Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10405 del 01/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 01/06/2020, (ud. 16/05/2019, dep. 01/06/2020), n.10405

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5640-2015 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE TRIFIRO’, che

la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

R.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 124/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 18/02/2014 R.G.N. 1280/2011.

Adunanza camerale del 16 maggio 2019.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che la Corte territoriale di Milano, con sentenza pubblicata il 18.2.2014, respingeva l’appello interposto da Poste Italiane S.p.A., nei confronti di R.G., avverso la pronunzia del Tribunale di Varese n. 163/2010, depositata in data 8.6.2010, che, in parziale accoglimento del ricorso con il quale il lavoratore dipendente della predetta società ed inquadrato nel livello D, Area operativa (quale Addetto Staff Senior), a seguito dell’entrata in vigore del CCNL del 26.11.1994 – aveva chiesto che fosse accertato e dichiarato il proprio diritto all’inquadramento, dall’1.1.2004, nel livello B del predetto CCNL, con conseguente condanna della società al pagamento delle differenze retributive dovute, oltre agli accessori di legge, aveva accertato “il diritto del R. all’inquadramento nel livello di cui al CCNL applicato sin dall’1.1.2004 e ad espletare le mansioni corrispondenti a tale livello, condannando la società al pagamento delle differenze retributive maturate a partire dalla data indicata, oltre agli interessi legali ed alla rivalutazione monetaria dalle singole scadenze al saldo, nonchè al risarcimento del danno quantificato in Euro 20.000,00 ed alle spese di lite”;

che per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. articolando tre motivi;

che il R. è rimasto intimato;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con il ricorso, si censura: 1) la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.; artt. 115 e 116 c.p.c.; e dell’art. 21 e degli Allegati 2 e 3 del CCNL Poste del 2003, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e si lamenta che la Corte distrettuale non abbia tenuto conto dell’individuazione delle qualifiche e gradi prevista dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto dei risultati di tali due indagini come da costante giurisprudenza, ed in particolare, che i giudici di merito avrebbero dato una lettura non corretta dell’art. 21 del CCNL del 2003, che ha ridefinito il nuovo sistema di classificazione del personale articolato su sei livelli professionali che, per il caso in esame, sono relativi a quelli previsti dai livelli C e D, con specifica indicazione dei ruoli di appartenenza; ed altresì che l’attribuzione del livello D al R. “era avvenuta proprio in applicazione dei criteri fissati dalla contrattazione collettiva al momento dell’introduzione del nuovo sistema di classificazione del personale per effetto dell’entrata in vigore del CCNL dell’11.7.2003”; 2) ancora in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 c.c.; artt. 115 e 116 c.p.c., perchè i giudici di seconda istanza avrebbero erroneamente ritenuto che il R. fosse stato demansionato, in quanto, avendo egli acquisito una professionalità da tecnico, sarebbe stato destinato a svolgere mansioni di carattere amministrativo, con conseguente perdita della propria professionalità, senza considerare che le mansioni svolte dal dipendente negli ultimi anni, presso il Servizio Sportelli, fossero equivalenti a quelle proprie del suo inquadramento contrattuale; 3) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.; artt. 115 e 116 c.p.c., per avere i giudici di merito ritenuto, in assenza di prove al riguardo, che il R. avesse dimostrato di avere subito un demansionamento ed avere, per l’effetto, “commisurato tale pregiudizio in via equitativa in Euro 20.000,00”;

che il primo motivo non è fondato; con esso, all’evidenza, si censura, nella sostanza, il fatto che i giudici di seconda istanza avrebbero omesso il procedimento logico-giuridico c.d. trifasico, ritenuto necessario, alla luce del consolidato orientamento della Suprema Corte, per il corretto inquadramento del lavoratore; non avrebbero, cioè, accertato quali attività lavorative svolgesse in concreto il dipendente, non avrebbero proceduto all’individuazione delle qualifiche previste dai CCNL di categoria applicabili alla fattispecie ed infine, non avrebbero operato il raffronto tra il risultato della prima indagine e le declaratorie contrattuali individuate nella seconda;

che questo Collegio osserva, al riguardo, che la Corte di Appello, attraverso un percorso motivazionale condivisibile sotto il profilo logico-giuridico, è pervenuta alla decisione oggetto del giudizio di legittimità dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell’istruttoria espletata in primo grado ed uniformandosi ai consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali il procedimento logico-giuridico che determina il corretto inquadramento di un lavoratore subordinato si compone di tre fasi (cfr., ex plurimis, Cass. n. 17163/2016): l’accertamento in fatto dell’attività lavorativa svolta in concreto; l’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal CCNL di categoria; il raffronto dei risultati delle suddette fasi;

che, sulla scorta, quindi, degli elementi probatori emersi in prima istanza e della corretta interpretazione delle declaratorie contrattuali, la Corte di Appello ha preso atto del fatto che il nuovo CCNL del 2003, rimasto, sul punto, inalterato anche a seguito dell’entrata in vigore del CCNL del 2011, ha previsto l’inquadramento del personale in sei livelli professionali, rispettivamente dal più basso (livello F), sino al più alto (livello A), ed ha stabilito che il personale della ex Area Operativa confluisse nel livello D, nell’ambito del quale si dovessero distinguere il livello C, in cui rientrano i lavoratori che, in possesso di conoscenze specifiche di carattere tecnico-amministrativo-commerciale, svolgono particolari incarichi di responsabilità; ed il livello D, propriamente detto, per coloro che svolgono attività esecutive e tecniche con contenuti professionali di parziale o media specializzazione;

che, all’esito di tale disamina, il Collegio di merito ha motivatamente ritenuto delibato che le mansioni del R. fossero da ascrivere, sin dall’1.1.2004, nell’ambito di quelle proprie del “Tecnico Elettronica Macchina”, rientranti nel Nucleo Tecnico Manutenzione (NTM), date le funzioni in concreto svolte di Responsabile del Progetto Orion, con compiti caratterizzati da un qualificato grado di autonomia di gestione e di organizzazione, oltre che dall’assunzione di responsabilità rispetto all’intervento posto in essere e che fosse da confermare che, dalla predetta data, lo stesso fosse stato, di fatto, inserito nel ruolo e nel profilo professionale propri del livello C (v., in particolare, pagg. 3-5 della sentenza impugnata);

che neppure il secondo ed il terzo motivo – da trattare congiuntamente per ragione di connessione -, sono meritevoli di accoglimento, in quanto è ius receptum che la valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali denunciabile in sede di legittimità deve riguardare specifiche circostanze oggetto della prova e del contenuto del documento trascurato o erroneamente interpretato dal giudice di merito, sulle quali il giudice di legittimità può esercitare il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse (arg. ex Cass. nn. 21486/2011; 17915/2010); nella specie, si rileva che non è stata versata in atti, in questa sede, la documentazione offerta dalla società sin dal primo grado a sostegno dei propri assunti, nè sono state riportate le dichiarazioni rese dai testi escussi, che si assumono erroneamente interpretate dalla Corte di merito; e ciò, in violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, con la conseguenza che questa Corte non è stata messa in grado di apprezzare la veridicità della doglianza svolta (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013); a fronte di ciò, va, altresì, rilevato che i giudici di seconda istanza hanno compiutamente ed analiticamente esaminato tutte le risultanze istruttorie (v. pagg. 3-8 della sentenza impugnata) poste a fondamento della decisione oggetto del presente giudizio;

che, per quanto più specificamente attiene al pregiudizio alla professionalità derivato al lavoratore a seguito del demansionamento subito, i giudici di seconda istanza sono pervenuti alla decisione, uniformandosi ai consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali, in tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato (cfr., ex plurimis, Cass. n. 5237/2011). Pacificamente, infatti, va distinto il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno non è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere. In base ai principi generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c., è necessario individuare, quindi, un effetto della violazione incidente su di un determinato bene perchè possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del danno stesso. Al riguardo, il Giudice delle leggi ha chiarito, già da epoca non recente (v. sent. n. 372/1994), che neppure il danno biologico è presunto, perchè se la prova della lesione costituisce anche la prova dell’esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato. Nello stesso senso, questa Corte ha sottolineato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo (v., ex multis, Cass. nn. 5590/2016; 691/2012). Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonchè il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro (cfr., tra le altre, Cass. nn. 2886/2014; 11527/2013; 14158/2011; 29832/2008);

che, facendo corretta applicazione dei principi enunciati, i giudici di merito hanno motivatamente accolto le pretese del lavoratore, ritenendo correttamente che quest’ultimo, al fine della liquidazione del danno professionale, non si fosse limitato a fornire la prova della dequalificazione, ma avesse fornito adeguati elementi delibatori a sostegno del lamentato pregiudizio professionale che, da quella dequalificazione, era causalmente derivato (v., in particolare, pagg. 7 e 8 della sentenza impugnata); che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato; che nulla va disposto in ordine alle spese del presente giudizio, poichè il R. non ha svolto attività difensiva;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 16 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 1 giugno 2020

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