Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10415 del 12/05/2011

Cassazione civile sez. trib., 12/05/2011, (ud. 22/03/2011, dep. 12/05/2011), n.10415

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERNARDI Sergio – Presidente –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – rel. Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 18350-2009 proposto da:

LAMDA INFORMATICA SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA SICILIA 66 presso lo

studio dell’avvocato GIULIANI FRANCESCO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato FANTOZZI AUGUSTO, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO ENTRATE BOLOGNA (OMISSIS), in

persona del

Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI

PORTOGHESI 12 presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 51/2008 della COMM. TRIB. REG. di BOLOGNA,

depositata il 22/09/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/03/2011 dal Consigliere Dott. CARLO PARMEGGIANI;

udito per il ricorrente l’Avvocato GIULIANI FRANCESCO, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato SANTORO MASSIMO, che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Agenzia delle Entrate notificava a Lamda Informatica s.r.l. avviso di accertamento con il quale rettificava la dichiarazione dei redditi della società relativa all’anno 2001, a fini Irpeg, Irap ed IVA, sul presupposto che la stessa avesse contabilizzato fatture concernenti operazioni soggettivamente inesistenti, in quanto, ad avviso dell’Ufficio, gli apparenti cedenti erano in realtà soggetti non operativi e società di comodo, che si interponevano fittiziamente tra il reale fornitore comunitario ed l’acquirente finale, rivendendo la merce ricevuta in esenzione di IVA, a prezzo minorato e con applicazione di tale imposta, al contribuente, il quale detraeva l’IVA versata in rivalsa e si giovava della diminuzione di prezzo, laddove l’interposto lucrava ,quale compenso per la attività prestata, la differenza tra l’importo totale ricevuto comprensivo di IVA, che non versava all’Erario, ed il prezzo reale corrisposto al venditore estero. Contestava inoltre l’Ufficio l’utilizzo di un fattura relativa ad operazione ritenuta oggettivamente inesistente.

La contribuente impugnava l’avviso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Bologna, sostenendo carenza di motivazione, insufficienza degli elementi probatori citati a supporto, infondatezza nel merito.

La Commissione accoglieva il ricorso, sul principale rilievo che l’onere della prova gravava sull’Ufficio e che ad avviso dell’organo giudicante questo non era stato compiutamente assolto.

Appellava L’Ufficio e la Commissione Tributaria Regionale di Bologna con sentenza n. 51/18/08, in data 26 maggio 2008, depositata il 22 settembre 2008, accoglieva il gravame ritenendo legittimo e fondato l’operato dell’Ufficio.

Avverso la sentenza propone ricorso la contribuente, con otto motivi.

Resiste la Agenzia con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente deduce insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che la motivazione della sentenza impugnata era generica in punto a valutazione delle prove acquisite in causa, avendo omesso di specificare concretamente in cosa queste consistessero, e di argomentare adeguatamente in ordine alla confutazione delle argomentazioni del primo giudice, si da non risultare comprensibile l’iter logico-giuridico alla base della decisione.

Con il secondo mezzo sostiene vizio di motivazione sotto lo specifico profilo della motivazione apparente, assumendo che questa si risolveva in affermazioni apodittiche prive di reale contenuto.

Con il terzo sostiene analogo vizio con riferimento alla omessa valutazione di argomenti di prova forniti dalla società nei gradi di merito, specie con riferimento alla regolarità delle operazioni effettuate, reali e ritualmente contabilizzate.

Con il quarto motivo sostiene violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., assumendo che i vizi di motivazione sopra enunciati implichino la violazione dei precetti di legge citati, non avendo il giudice di appello nè specificato nè valutato gli elementi di prova acquisiti in causa ed in specie quelli prodotti dalla società. Formula quesito di diritto, in cui si da come presupposto di fatto la omessa valutazione di “prove decisive fornite dalla società in corso di causa”.

Con il quinto motivo riprende il vizio di motivazione, sul rilievo che la Commissione avrebbe omesso il vaglio critico delle argomentazioni dell’Ufficio riportandosi pedissequamente a queste.

Con il sesto sostengono violazione e falsa applicazione dell’art. 17 e segg. della direttiva del consiglio n. 77/388/CEE (sesta direttiva IVA) nel testo applicabile “ratione temporis” in quanto la Commissione di appello aveva ritenuto applicabile il principio secondo cui spettava al giudice nazionale negare il diritto alla deduzione dell’IVA al cessionario che “sapesse o avrebbe dovuto sapere di partecipare con il proprio acquisto ad una operazione che si iscriveva in una frode all’IVA “nonostante il fatto che la società ricorrente, come esposto nel quesito di diritto, agendo in buona fede era rimasta inconsapevolmente coinvolta, come comprovato anche dalla sentenza penale di proscioglimento, in una catena di cessioni facenti parte di una frode carosello”.

Con il settimo motivo deduce violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60 bis sostenendo che la Commissione, pur non menzionando tale disposizione di legge, l’aveva applicata configurando in capo alla società l’obbligo solidale al pagamento dell’IVA in capo al cedente, nonostante la disposizione citata non fosse ancora vigente all’epoca dei fatti.

Con l’ottavo motivo deduce violazione dell’art. 2697 c.c., comma 1, sostenendo che sussiste violazione dell’onere della prova “nel caso in cui, come nella specie, il giudice di merito ritenga che in caso di operazioni inesistenti, spetti al contribuente l’onere di dimostrare la propria estraneità ai fatti, nonostante da un lato l’Ufficio, pur rappresentando una serie di elementi tali da fare sorgere alcuni sospetti, non abbia tuttavia addotto alcuna prova concreta o documento utile a fare trasformare dei meri indizi in fatti provati, e, dall’altro, la società abbia comunque esibito e prodotto tutti i documenti richiesti, risultando in grado di dimostrare la fonte che giustifica la detrazione dell’IVA”.

L’Ufficio nel controricorso sostiene la inammissibilità e la infondatezza delle argomentazioni della ricorrente.

Per motivi di priorità logica, occorre prendere in considerazione in via preliminare la questione del criterio della ripartizione dell’onere della prova nella fattispecie concreta, essendo un punto di diritto essenziale sulla base del quale può e deve essere valutata la congruenza, la idoneità e la sufficienza della motivazione adottata nella sentenza impugnata. L’argomento è stato trattato dalla ricorrente nel settimo e nell’ottavo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente essendo entrambi collegati alla valutazione dell’onere probatorio, secondo i principi generali e le specifiche prescrizioni comunitarie.

Entrambi i motivi risultano inammissibili per errata formulazione dei quesiti di diritto, ex art. 366 bis c.p.c..

Infatti, il quesito deve denunciare l’errore di diritto compiuto dal giudice nel valutare una questione di fatto come dallo stesso ricostruita ed enunciata in sentenza, sicchè, mantenendo fermo il dato fattuale, il ricorrente richieda la applicazione di una diversa “regula iuris” ritenuta corretta, in luogo di quella assunta dal giudicante ed indicata come erronea.

Nella specie, in entrambi i casi, il dato di fatto su cui poggia il quesito non è quello ritenuto dal giudicante, nella specie conforme all’assunto dell’Ufficio, bensì quello sostenuto dal contribuente e negato dall’Ufficio nella impugnata sentenza, ovvero che “la società Lamda, agendo in buona fede, era rimasta inconsapevolmente coinvolta … in una frode carosello” (mot. 6) e che da un lato l’Ufficio non aveva enunciato che meri indizi laddove la società con le proprie produzioni documentali aveva provato la correttezza delle operazioni contestate (mot. 8).

In sostanza, la ricorrente pone a premessa di fatto dei quesiti l’esatto contrario di quanto ritenuto dalla Commissione di merito, con conseguente infondatezza ed irrilevanza intrinseca dei quesiti medesimi ad evidenziare i denunciati errori di diritto.

L’argomento tuttavia deve essere trattato, ai fini dell’esame delle censure motivazionali, come sopra indicato.

Occorre premettere che nella specie, e più generalmente in tutte le controversie concernenti operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, il principio generale, trattandosi di deduzioni di costi e di IVA conseguenti a tali operazioni, è che l’onere della prova grava sul contribuente, il quale, se vuole dedurre un costo, sottraendo reddito alla tassazione, deve provarne i presupposti. Tale onere, tuttavia, viene assolto in tutti i casi in cui le operazioni sono documentate da fatture regolari inserite in una corretta contabilità, in quanto, per costante giurisprudenza di questa Corte, “in tema di IVA la fattura è documento idoneo ad attestare un costo dell’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1992, art. 21” (Cass. n. 27341 del 2005). Ne consegue che nella ipotesi in cui la documentazione sia apparentemente regolare, e che la Amministrazione sostenga che la operazione documentata nella fattura formalmente corretta è inesistente, ovvero che questa è ideologicamente o materialmente falsa, con accertamento di un maggiore imponibile od indeducibilità di un costo (l’IVA versata) l’onere della prova grava sulla Amministrazione. Prova che, ai sensi del D.P.R. citato, art. 54, comma 2, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 può essere data in via presuntiva, con presunzioni anche semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti. Una volta che il giudice del merito ritenga sussistente tale requisito (che non comporta la prova assoluta del fatto, ovvero “certa” non raggiungibile per presunzioni, bensì la sussistenza di una probabilità di alto grado della conformità dell’accertamento alle indicazioni presuntive – v. Cass. n. 9784 del 2010) riprende vigore il principio generale di cui sopra ed incombe sul contribuente ex art. 2727 c.c. e art. 2697 c.c., comma 2 la prova della infondatezza della pretesa erariale.

Tali principi si applicano alla fattispecie, con la particolarità che vertendosi in materia di IVA, tributo armonizzato a livello Europeo, e di frode che coinvolge necessariamente una importazione intracomunitaria, occorre tenere conto dei principi espressi dalle direttive comunitarie in materia e dalla sentenze della corte di Giustizia (Direttiva del Consiglio n. 77/388/CEE, come interpretata dalla giurisprudenza comunitaria ed in particolare dalla sent. C- 762/93 del 6 luglio 1995, citata dalla ricorrente, e dalla sent. C- 439/04 del 6 luglio 2006, citata dal l’Ufficio e dal giudice di appello).

Il principio giurisprudenziale che si trae da dette pronunce è chiaro: ove si sia in presenza di una frode sull’IVA realizzata con una catena di successive cessioni, il cessionario ha il diritto di detrarre l’IVA ove “non sappia o non possa sapere” (sent. C-762/93) di essere coinvolto in un meccanismo fraudolento; del pari, “a contrario” qualora “sapesse o avrebbe dovuto sapere” di partecipare con il proprio acquisto ad una operazione che si iscriveva in una frode all’IVA “il giudice nazionale nega il beneficio del diritto alla deduzione (sent. C7439/04). Si è fatta, tra le parti ed anche nella sentenza impugnata, questione sulla rilevanza delle diverse formulazioni usate, e sulla differenza di significato tra il poter sapere” ed il “dover sapere”. Ad avviso della Corte tale distinzione è più formale che sostanziale, ed il fatto è comprovato dall’uso indifferenziato di tali termini nell’ambito di una giurisprudenza costante. In concreto, viene posto a carico del cessionario un obbligo di diligenza nella scelta del fornitore e di attenzione ai requisiti del soggetto cedente, non formali (essendo evidente che ogni meccanismo fraudolento si cura in primo luogo di esibire all’esterno una apparente correttezza contabile e cartolare) ma sostanziali, nel senso di una effettiva esistenza nel cedente di una efficiente struttura operativa e della capacità di fornire autonomamente i beni acquistati, senza ovviamente pretendere un inesigibile dovere di accurata indagine, ma fondandosi su quegli elementi obiettivi (ad assenza di strutture, assenza di una clientela qualificata, mancanza di indici di capacità commerciale – pubblicità, giro di affari ecc.)) che non possono sfuggire ad un contraente onesto che operi in un determinato settore commerciale e che in particolare (e qui è l’unica differenziazione terminologica accettabile) non devono sfuggire ad un imprenditore mediamente accorto.

Applicando i principi sopra esposti alla fattispecie concreta, concernente una “frode carosello” fondata sul meccanismo illustrato in premessa, ne consegue che, nel caso, come il presente, di apparente regolarità contabile della fattura, dotata dei requisiti di legge, l’onere della prova grava sull’Ufficio, nel senso che questi deve provare 1) gli elementi di fatto della frode, attinenti il cedente, ovvero la sua natura di “cartiera”, la inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento e simili; 2) la connivenza nella frode da parte del cessionario, non necessariamente però con prova “certa” ed incontrovertibile, bensì con presunzioni semplici, purchè dotati del requisito di gravità precisione e concordanza, consistenti nella esposizione di elementi obiettivi – che possono coincidere con quelli sub) 1 – tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sulla inesistenza sostanziale del contraente, il quale non può non rilevarla e peraltro deve coglierla, per il dovere di accortezza e diligenza insito nell’esercizio di una attività imprenditoriale e commerciale qualificata.

Qualora, con giudizio di fatto rimesso al giudice del merito, la Amministrazione abbia fornito una prova nei termini di cui sopra, l’onere a carico della medesima si intende assolto e grava sul contribuente l’onere della prova contraria.

Passando all’esame delle censure attinenti la motivazione della sentenza impugnata, i primi tra motivi, strettamente tra loro connessi, possono essere trattati congiuntamente.

I motivi sono infondati.

A prescindere da alcune improprietà lessicali, l’iter argomentativo esposto nella parte motiva della sentenza è chiaro e non contraddittorio. La Commissione di appello, rilevato che era un fatto certo che le società inserite nella catena di cessioni erano mere “cartiere” e che “avevano le giuste finalità di fungere da mero tramite per consentire ad altre società operative di eludere gli obblighi previsti dalla normativa IVA” (espressione impropria ma chiara sulle finalità esclusivamente fraudolente di tali apparenti oggetti economici) esposte considerazioni sull’onere della prova del tutto condivisibili perchè in linea con quanto sopra esposto, ritiene che gli elementi esposti dall’Ufficio fossero gravi precisi e concordanti ,in ordine sia al presupposto di fatto della frode sia sul coinvolgimento della società ricorrente, in quanto il complesso probatorio portava al legittimo convincimento che la società cessionaria non solo fosse il grado, ma dovesse sapere della attività illecita svolta dalla contraente apparente fornitore sulla base dell'”onere di diligenza” imposta al cessionario dalla giurisprudenza comunitaria. L’Ufficio aveva pertanto assolto all’onere probatorio che gli competeva, e in mancanza di prova contraria da parte della contribuente la pretesa fiscale doveva essere accolta.

Venendo ai rilievi specifici, la motivazione non è nè apodittica ne apparente, in quanto richiama gli elementi di prova esposti dall’Ufficio come specificamente riportati nelle premesse di fatto del processo, estremamente analitiche e precise. Detti elementi non vengono approfonditi ulteriormente in quanto dati per pacifici ed incontestati, come d’altro canto emerge dal presente ricorso, il cui la contribuente da atto di essere stata coinvolta in una frode “carosello” protestando tuttavia la sua buona fede; sicchè il punto qualificante della motivazione insiste esattamente su questo punto, che il giudice di secondo grado ha risolto nel senso di ritenere che poichè tali soggetti erano palesemente inesistenti, la contribuente doveva rendersene conto, e ciò era sufficiente per ritenere fondata la pretesa fiscale. Valutazione che appare corretta e congruamente motivata.

Anche gli ulteriori rilievi non sono fondati.

La confutazione degli argomenti del giudice di primo grado è precisa e circostanziata, in quanto deriva necessariamente dall’errato criterio di onere della prova adottato in prime cure, secondo cui l’Ufficio doveva provare in modo “certo” la malafede della società cessionaria. Ed inoltre dal non avere valorizzato il primo giudice il collegamento che la società aveva con una della “cartiere” tramite un proprio consulente (asserzione censurata elusivamente sotto un profilo lessicale, facilmente superabile, e non nel merito) e dall’avere ritenuto rilevanti accertamenti che non lo erano, avendo un esito scontato in partenza.

Tale rilievo si lega alla doglianza esposta nel terzo motivo, di simile contenuto, secondo cui la commissione non avrebbe dato il giusto rilievo alle prove documentali offerte dalla società. A prescindere dalla inammissibilità della censura, tesa ad ottenere una rivalutazione della prove in sede di legittimità, è agevole la constatazione che, conformemente all’assunto della sentenza impugnata, tali elementi sono tutti irrilevanti. Nella specie, i fatti in questione, consistenti nella esistenza cartolare della società cedente, nella apparente regolarità della documentazione nella esistenza oggettiva della fornitura, nella effettività dei pagamenti, sono non contestati ma non hanno rilievo in quanto fanno parte integrante dello schema tipico della frode “carosello” e non toccano alcuno degli aspetti qualificanti della frode, illustrati in premessa. Del pari, la archiviazione penale, emessa,come enunciato in ricorso, “per difetto di prova rigorosa della consapevolezza della pregressa frode al l’IVA” da un lato non ha effetto nel processo tributario per diversità di presupposti, e dall’altro, se un significato può avere, questo è a carico e non a favore della contribuente, in quanto l’assoluzione penale presuppone una prova piena e certa che nel processo tributario in questo caso specifico non è richiesta, e, in linea di fatto, avvalora la imponenza del materiale indiziario esposto dai verificatori e fatto proprio dall’Ufficio.

Il quarto motivo è inammissibile prima che infondato, risolvendosi in una censura non di legittimità ma di merito. Il quinto è palesemente infondato in quanto la condivisione delle tesi di una della parti, nella specie l’Ufficio, è fatto fisiologico processuale e non certo sintomo di mancanza di “vaglio critico”. Anche il settimo non è fondato. La sentenza non fa in alcun modo applicazione nemmeno implicita del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60 bis limitandosi a citarlo nelle premesse di fatto riportando una argomentazione svolta dalla società in sede di appello. Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la contribuente alle spese, a favore della Agenzia, che liquida in Euro 7.000, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 22 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2011

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