere la connivenza nella “frode carosello” in quanto tutti gli elementi indicati come estremamente rilevanti contro la tesi dell’Ufficio sono ammessi dallo stesso Ufficio, e ciò in quanto sono irrilevanti al fine prospettato dalla parte, atteso che la esistenza cartolare del fornitore e la regolarità contabile, nonchè la effettiva esistenza sul piano oggettivo della operazione ed il relativo pagamento, sono elementi costitutivi fisiologicamente normali della tipologia di frode contestata, i cui meccanismi sono stati esposti nelle premesse di fatto della sentenza impugnata.

Da ciò discende che il valore svalutativo della iscrizione alla camera di commercio rispetto al fatto obiettivo della inesistenza strutturale della venditrice risulta inesistente, nè la Commissione ha spiegato il motivo della ritenuta irrilevanza della identità dell’addetto alle consegne con il legale rappresentante della venditrice, fatto indicato dall’Ufficio come inusuale ed evidentemente noto alla contribuente dalla stessa visura camerale.

Infine, il vizio di motivazione che manifesta la erroneità sul piano logico della valutazione comparativa, è rappresentato dal fatto che la Commissione non conclude nel senso di ritenere provata la buona fede dell’acquirente, bensì che non può escludersi che la stessa fosse stata tratta in inganno dalla apparente solidità del soggetto interposto, ipotizzando una ipotesi di fraintendimento meramente ipotetica e non spiegata. Ne consegue che sussiste ipotesi di insufficienza ed illogicità intrinseca nella valutazione comparativa degli elementi contrapposti. L’accoglimento del motivo porta alla cassazione della sentenza ed al rinvio per nuovo esame a diversa sezione della Commissione Tributaria Regionale della Emilia-Romagna, che provvederà anche sulla spese di questa fase di legittimità.

P.Q.M.

La Corte respinge il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo.

Cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della Commissione Tributaria Regionale della Emilia Romagna.

Così deciso in Roma, il 22 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2011

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